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Defaral Sa Bopp: un investimento sulla propria comunità

L’idea del progetto Defaral Sa Bopp matura all’interno dell’associazione italo- senegalese Sunugal, fondata nel 1998 da alcuni giovani della diaspora, per emanciparsi dagli anziani (riuniti nell’omonima Associazione informale13

), e proporre iniziative in- novative: creare invece pozzi, orti, ospedali, strutture che possano rendere la migrazio- ne dei loro fratelli e cugini solo un’alternativa possibile e non una necessità. Le priorità provenienti dai villaggi, infatti, erano il potenziamento della produzione agricola e il miglioramento delle strutture sanitarie ed educative. In particolare, destagionalizzare l’agricoltura e poter coltivare tutto l’anno avrebbe contribuito davvero all’auto sussi- stenza delle famiglie e sostenuto i loro redditi, grazie alla vendita del surplus dei pro- dotti agricoli. Ciò avrebbe anche evitato, nel lungo periodo, la massiccia migrazione dei giovani, non più costretti all’inattività nei periodi di siccità.

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Sunugal riunisce più di 400 migranti presenti in Italia provenienti da sette villaggi dell’area compresa attorno al confine tra la regione di Thiès e quella di Louga, che si incontrano periodicamente tra Milano, Brescia e Ber- gamo (Tall, 2008) con l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita delle popolazioni delle aree d’origine.

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Fig.1. L’area del villaggio di Gomoa Simbrofo, a 40 chilometri da Accra, protagonista del progetto Ghana- coop.

Fonte: Gao Cooperazione Internazionale.

Fig. 2. L’area del villaggio di villaggio di Beud Dieng (Senegal), sede del Progetto Defaral Sa Bopp.

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Queste attività diventano gli obiettivi del progetto Defaral Sa Bopp (“contare sulle proprie forze”), avviato nel 2005 nell’area attorno al confine tra le regioni di Thies e Louga. I membri di Sunugal, nel frattempo, attraverso diverse manifestazioni culturali e artistiche, avevano costruito una fitta rete di relazioni con volontari italiani, istituzio- ni locali – in particolare il Comune di Milano – e ONG lombarde.

Gli obiettivi del progetto, talvolta dilazionati nel tempo a causa delle difficoltà nel trovare finanziamenti, ma poi rilanciate grazie all’investimento dei migranti, costitui- scono la cornice all’interno della quale ancora oggi l’associazione innesta le sue diverse attività. Fin dall’inizio i villageois coinvolti nel progetto – alcuni in seguito all’espe- rienza della migrazione sulle piroghe e del rimpatrio forzato – sono affiancati, a secon- da dei periodi, da altri esperti locali o italiani che, sovente in modo volontario, sosten- gono il progetto con attività di formazione e consulenza tecnica. Il punto di riferimen- to dell’associazione è il centro di turismo responsabile Ker Toubab (“la Casa dei Bian- chi”) creato da Sunugal nel 2001 nel villaggio di Beud Dieng per favorire gli scambi interculturali. L’area di due ettari in cui realizzare il primo campo collettivo del proget- to Defaral Sa Bopp è affidata all’Associazione dal capo villaggio. Grazie alla realizzazio- ne, nel 2007, del primo pozzo14 (oggi sono 5 in totale), si poté iniziare a lavorare nel campo, che nel giugno 2009 occupava una superficie di due ettari e mezzo, con una produzione diversificata durante l’anno ma continua: oltre al miglio, all’arachide e all’anacardo si producevano frutta e verdura in quantità. Nel corso delle attività l’Associazione è stata affiancata dal sostegno della comunità rurale di Merina Dakhar e del Comune di Thiès, che concessero l’autorizzazione e l’esenzione dalle tasse per sca- vare dieci pozzi nell’area; dalla società italiana Italwells, sensibilizzata e coinvolta nel progetto dai membri di Sunugal, ha installato i pozzi ad un prezzo inferiore a quello di mercato; dagli scambi utili con università e studenti, italiani e senegalesi. Sunugal è riuscita ad inserire il progetto nelle realtà locali grazie ad una strategia che Galvan (2006) definirebbe sincretismo istituzionale, la capacità cioè di coniugare sensibilità tra- dizionale, elementi istituzionali e nuove esigenze.

