Sembra utile iniziare il nostro ragionamento partendo da due quesiti: perché, nono- stante le condizioni drammatiche dell’emigrazione italiana durante le due principali ondate migratorie di fine ottocento e del Secondo dopoguerra, solo di recente il paese ha acquisito una maggiore consapevolezza in proposito? E, più precisamente, perché ci si è resi conto di quanto fosse stentata la vita del concittadino che si recava all’estero solo nel momento e nella misura in cui l’Italia si è trasformata, nel corso dell’ultimo trentennio, da paese di emigrazione in meta d’immigrazioni?
Eppure anche le condizioni degli emigranti italiani, facendo le debite proporzioni, non erano molto dissimili da quelle degli immigrati odierni in Italia. Anzi, in alcuni casi, come in quello dell’emigrazione americana, esse sono sostanzialmente analoghe. Il viaggio nel bastimento che partiva per “terra assai luntana” – come suonava il canto dei migranti napoletani – era differente solo per la lunghezza del tragitto da quello delle carrette del mare che oggi trasportano gli abitanti dall’Africa alle coste italiane, caratte- rizzati non meno degli altri da frequenti morti per naufragi e stenti o susseguenti re- spingimenti. Situazioni analoghe dovettero affrontare i migranti dell’ultimo dopoguer- ra diretti in Francia, in Svizzera e in Belgio, confinati spesso in baracche vicino agli stabilimenti industriali o, in attesa di sistemazione, costretti a dormire nelle stazioni. Ormai numerose foto e documenti1
e i musei dell’emigrazione sorti in Italia mostrano senza più remore quella realtà.
I motivi dell’occultamento o della presa di distanza dalla realtà emigratoria si pos- sono cogliere in larga misura, a mio parere, proprio nelle complesse dinamiche del di- stacco, alla luce del quale molti fatti apparivano, agli occhi di chi le viveva, su entrambi i versanti abbastanza inconfessabili. Non è un caso che, da parte di alcuni studiosi, si parli di “diaspora” (Pozzi, 1995; Aru, 2011), evidenziando proprio certi caratteri di dispersione geopolitica che acquisisce l’emigrazione italiana, soprattutto quella più me- ridionale del paese, e per la venatura di “catastrofe” sociale che in qualche misura la attraversa – che ha come conseguenza la necessità di conservare l’identità nazionale nello spazio, posto che il “popolo disperso non coincideva con quello burocraticamen- te riconosciuto a uno Stato-Nazione”2. In questo senso si sviluppa e si forgia 1
Oggi, un monumento a questa realtà, limitatamente agli Stati Uniti, è rappresentato dal museo di Ellis Island a New York, in cui foto, documenti e testimonianze su cui sono intessute storie di vita forniscono un interessante spaccato anche dell’emigrazione italiana in America (Moreno, 2004).
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Pozzi, ponendosi il problema se si può parlare in qualche modo di diaspora italiana, pur riconoscendo che nessuna diaspora storica corrisponde al modello idealtipico (quantità, dispersione, identità), ammette che la “fuga precipitosa” in massa di una grande quantità di italiani, soprattutto dal meridione, a fine Ottocento ubbi- diva all’esigenza di “preservare tramite l’esilio l’identità sociologica delle comunità locali minacciate dalla disgre- gazione sociale e dallo sgretolamento” (Pozzi, 1995, p. 25). Perciò, se non si può parlare di diaspora nazionale
129 L’italiano errante: il disagio del migrante, fra attrazione e rigetto
un’identità italiana nel mondo che, per molti versi, è differente da quella che presenta gli italiani in Italia3. La storia ci mostra, ad esempio, che gli emigrati hanno assimilato rapidamente – e, forse, più volentieri – le parlate che già trovavano sul posto; e ciò per- ché, emigrando, si portavano appresso una babele di dialetti – un aspetto questo che rendeva molti di loro difficilmente identificabili alle frontiere come “italiani” – che non avevano alcuna possibilità d’imporsi presso gli altri migranti o essere accettati dai residenti (al massimo si potevano fondere con la lingua locale dando forma a parlate mistilingue come il “broccolino”, un misto d’inglese e italiano dialettale diffuso nel quartiere di New York, dove esisteva la più alta concentrazione dei nostri connaziona- li). Per questo il problema dell’insegnamento della lingua italiana si porrà seriamente e avrà successo, nei paesi di emigrazione, solo quando i flussi migratori si saranno asse- stati e i dialetti in qualche modo “congelati” (infatti, saranno soprattutto le seconde generazioni ad avvicinarsi all’italiano). Tuttavia, a quel punto lo strappo col paese sa- rebbe stato ormai definitivo.
