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L’unificazione italiana ha richiesto una serie di interventi capaci di riordinare la giustizia amministrativa del neonato Regno D’Italia, proclamato il 17 marzo 1861. In particolare, l’assetto fortemente frammentato su base locale dei sistemi di giustizia preunitari venne superato tramite la legge 20 marzo 1865, n. 2248, rubricata «legge per

l'unificazione amministrativa del Regno d'Italia», il cui allegato E è stato anche definito

di «abolizione del contenzioso amministrativo»169. L’attribuzione della competenza alla

Corte di Cassazione a decidere sui conflitti tra amministrazione e giudice ordinario con legge 31 marzo 1877, n. 3761 non conseguì i risultati sperati e l’insuccesso della riforma170 induce un dibattito che si concluderà con la legge 31 marzo 1889, n. 5992 istitutiva della Quarta sezione del Consiglio di Stato, con funzioni giurisdizionali171.

Risalgono allo stesso periodo le prime manifestazioni di censure per difetto di motivazione, prima con la forma di pareri dell’Adunanza Generale del Consiglio di

169 Ciò in quanto l’art. 1 disponeva «I Tribunali speciali attualmente investiti della giurisdizione del

contenzioso amministrativo, tanto in materia civile, quanto in materia penale, sono aboliti e le controversie ad essi attribuite dalle diverse leggi in vigore saranno d'ora in poi devolute alla giurisdizione ordinaria, od all'autorità amministrativa, secondo le norme dichiarate dalla presente legge.» A. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, Giappichelli, 2014, p. 20.

170 In questo senso il Mantellini. Prima della riforma con G. MANTELLINI, I conflitti di attribuzione fra

le autorita giudiziaria e amministrativa in Italia, Firenze, Barbera, 1871, e successivamente con G. MANTELLINI, I conflitti d'attribuzione in Italia dopo la legge del 31 marzo 1877, Firenze, Barbera, 1877.

171 In questo senso A. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, op. cit., p. 35, che rileva come questa

Stato, i quali tuttavia non sempre erano accolti dal Governo, e, successivamente all’1889, con le prime decisioni in sede giurisdizionale172.

Le principali ragioni dell’esistenza di un obbligo di motivazione facevano leva in un primo momento sull’art. 3 dell’allegato E alla legge 20 marzo 1865, n. 2248, a norma del quale «Gli affari non compresi nell'articolo precedente saranno attribuiti

alle autorità amministrative, le quali, ammesse le deduzioni e le osservazioni in iscritto delle parti interessate, provvederanno con decreti motivati, previo parere dei consigli amministrativi che pei diversi casi siano dalla legge stabiliti. Contro tali decreti, che saranno scritti in calce del parere egualmente motivato, è ammesso il ricorso in via gerarchica in conformità delle leggi amministrative».

Tra la dottrina, il Cammeo, pur riconoscendo l’importanza delle esigenze dei privati in relazione alla motivazione, non riteneva applicabile immediatamente l’articolo, considerandolo invece una disposizione di natura programmatica. Dall’autore venivano proposte essenzialmente ragioni di ordine pratico, egli, infatti, riteneva che l’imposizione di un generale obbligo di motivazione avrebbe rallentato eccessivamente l’attività della pubblica amministrazione, la quale sarebbe stata ostacolata al punto da non poter più svolgere correttamente la propria attività173. L’autore rileva inoltre come

«in infiniti casi della vita amministrativa, come in moltissimi della vita individuale, si prendono nelle materie di libera discrezione, saggissime risoluzioni per motivi istintivi, piuttosto che intuiti precisati o precisabili»174. Inoltre, riguardo l’eccesso di potere, egli

ribadisce che la motivazione può ben essere utilizzata per sindacare le ragioni che hanno indotto l’amministrazione a decidere, ma non è sicuramente l’unico strumento utile a tal senso, ed in quanto tale non si vede perché dovrebbe essere obbligatoria in mancanza di una disposizione di legge.