All’avvio del progetto, tuttavia, i problemi erano frequenti. Il rendimento agricolo era ancora insufficiente a rendere il progetto auto sostenibile, ed era necessario un so- stegno finanziario consistente da parte dei migranti che, a causa del perdurare della crisi economica, talvolta stentava ad arrivare. Le attività però si erano estese anche ad altri villaggi, in cui si investivano le rimesse collettive e individuali per nuovi pozzi e coltivazioni. Grazie all’esempio e al sostegno di Sunugal il processo di cosviluppo ini- ziava ad estendersi in un’area molto più ampia del previsto.

Sunugal ha investito nelle strutture necessarie all’agricoltura e le ha affidate alle po- polazioni locali perché le gestissero secondo la partecipazione collettiva nell’ottica di diventare indipendenti dalle rimesse dei migranti. Dopo alcuni anni il processo di svi- luppo rurale avviato nei villaggi è ancora vivo e attivo: si produce sia durante la stagio- ne secca sia in quella delle piogge ortaggi, frutta e cereali, diretti al consumo locale e alla vendita nei mercati limitrofi; il prezzo dei prodotti è diminuito grazie all’assenza di

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Si tratta di pozzi moderni, che garantiscono il raggiungimento delle falde acquifere freatiche e l’ottenimento di sufficienti quantità di acqua per l’utilizzo agricolo durante la stagione secca.

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intermediari o di costi per il trasporto; i proventi derivanti dalla loro vendita presso i mercati settimanali sono reinvestiti nel ciclo produttivo. Secondo l’interpretazione di alcuni15

la gestione del raccolto è un po’ “caotica”: è necessario però considerare come la distribuzione dei prodotti segua dinamiche sociali ben precise, caratterizzate da doni, favori, prestiti, scambi, e ciò dimostra come i villaggi si siano appropriati del progetto. Le rimesse sono ancora un sussidio importante per i villaggi, ma il progetto ha creato diverse opportunità di lavoro e investimento, provocando una lieve diminuzione delle partenze dall’area, ma soprattutto una rete di attori consapevoli e capaci di gestire que- sti micro interventi evitando la dispersione di risorse, come accaduto in altri progetti di cooperazione, e colmando l’assenza fisica dei migranti. La nascita, nel maggio 2010 della GIE (groupement d’intérêt économique) And Defare Beude Dieng, paragonabile ad una cooperativa italiana, è un ulteriore indice di un buon livello di coordinamento e di auto gestione del gruppo, e della ownership del progetto. I protagonisti dell’iniziativa – beneficiari e promotori allo stesso tempo – si pongono come intermediari tra domanda e offerta di formazione e strutture, svolgendo, in sostanza, attività di orientamento anche per le popolazioni dei villaggi vicini. A Defaral Sa Bopp, grazie alla rete creata da Sunugal, si accompagnano molte altre iniziative: il Centro socioculturale di formazione in taglio e cucito (C.S.C.F.C.C) di Guediawaye (Dakar)16

; la campagna “adotta un al- bero”, che raccoglie fondi per piantare degli alberi necessari a lottare contro la deserti- ficazione; il progetto “H2Ortisol, Sole, Acqua, Terra”, avviato nel 2010 e finanziato da una serie di attori pubblici e privati oltre che dai migranti, interviene nell’agricoltura e nell’allevamento attraverso la diffusione delle energie rinnovabili (nei campi di Beud Dieng, per esempio, sono stati già installati alcuni pannelli solari per alimentare la pompa e non dipendere così dall’acquisto del carburante).