Un’altra spiegazione a codesto “silenzio” va ricercata in una certa misura nel fatto che nessuno, dentro e fuori l’Italia, avesse interesse a presentare l’esperienza dell’emigrazione dei propri congiunti o dei concittadini alla stregua di un fallimento. Da qui l’esigenza, per esempio, di non dare eccessiva pubblicità ai dettagli del viaggio, della sistemazione, dei primi tempi del lavoro e delle ragioni di un possibile prematuro “ritorno” (il “rientro” costituiva, peraltro, una giustificazione simmetrica dell’“uscita” alla “ricerca di un lavoro”, soprattutto nella misura in cui attenuava il carattere di “strappo” nella scelta di espatriare). Tutto, infatti, rimane confinato o nella pubblicisti- ca specializzata (giornali dell’emigrazione, relazioni amministrative, rapporti dei di- plomatici, passaporti, statistiche ufficiali, ecc.), oppure nell’intimità familiare (lettere, foto, regali, documenti di viaggio, ecc.). Lo stesso protagonista dell’avventura migrato- ria, per analoghe ragioni, non aveva alcun interesse a presentare ai compaesani rimasti in patria la sua esperienza come un insuccesso. Anzi, era diffuso lo stereotipo che l’emigrazione dei "’mericani", per esempio, fosse sempre e comunque coronata da suc- cesso4.
Il fatto che le famiglie conoscessero – molte anche nei dettagli – le traversie dei propri congiunti, ma se ne guardassero bene dal diffonderle presso parenti e amici, poteva celare il timore che la sconfitta del familiare emigrato all’estero, in qualche mo- do si sarebbe ritorta su tutto il nucleo, magari trasformandosi in accusa per l’inadeguatezza educativa della famiglia o incapacità di trasmettere valori. Per queste ragioni anche un ipotetico “rientro” – temporaneo (per ferie) o definitivo – del mi-
perché non è coinvolto tutto il paese (come è capitato, invece, ad altre etnie, ebrei e curdi), sicuramente questo concetto può riguardare il Mezzogiorno.
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Vecoli scrive in proposito: “Alla ricerca delle loro radici, molti italoamericani hanno abbandonato l’itinerario turistico per visitare i paesi dei loro antenati. Pur apprezzando la calorosa ospitalità, la loro reazione comune (ed è il mio caso) è stata la scoperta di non essere veramente italiani, bensì italo-americani. Abbiamo scoperto che la nostra identità non si trovava in Italia ma in noi stessi, nella nostra storia e cultura” (Vecoli, 2001, p. 236).
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La stampa dell’epoca preferiva soffermarsi sui successi delle ugole d’oro italiane che dominavano le scene del Metropolitan come Enrico Caruso, Titta Rufo ed Ezio Pinza; o i successi sportivi di star del baseball, come Joe di Maggio, marito di Marilyn Monroe, e del pugilato come Rocky Marciano e Primo Carnera oppure le carriere politiche folgoranti di personaggi come Fiorello La Guardia, il grande sindaco di New York.
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grante, doveva più opportunamente risolversi in un’ostentazione di successo. In caso contrario si preferiva evitare queste occasioni (molti emigrati nelle Americhe e in Au- stralia non hanno mai avuto il coraggio di far rientro nel paese d’origine oppure ne hanno fatto sporadicamente, proprio per non sentirsi addosso la condanna sociale con- seguente all’esito fallimentare della loro scelta). Dopo di che, le ultime a desiderare pubblicità sulle condizioni degli emigrati erano le istituzioni che, a cavallo dell’Otto e Novecento, tranne l’epoca fascista, avevano indirettamente incoraggiato l’uscita in massa degli italiani attraverso i vettori e gli agenti dell'emigrazione, predisponendo, non di rado in maniera non strutturata, l’assistenza dei connazionali da parte delle strutture diplomatiche.