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L’obbligo di concludere il procedimento entro il termine previsto dalla legge implica che, alla scadenza del suddetto termine, il provvedimento dovrebbe essere emanato e completo in tutti i suoi elementi, compresa la motivazione.

Il termine tende a ricomprendere due distinte eventualità, la prima si ha quando è la stessa amministrazione ad intervenire con un successivo provvedimento amministrativo, integrando gli estremi ed espungendo i vizi che la motivazione poteva presentare, perché carente o del tutto assente, la seconda si ha con un’integrazione che avviene direttamente in giudizio, esternando la motivazione solitamente nelle memorie difensive dell’amministrazione resistente al ricorso.

In passato la giurisprudenza era propensa a negare radicalmente la successiva integrazione in giudizio, sul presupposto che il difensore dell’autorità amministrativa non potesse sostituirsi a questa345, diversamente la dottrina era propensa ad ammetterla facendo leva sul principio di autointegrazione346. Dopo l’entrata in vigore della legge sul procedimento, la giurisprudenza si è invece per lo più assestata sull’inammissibilità dell’integrazione, sostenendo che «la motivazione deve precedere e non seguire il

provvedimento», facendo leva sui principi di «buon andamento e dell'esigenza di delimitazione del controllo giudiziario degli stessi principi di parità delle parti e giusto processo e di pienezza della tutela secondo il diritto Europeo i quali convergono nella

344 G. CORSO, Motivazione dell’atto amministrativo, op. cit., paragrafo 9. 345 Cons. St., ad. Plen., 29 ottobre 1974., n. 9 in Cons St., 1974, I, 1117. 346 M.S. GIANNINI, Motivazione dell’atto amministrativo, op. cit, paragrafo 6.

centralità della motivazione quale presidio del diritto costituzionale di difesa»347. Anche la posizione della giurisprudenza tuttavia ammette delle eccezioni al divieto di integrazione successiva, il quale «non ha carattere assoluto». Una prima eccezione concerne «il caso degli atti di natura vincolata di cui all'art. 21 octies, l. 7 agosto 1990

n. 241, in relazione ai quali l'Amministrazione può dare anche successivamente l'effettiva dimostrazione in giudizio dell'impossibilità di un diverso contenuto dispositivo»348. L’impostazione fa leva sull’applicabilità della disciplina della

dequotazione del vizio formale anche alla motivazione, spostando l’onere probatorio in capo all’amministrazione. L’amministrazione pertanto sarà tenuta a dimostrare la vincolatezza della scelta operata attraverso l’enunciazione dei presupposti di fatto e di diritto, i quali, in caso di procedimenti in cui non residua alcun margine di discrezionalità, esauriscono il contenuto della motivazione. Pertanto in questo caso si richiede una vera e proprio motivazione in giudizio, seppur limitata alla giustificazione, a pena di annullabilità dell’atto. La seconda eccezione è quella «concernente la

possibilità di una successiva indicazione di una fonte normativa non prima menzionata nel provvedimento, quando questa, per la sua notorietà, ben avrebbe potuto e dovuto essere conosciuta da un operatore professionale»349. La Corte sembra nettamente

distinguere i presupposti di tipo giuridico rispetto a quelli fattuali, tuttavia non è del tutto chiaro il principio seguito nella distinzione. Infatti, se è vero che per i primi dovrebbe valere il principio dello iura novit curia, questo dovrebbe legittimare l’integrazione successiva indipendentemente dalla conoscenza o meno per il ricorrente dell’esistenza della norma.

Sul punto le posizioni della dottrina sono tra le più varie. Alcuni ammettono in ogni caso l’integrazione successiva, anche in corso di giudizio, con la conseguente cessazione della materia del contendere350. Altri invece, soprattutto coloro che

347 TAR Salerno, (Campania), sez. I, 13 gennaio 2016, n. 23.

348 Cons. St., sez. IV, 09 ottobre 2012, n. 5257 in Foro amm. CDS 2012, 10, 2597.

349 Cons. St., sez. IV, 04 marzo 2014, n. 1018 in Foro Amministrativo (Il) 2014, 3, 806., nel caso, oltre

alle due eccezioni menzionate, il Consiglio di Stato ne menziona una terza: «non può ritenersi che l'Amministrazione incorra nel vizio di difetto di motivazione quando le ragioni del provvedimento siano chiaramente intuibili sulla base della parte dispositiva del provvedimento impugnato». Più che legittimare una vera e propria motivazione implicita, la Corte, sembra semplicemente rimarcare il limite tra motivazione sufficiente ed insufficiente, individuando nella prima una motivazione in cui sia possibile intendere le ragioni della pubblica amministrazione, anche se non vi è stata una puntuale argomentazione su tutti i singoli punti che costituiscono l’iter logico seguito.