L’investimento sull’agricoltura ha contribuito a rafforzare la sicurezza alimentare e diminuire la dipendenza dall’acquisto di prodotti importati dall’estero o da altre aree del Senegal. L’inserimento e la conseguente appropriazione di strumenti e competenze tecnologicamente avanzati – i pozzi moderni per esempio – spinge i contadini alla ri- cerca di soluzioni energetiche sostenibili e alternative in loco.

L’approccio imprenditoriale è presente anche in questa seconda esperienza di cosvi- luppo, ma in modo marginale; l’esempio di Sunugal dimostra, infatti, che se le inizia- tive partono dall’investimento sulla comunità e dalla concertazione tra i migranti e le popolazioni locali si può innescare un meccanismo positivo di sviluppo sociale che poi può condurre ad uno sviluppo economico. Se da un lato è vero che il coinvolgimento degli attori socio-economico italiani ha avuto un ruolo importante nel progetto, dall’altro è evidente che Defaral Sa Bopp è esplicitamente fondato sulle relazioni perso- nali tra i migranti e le proprie comunità di origine, ed è proprio grazie a questo legame che le popolazioni coinvolte non hanno subìto gli interventi, li hanno immaginati e

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Tognetti, M., LAMA Development Agency, Rapporto di monitoraggio del Progetto “Defaral Sa Bopp”

dell’Associazione Socio-Culturale SUNUGAL, Maggio-Giugno 2008. 16

Il centro è sostenuto da Sunugal dal 2009 anche attraverso il progetto Jis Jis• (dal wolof, punto di vista) finan- ziato dal Comune di Milano, che ha costituito una cooperativa di produzione artigianale di abiti e accessori per alcune ragazze del centro e avviato la commercializzazione sul mercato locale e italiano dei prodotti realizzati.

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poi messi in pratica insieme ai migranti, trovando soluzioni condivise nei momenti di crisi.

L’indicazione più importante che si può cogliere da questa esperienza è che il cosvi- luppo non può essere un processo solo economico ma si sostanzia della qualità e della solidità delle reti sociali che i migranti riescono a costituire attorno ai propri obiettivi. La loro azione è guidata dal tentativo di includere nello sviluppo i luoghi d’origine, svuotando di senso la logica della concorrenza tra i territori. La chiave del successo dell’iniziativa di Sunugal nel coniugare solidarietà e iniziative produttive, risiede pro- prio nella capacità di sviluppare relazioni sia nelle realtà di partenza dei migranti sia in quelle di arrivo, mobilitando interesse e risorse in un processo di cosviluppo in cui essi sono realmente i protagonisti.

5. Conclusioni

Il confronto tra i due casi analizzati fornisce elementi utili per riflettere sui proble- mi di contenuto e di metodo nell’attuazione dei programmi di cosviluppo istituzionali. Il progetto Ghanacoop ha consolidato pratiche agricole rivolte all’esportazione, asse- gnando ai contadini ghanesi un ruolo marginale nell’esperienza di cosviluppo, non riuscendo a raggiungere uno dei principali obiettivi che si era posto, cioè l’avvio un percorso di sviluppo, inteso come capacità locale di formazione e accumulazione di capi- tale (Sivini, 2000, p. 112). Nell’esperienza di Defaral sa Bopp, invece, i protagonisti sono riusciti a portare avanti gli obiettivi individuati in concertazione tra i migranti e le popolazioni locali, ricevendo un sostegno poco rilevante – almeno nelle fasi iniziali – da soggetti istituzionali occidentali. Esso però ha promosso uno sviluppo sociale dei villaggi coinvolti, nel senso in cui lo definisce Sivini: “l’insieme dei cambiamenti – dal superamento della stratificazione precapitalistica, alle modificazioni ideologiche, al miglioramento delle condizioni generali di vita – basato sulle capacità monetarie, cul- turali e politiche degli emigrati, sulla redistribuzione locale dei redditi dell’emigra- zione” (ibidem, p. 113).

