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Crisi e produzione di soggettività

Abbiamo fin qui accennato alla crisi che ha investito l’organizzazione fordista della società, senza approfondire tutte le declinazioni di tale crisi. Vedremo poi, nella seconda parte, come la crisi sia stata l’elemento fondamentale, anche delle esperienze di resistenza e produzione di nuove forma di vita, nell’Argentina del 2001. Crisi della rappresentanza e dello Stato, del Welfare (nella sua declinazione contestuale e peronista) e del sindacato. Necessità in altre parole di reinventare forme di governo e istituzioni nuove.

Il concetto di crisi rimanda in effetti, in differenti culture del mondo occidentale e orientale, all’idea di un contesto conflittuale, ad una realtà disgregata e caotica, e allo stesso tempo o proprio per questo a nuove possibilità di apertura e trasformazione dell’esistente. In greco, infatti, il concetto di crisi è legato alla percezione della differenza e alla consapevolezza dell’evento critico proprio come processo di trasformazione. In latino è legato ai concetti di divisione, disgiunzione, prova, rischio, ma anche di punto di svolta conseguente ad una decisione. L’ideogramma cinese che simboleggia la crisi è costituito da due parti: la prima rappresenta la minaccia e il pericolo, la seconda rappresenta l’opportunità.

Sebbene oggi la parola crisi mantenga, nel linguaggio comune, una maggior carica negativa, in questo lavoro l’accento si vuole porre invece sui cambiamenti costituenti che implicano l’esperienza di una crisi e le possibilità di rottura con l’ordine preesistente. Andiamo con ordine.

La crisi rappresenta oggi lo sfondo teorico per uno sviluppo capitalistico orientato al progressivo scaricamento verso il basso dei costi di accumulazione e competizione intercapitalistica e ciò produce la retorica della “politica dei sacrifici” che sembra essere rivolta soprattutto all’imposizione del fatto che la condizione necessaria alla sussistenza sia la totale disponibilità soggettiva alle esigenze di “flessibilità” e di “competitività” dei mercati.

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Come fondamento di questo discorso partiamo da un testo dell’operaismo italiano degli anni ’60106, dove Negri elabora un'analisi della crisi dei rapporti di classe determinata dal ciclo internazionale delle lotte della classe lavoratrice dei tardi anni '60 affermando che quelle lotte, dei salariati, ma anche dei non-salariati, avevano creato una rottura rispetto alla capacità dello stato (keynesiano) di pianificare lo sviluppo capitalistico attraverso interventi specifici sulle rivendicazioni operaie (accordi sul salario e sulla produttività) in modo da poterle trasformare in motore della crescita capitalistica della “fabbrica sociale”. Questa crisi comprendeva la sconfitta degli sforzi keynesiani di usare il denaro come mediazione e mezzo di gestione dei rapporti tra le classi. Prendendo, come punto di riferimento teorico, la discussione dei Grundrisse sull'evolversi del lavoro all'interno del capitalismo, Negri affermava che la produzione della crisi, come conseguenza dell'accentuarsi della composizione organica del capitale (come risposta alle lotte dei lavoratori), era stata realizzata per mezzo dello stato. L'analisi del rapporto tra fabbrica e società, secondo la quale al livello più alto di sviluppo capitalista, l'intera società diventava un'articolazione della produzione, spostava il punto di osservazione nella direzione in cui tutta la società viveva in funzione della fabbrica e la fabbrica estendeva il suo dominio a tutta la società.

In ogni fase è fondamentale capire chi sono i produttori e collocarli dentro lo spazio del potere, da intendersi come ordine sociale. Una determinata composizione tecnica del capitale determina una data composizione della forza lavoro; ma data la natura del rapporto, la composizione della forza lavoro è inscritta dentro una matrice antagonistica che dice chi sono i lavoratori come singolarità antagonistiche. (Fiocco 1998). Ciò per dire che può essere fuorviante confinare la crisi in un’unica prospettiva di lettura, in questo caso economica, ma è importante guardarla piuttosto come dispositivo politico. Ogni qual volta la lotta della classe lavoratrice si è dimostrata abbastanza forte, la struttura della società è stata messa in discussione, il che determina una crisi di per se. Da questo punto di vista, la crisi capitalistica è sempre stata una crisi di comando qualsiasi siano i meccanismi o le forme attraverso le quali tale crisi emerge. Anche la crisi del valore che Negri considera stare al cuore della crisi dello stato keynesiano,

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deve essere compresa essenzialmente nei termini di una crisi di comando, e nei termini delle specifiche strategie che il capitale ha cercato di adottare per il recupero del comando (che ora chiamiamo controllo) di un ordine sociale basato sul lavoro.

La crisi è crisi di governabilità della società nel suo complesso, ed è generalmente data “…dall’impossiblità di gestire l’antagonismo del nuovo soggetto con gli strumenti di potere prodotti nella fase”107 (Fiocco 1998).

Si può distinguere tra crisi di differente portata e con differenti temporalità di sviluppo: la crisi ciclica, già teorizzata da Marx ovvero l’alternarsi di riprese e recessioni, legata alle dinamiche di sovrapproduzione che tendono, appunto, a manifestarsi ciclicamente, la crisi sistemica che chiama in causa le strutture sociali su cui una determinata fase dello sviluppo capitalistico fonda il funzionamento dell’intero analizzata in particolare dalla “scuola della regolazione”, dove il manifestarsi della crisi indica piuttosto la transizione da una fase all’altra; la crisi della formazione sociale.