Radicalmente opposta la posizione del Ragnisco, il quale osservava che il rigetto della bozza di articolo proposta precedentemente dal progetto Borgatti175 doveva essere interpretata nel senso di imporre l’obbligo di motivazione anche all’attività di

172 Le prime censure di difetto di motivazione risalgono al 1885, tra cui il Parere 3 luglio 1885 del

Consiglio di Stato in La Legge 1885, II, 827.

173 ROMANO TASSONE, Motivazione dei provvedimenti e sindacato di legittimità, Giuffrè, Milano,

1987, p. 167.

174 F. CAMMEO, Gli atti amministrativi e l’obbligo di motivazione, in Giur. it., vol. III, 1908, p. 253. 175 Il progetto prevedeva all’art. 3 «La decisione dei ricorsi contro gli atti di pura amministrazione

riguardanti gli interessi individuali e collettivi degli amministrati spetta esclusivamente alle autorità amministrative le quali provvederanno con decreto motivato»

amministrazione attiva176. L’autore concepiva infatti la motivazione principalmente dal punto di vista del privato ed in funzione di garanzia rispetto a questi, pertanto sottolineava come l’assenza di motivazione non avrebbe permesso al privato di ricorrere giudizialmente177.

Il Consiglio di Stato invece faceva largo uso della motivazione per sindacare lo sviamento di potere, pertanto, sin dalle sue prime pronunce, aveva dedotto proprio dal suo potere di accertare la nullità del provvedimento per sviamento di potere un obbligo diretto per l’amministrazione di motivare178.

Inizia così una stagione della giurisprudenza italiana che, seppur a tratti ondivaga, a partire dall’originaria irrilevanza della motivazione sfocia, da ultimo, in punte di aperto formalismo, colpendo con l’invalidità il provvedimento carente di motivazione179. Si tratta di un indirizzo che si è fortemente sviluppato a partire dagli anni ’30 del XXI secolo fino al secondo dopoguerra, il quale, anche in caso di provvedimento motivato ma in maniera non sufficiente, ne fa discendere comunque l’invalidità del provvedimento, in quanto si tratta di «mancata esternazione della

ponderazione dell'interesse essenziale predeterminato dalla norma» 180.

Come è stato criticamente rilevato, dal punto di vista del giudice, questo orientamento si spiegava sul presupposto che lo stesso potesse indagare esclusivamente il contenuto del provvedimento, e non anche il procedimento nella sua interezza. L’idea era quella «per cui ciò che non fosse in motivazione non fosse nel provvedimento»181, e comportava l’identificazione del petitum dell’intero giudizio nello stesso provvedimento impugnato. Addirittura l’elevato formalismo aveva indotto taluni a teorizzare che il destinatario della motivazione fosse proprio il giudice. In realtà questa impostazione

176 In questo senso L. RAGNISCO, Sezione IV; Decisione 15 Maggio 1908; Pres. Perla, Est. Pincherle;

Gadaleta E Caldarola C. Capitolo Cattedrale Di Ruvo Di Puglia E Altri, in Il Foro Italiano, 1909, p. 10.

177 Per una ricostruzione più approfondita si veda R. SCARCIGLIA, La motivazione dell’atto

amministrativo. Profili ricostruttivi e analisi comparatistica, Milano, Giuffrè, 1999, pp. 177-180.

178 Anche se in alcuni casi, al contrario, permetteva la carenza della motivazione, a patto che fosse poi

l’amministrazione in giudizio a dimostrare la correttezza della decisione. Questa inversione dell’onere probatorio di fatto legittimava la motivazione postuma in giudizio. Si veda G. DE CESARE, L' eccesso di potere e la giurisprudenza del Consiglio di Stato, Padova, CEDAM, 1970, p. 70.