I casi analizzati dimostrano che per favorire lo sviluppo – sia economico sia sociale – nei paesi considerati poveri e arretrati non sia sufficiente partire dall’economico, senza considerare le problematiche specifiche – innanzitutto sociali – che, caso per caso, ri- guardano quelle aree. È utile invece comprendere le dinamiche sociali delle comunità di origine dei migranti per mobilitarle nel potenziamento delle risorse presenti sui loro territori, riconoscendo il loro coinvolgimento come sostanziale ed irrinunciabile.

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PATRIZIA MANDUCHI

La difficile strada verso la libertà religiosa.

Il dibattito sull’Islam in Italia

Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stra- nieri, allora io reclamo il diritto di dividere il mondo in disereda- ti e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia patria, gli altri i miei stranieri (don Lorenzo Milani).

1. L’islamofobia

Le cosiddette primavere arabe hanno solo scalfito l’immagine negativa della cultura e della religione musulmana, pervicacemente radicata in Occidente, e in Europa nello specifico. L’Islam è ancora associato, nell’immaginario collettivo, a scenari di violenza, terrorismo, discriminazione di genere, fanatismo religioso.

L’Islam europeo, in particolare, è ancora largamente percepito come una minaccia: dopo le Torri gemelle, nessuno ha dimenticato gli attentati di Londra e Madrid, l’omicidio di Theo van Gogh, i disordini per le vignette su Muhammad, i troppi delitti commessi contro donne che hanno osato sfidare la rigida morale familiare e hanno pagato con la vita. Tutto sembra convergere verso una definizione negativa della cultu- ra e della religione islamica, cultura della violenza e della violazione dei diritti umani; tutto sembra legittimare il sentimento diffuso di islamofobia sviluppato in ampi strati della popolazione di ogni paese europeo, con poche distinzioni fra il prospero ed evo- luto nord Europa e una Europa mediterranea, meno ricca e più tradizionalista, fino a poco tempo fa terra di emigrazione piuttosto che di immigrazione.

Islamofobia come paura dell’Islam identificato con l’altro per eccellenza, incompa- tibile con il nostro sistema di valori, pericoloso per le fondamenta delle nostre strutture socio-istituzionali, elemento di instabilità e confusione nelle nostre società, addirittura sfida alla nostra stessa identità personale e collettiva (Massari,2006).

Non si dice certo una cosa nuova o sorprendente quando si afferma che l’islamofobia ha dimostrato di essere, in questi ultimi decenni, un sentimento che si presta con particolare facilità a strumentalizzazioni politiche e che ha contribuito non poco all’ascesa delle destre populiste e xenofobe in Europa, che hanno saputo sfruttare egregiamente e con ottimi risultati elettorali il tema della lotta all’immigrazione e alla diversità culturale, inserendosi quali principali imprenditori di un “mercato globale della paura”1

.

Per comprendere come e quando un “fatto” sociale come la presenza della religione islamica in Europa sia diventato un “problema” è necessario riflettere sul fatto che la

1

Il termine islamophobia è stato coniato nel 1997 dalla Commission on British Muslims and Islamophobia, costi- tuita dal Runnymede Trust, rinomato istituto di ricerca britannico.

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presenza musulmana in Europa è una presenza forte e visibile, anche se nulla giustifica la “sindrome da invasione” che sembra aver colpito negli ultimi anni l’opinione pub- blica, i mass media e i rappresentanti delle istituzioni.

L’Islam è di fatto la seconda religione in Europa: su circa 33 milioni di stranieri re- sidenti nell’Unione europea almeno 1/3 proviene da Paesi a maggioranza musulmana (3% circa della popolazione della UE)2. Non va dimenticato che molti di loro sono musulmani di religione e cittadini europei per cittadinanza.

È a loro che si riferisce la felice definizione di Euro-islam (espressione coniata dal politologo siriano Bassam Tibi (Tibi, 2003): un Islam “declinato all’europea”, quello che vivono i musulmani in Europa, fondato cioè sul radicato consenso circa il sistema di valori e regole di base: separazione fra religione e politica, democrazia, rispetto dei diritti umani individuali, cittadinanza attiva.

Una definizione che, partendo dalla ben nota flessibilità e adattabilità dell’Islam ai