Gli autori che teorizzano il passaggio di fase al “capitalismo cognitivo” in cui l’accesso ai mezzi di accesso alla conoscenza108 diventano la principale posta in gioco di un conflitto centrale parlano di crisi sistemica (sempre ciclica dal punto di vista economico) che diventerebbe dato strutturale, “crisi permanente” dove la variabile è rappresentata dalla soggettività.

La “soggettività”, ennesimo termine criptico e multifunzionale delle teorie contemporanee, sta a indicare nel suo “momento elementare” il dire di no, la capacità di prendere le distanze da ciò che è dato per scontato, principio di elaborazione di un desiderio, una tensione (Jedlowsky 1991), ma anche, “processo di soggettivazione”, nella sua potenzialità antagonistica di potere costituente (Negri, Lazzarato).

Riprendendo le parole di G. Commisso, si concorda con il dire che il “concetto di soggettività esprime un movimento immanente ai rapporti sociali capitalistici, prodotto di quelle forze sociali, che sottoposte ad una condizione di dominio, di espropriazione, di subalternità e di marginalizzazione all’interno di spazi sociali

107 Continua L. Fiocco, dicendo che la crisi “…apre una frattura che, se ricomposta, porta ad una nuova fase, a partire da una ristrutturazione su nuove basi del processo produttivo, che destruttura la vecchia composizione di classe e porta ad una nuova composizione organica del capitale.” (Fiocco, op.cit, pag 44-45).

108 La conoscenza risulta essere, secondo questo approccio, prodotta in gran parte da un’attività collettiva non remunerata, da un soggetto collettivo (il general intellect di origine marxiana), dalla produzione della soggettività.

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asfittici prodotti dal capitale sono costretti ad affermare la molteplicità delle proprie modalità di esistenza come pratiche di resistenza.”109

La soggettività non è un elemento dato o naturale ma si genera nell’intreccio delle forze e delle tensioni che costituiscono una data congiuntura storica che ogni volta adotta differenti modalità di relazione con il potere. Foucault, spiega, a più riprese, come il potere non reprima la soggettività ma la produca. Il potere basa la sua capacità di controllo sulla propensione degli esseri umani ad interiorizzarne la struttura attraverso un principio simile a quello dell’educazione del bambino, il quale acquisisce abilità e ruoli interiorizzando alcuni comandi fino a che questi gli appaiono naturali. Questo ci sembra il punto di inizio per capire cosa sia e come si dia la produzione di soggettività, per poi approdare a come essa possa diventare rapporto di forza. Il potere non è solo la possibilità di decidere, ad esempio sul fare la guerra o meno, ma risiede in tutte le modalità formative all’interno delle quali l’essere è preso. In questo modo non è possibile identificare un soggetto titolare del potere ma una struttura complessa con dei nodi sensibili: ”la soggettività secondo Foucault descrive la continua tensione tra ciò che la costituisce (saperi, discorsi, tradizioni...) e ciò che per natura la porta oltre questi determinismi. [...] Senza essere libero (nozione insensata, soprattutto per uno storico) il soggetto per Foucault è nondimeno capace di immaginazione e di progetto”110. Il campo di battaglia non è dunque lo Stato o il potere concentrato in un luogo, ma è lo spazio sociale denso di rapporti di potere sistematicamente occultati. In questo contesto, gli individui ne sono al contempo soggetti, oggetti e veicolo. La posta in gioco delle attuali relazioni di potere è la produzione di soggettività, in quanto processo biopolitico in una rilettura affermativa del concetto di biopolitica: “potere sulla vita e potenza della vita” (Revel 2003). Proviamo a introdurre un elemento ulteriore sulla soggettività, immergendola nella sua concretezza storica. La soggettività è produttiva, in quanto desiderio di vita, in quanto volta dunque alla produzione e alla riproduzione della vita stessa. Scrive Negri nel recente testo Fabbrica di Porcellana, che “nella misura in cui questo desiderio di vita significa l’emergere di una resistenza al potere, è la resistenza che diviene il vero

109 G. Commisso, “Migrazioni: la soggettività oltre il pensiero di Stato. Considerazioni critiche su La Doppia Assenza di Abdelmalek Sayad”, in G. Sivini (a cura di), Le migrazioni tra ordine imperiale e soggettività, Ed. Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005p. 65-66

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motore della produzione di soggettività”111. Resistenza intesa qui come “differenza”112 ovvero “la maniera in cui la resistenza emerge contro la massa compatta del biopotere, per affermare la consistenza comune del tessuto biopolitico”113. Differenza dunque come condizione della produzione di soggettività.

Ora, il riferimento allo spazio biopolitico ci è utile per capire come esso sia il terreno del conflitto tra la “potenza” creativa delle istanze soggettive differenti, dis-ordinate, e il potere normalizzante del governo. Ovvero parliamo di spazio biopolitico e di produzione di soggettività solo nel momento in cui la differenza supera l’istanza di separazione e si fa differenza produttiva (Negri 2006). Arriviamo in questo modo all’importanza del concetto di “accumulazione soggettiva” presente nel titolo di questo lavoro. Per accumulazione soggettiva intendiamo il progressivo, ma non necessariamente lineare, inscriversi delle differenze e delle trasformazioni soggettive, in un dato spazio (non necessariamente localizzato e localizzabile in un territorio). Un accumulo che porta con sé la necessità di agire continuamente sullo spazio attraverso l’invenzione di forme di vita, di sussistenza, di relazionalità. Un accumulo sul quale si inserisce spesso il ruolo della memoria come dispositivo di soggettivazione, anche se sempre esposta ad essere nello stesso tempo strumento di controllo e di normalizzazione, soprattutto dalle strategie di governance contemporanee e soprattutto quando si tratta di memoria delle lotte sociali.