179 Si deve a questo filone la prima elaborazione della nozione di motivazione come «enunciazione dei

motivi», nella sua configurazione di elemento formale del provvedimento. Si veda A. CODACCI PISANELLI, L'eccesso di potere nel contenzioso amministrativo, in Giur. it., 1892, III, 143 ss.

180 M. NIGRO, Sulla riproduzione dell’atto amministrativo annullato in sede giurisdizionale, in Foro it.,

1958, III, p. 43.

181 M.S. GIANNINI, Motivazione dell’atto amministrativo, in Enc. Dir., vol. XXVII, Milano, 1977,

partiva da una premessa errata riguardo la posizione del giudice nel giudizio, il quale avrebbe invece potuto sicuramente conoscere l’intero procedimento formativo del provvedimento. Inoltre, nel caso di annullamento di un provvedimento per difetto di motivazione, la pubblica amministrazione adottava nuovamente l’atto annullato con una motivazione corretta, costringendo così il privato, qualora avesse voluto far valere profili sostanziali, a riproporre l’azione182. Ciò discende dal fatto che questa impostazione è comunque un riflesso della concezione del giudizio amministrativo all’interno dell’ordinamento, fondata sul presupposto che oggetto del giudizio non sia il rapporto giuridico sostanziale tra le parti ma soltanto il provvedimento impugnato.

Lo spunto per abbandonare questa impostazione comunque non giunse dalla dottrina ma da un’eventualità meramente fattuale verificatasi dopo il secondo conflitto mondiale: «l'aumento vertiginoso di controversie relative ad atti i quali, nel loro testo

scritto, non recavano una sola riga di motivazione, rinviando per essa ad altri atti del procedimento»183. Così la giurisprudenza si trovò costretta ad ammettere la legittimità

di motivazioni per relazionem riferita tanto ad un altro provvedimento, quanto ad un atto amministrativo generale o addirittura genericamente ai risultati dell’istruttoria.

In questo modo viene modificato radicalmente l’oggetto dell’indagine che abbandona il testo formale del provvedimento per spostarsi invece sull’intero rapporto giuridico oggetto di dibattito. Non si discute più della corretta esternazione dei motivi nel testo del provvedimento, la quale diviene essenzialmente irrilevante, conformemente alle disposizioni normative dell’epoca che non imponevano alcuno specifico obbligo di motivazione184, ma l’indagine si posta sui motivi che hanno indotto l’amministrazione a decidere, al fine di ricercare situazioni di eccesso di potere185.

Lungi dal rivoluzionare radicalmente le posizioni della dottrina e giurisprudenza che si erano precedentemente sviluppate, la nuova impostazione portò ad un ripensamento critico di posizioni eccessivamente formaliste, permettendo di giungere alla posizione assunta dalla giurisprudenza italiana degli anni ’70 del secolo scorso. La

182 M.S. GIANNINI, Motivazione dell’atto amministrativo, op. cit., paragrafo 4. 183 M.S. GIANNINI, Motivazione dell’atto amministrativo, op. cit., paragrafo 5.

184 Da qui la denominazione del filone giurisprudenziale in questione, definito da taluni «sostanziale», o

da altri come della «dequotazione della motivazione». Tra questi M.S. GIANNINI, Motivazione dell’atto amministrativo, op. cit., paragrafo 6.

185 Il risultato si deve al contemporaneo sviluppo della principale tesi sull’eccesso di potere come vizio di

potere elaborata proprio in quegli anni e che si deve al Benvenuti, si veda F. BENVENUTI, Eccesso di potere amministrativo per vizio della funzione, in Rass. dir. pubbl., 1950, 1.

motivazione veniva infatti considerata obbligatoria o meno in base al tipo di atto impugnato, le caratteristiche del provvedimento e l’interesse del destinatario del provvedimento rispetto a questo. Nella giurisprudenza dell’epoca emergeva una funzione della motivazione essenzialmente di garanzia nei confronti del privato186.