configurano la motivazione come elemento sostanziale del provvedimento, la ritengono in ogni caso inammissibile, pertanto la carenza della motivazione evidenzierebbe sempre una figura di difetto d’istruttoria, dietro alla quale si anniderebbe un vizio di eccesso di potere. Sarebbe dunque inutile integrare o modificare il testo del provvedimento, giacché il potere, che questo è chiamato a rendere trasparente tramite la motivazione è già stato esercitato in modo non conforme alle previsioni di legge351. Un ulteriore filone dottrinale ha fatto leva sul principio del giusto processo di cui all’art. 111 della Costituzione e sulle esigenze di economia e concentrazione del processo per ritenere la soluzione della motivazione postuma preferibile rispetto a quella dell’inammissibilità. Il ricorrente che ottenesse una pronuncia di annullamento, basata esclusivamente sull’annullamento per carenza di motivazione, non precluderebbe all’amministrazione di adottare un nuovo provvedimento con lo stesso contenuto, né potrebbe, all’impugnazione di questo, gravarsi di vizi sostanziali che fossero propri del primo352. Pertanto, ammettere per il privato l’annullamento soltanto sulla base di un vizio formale potrebbe produrre un risultato meno favorevole rispetto a quello che si otterrebbe ammettendo l’integrazione. Il principio produrrebbe soprattutto effetti in un’ottica processuale, dove, riconoscendo all’amministrazione il potere di integrare la motivazione, dovrebbe far capo al privato la possibilità di presentare motivi aggiunti. Tuttavia, pur dovendosi riconoscere che questa impostazione potrebbe, in alcuni casi, garantire una maggiore tutela al privato, la possibilità di riconoscere la successiva integrazione mina alla base le funzioni interpretative, di trasparenza e di controllo democratico della motivazione. Peraltro alcuni argomentano che questa impostazione disconoscerebbe l’esistenza di una figura giuridica soggettiva in riferimento a possibili vizi formali della motivazione353. Da ultimo vale la pena segnalare quel filone dottrinale che sposta l’accertamento dal profilo sostanziale a quello processuale, ricercando la soluzione del problema nell’esistenza o meno di un interesse a ricorrere, piuttosto che un interesse legittimo354. Il giudizio dovrebbe cioè prescindere dalla sola legittimità o

351 La ricostruzione è operata in M.A. SANDULLI, Codice dell’azione amministrativa, op. cit., p. 354. 352 M. CLARICH, Giudicato e potere amministrativo, Padova, Cedam, 1989, p. 19.

353 L’opinione è espressa in M. OCCHIENA, Il divieto di integrazione in giudizio della motivazione e il

dovere di comunicazione dell'avvio dei procedimenti ad iniziativa di parte: argini a contenimento del sostanzialismo, in Foro Amm. - Tar, 2003, p. 522. L’autore fa leva sugli art. 24 e 113 della Costituzione.

354 Tra gli altri L. FERRARA, I riflessi sulla tutela giurisdizionale dei principi dell'azione amministrativa

dopo la riforma della legge sul procedimento: verso il tramonto del processo di legittimità?, in Dir. amm., 2006.

meno dell’atto per poter essere incentrato sulla situazione giuridica fatta valere, pertanto il giudice dovrebbe individuare il bene della vita cui il privato aspira attraverso il ricorso, che può essere stato pregiudicato dall’emanazione del provvedimento privo di motivazione. Se il provvedimento è interamente vincolato e non vi sono alternative alla scelta operata, allora la motivazione postuma dovrebbe essere ammessa al fine di rigettare la pretesa del privato, perché non vi è in concreto un bene della vita cui aspira che può essere ottenuto, neppure annullando il provvedimento ed ammettendone la reiterazione. Quando al contrario non si ricade nella situazione suddetta, l’integrazione potrà comunque essere ammessa al fine di determinare la liceità o meno della condotta che è stata tenuta dall’amministrazione. A questo punto, tuttavia, ammessa l’integrazione, si dovrà comunque considerare l’atto invadilo e la condotta tenuta dall’amministrazione illecita. Il ricorrente potrà giovarsi di una reintegrazione del pregiudizio subito costituita dall’annullamento del provvedimento o da un risarcimento del danno, a seconda che il primo sia o meno in grado di realizzare il bene della vita negato.