In particolare, se si considerano gli effetti del provvedimento, dovevano essere motivati quelli negativi, non invece quelli positivi. Questi ultimi dovevano infatti essere motivati soltanto nel caso avessero richiesto un’istruttoria complessa ed articolata, oppure ancora costituissero esercizio di un potere ampiamente discrezionale. Pertanto non richiedevano motivazione i provvedimenti interamente vincolati o frutto di un’istruttoria semplice, oppure tutte quelle autorizzazioni e concessioni da considerare di scarso rilievo economico o valore. Il criterio della discrezionalità e della semplicità era seguito anche per i provvedimenti dichiarativi, pertanto esclusivamente quelli valutativi dovevano essere oggetto di motivazione. Dal punto di vista della posizione del privato rispetto al provvedimento, era richiesta la motivazione per tutti i provvedimenti restrittivi della sfera giuridica del privato. Da ultimo si richiedeva motivazione per i provvedimenti di secondo grado, quali annullamenti e revoche187.

Le principali direttrici dell’epoca pertanto sembravano richiedere un onere motivazionale laddove si concentravano profili di discrezionalità e di una possibile maggior lesività della sfera giuridica del privato, mentre la semplicità e la scarsa importanza del provvedimento erano elementi che spingevano in senso contrario, permettendo di non apporre alcuna motivazione.

Il discorso peraltro era valido per la maggior parte degli atti e provvedimenti della pubblica amministrazione, per i quali la legge nulla disponeva, mentre vi erano casi di procedimenti interamente disciplinati dalla legge ed ai quali questa richiedeva espressamente l’apposizione di una motivazione188. Queste norme potevano essere

186 M.S. GIANNINI, Motivazione dell’atto amministrativo, op. cit., nota 10.

187 La ricostruzione è operata in M.S. GIANNINI, Motivazione dell’atto amministrativo, op. cit.,

paragrafo 4.

188 A titolo di esempio l'art. 10 c. 3 della D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni

concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato) «Compiuto il periodo di prova, l'impiegato consegue la nomina in ruolo con decreto del ministro, previo giudizio favorevole del consiglio di amministrazione, fondato anche sulle relazioni dei capi dei servizi ai quali è stato applicato e sull'esito dei corsi eventualmente frequentati. Nel caso di giudizio sfavorevole il periodo di prova è prorogato di altri sei mesi, al termine dei quali, ove il giudizio sia ancora sfavorevole, il ministro dichiara la risoluzione del rapporto di impiego con decreto motivato. In tal caso spetta all'impiegato una indennità pari a due mensilità del trattamento relativo al periodo di prova».

inquadrate come eccezioni rispetto alla generale assenza di obbligo, ed in quanto tali erano sicuramente insuscettibili di applicazione al di fuori dei casi e tempi dalla legge considerati.

Le posizioni della dottrina dell’epoca erano le più varie. Il filone maggioritario argomentava una funzione essenzialmente di garanzia della motivazione, principalmente in un’ottica liberale e con venature autoritarie, e pertanto si assestava sulle posizioni assunte dalla giurisprudenza189. La dottrina minoritaria, propendendo comunque per assicurare il pieno risultato della garanzia del privato, argomentava criticamente in alcuni casi l’operato della giurisprudenza, sottolineava la necessità di imporre oneri motivazionali maggiori190. Autorevole dottrina, alcuni anni dopo, tentò di rivedere lo strumento della motivazione, abbandonando la concezione del solo individuo e la funzione di garanzia per abbracciare invece il punto di vista della collettività, da individuare come destinataria della motivazione stessa, per giungere ad attribuire alla motivazione una funzione di trasparenza o addirittura di controllo democratico191. In questo senso veniva richiesto un onere motivazionale maggiore anche per tutti quei provvedimenti non in grado di incidere in maniera profonda nella sfera giuridica del singolo, quali autorizzazioni o concessioni di scarso valore economico.