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Disastri ambientali e migrazioni: l’aspetto temporale

Rimanendo ad un primo livello interpretativo del rapporto intercorrente tra am- biente e migrazioni, bisogna analizzare il binomio su una scala temporale.

Frane, valanghe, alluvioni, esondazioni, eruzioni vulcaniche, terremoti, tsunami, ci- cloni, siccità, desertificazione, perdita di produttività del terreno, incendi, epidemie, salinizzazione delle acque dolci, sono tutti fenomeni naturali che possono sconvolgere la vita di milioni di persone e di intere Nazioni. A questi si possono aggiungere il crol- lo delle dighe, gli incidenti nucleari e molti altri eventi catastrofici che indicano la ne- cessità d’inserire nel discorso pure le catastrofi causate dalle opere tecnologiche. Se nel caso del crollo di una diga o di un incidente ad una petroliera è evidente il ruolo dell’azione umana nella catastrofe ambientale, così come nel caso di un terremoto o di una eruzione vulcanica è nota l’origine naturale, la distinzione uomo-natura non è sempre netta e di facile applicazione nell’analisi delle catastrofi ambientali. La defore- stazione, ad esempio, è causata esclusivamente dai cambiamenti climatici d’origine naturale o dipende anche dagli interventi dell’uomo? E quindi le migrazioni causate dalla desertificazione, sempre per ragionare in via di schematizzazione, sono causate dall’intervento della natura o dipendono da azioni dirette e/o indirette del genere u-

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mano? Gli esempi potrebbero moltiplicarsi e la domanda non troverebbe risposta uni- voca, perché risulta ormai chiaro come le variabili natura e azione antropiche siano profondamente interconnesse. Fabio Pollice afferma che si potrebbe «rappresentare le possibili configurazioni causali che sono alla base delle migrazioni ambientali come i punti di un ideale continuum le cui estremità sono rappresentate: da una parte, dai fenomeni di degrado di matrice esclusivamente naturale come i terremoti o le eruzioni vulcaniche; e, dall’altra, dai fenomeni di degrado determinati dalla sola azione umana, distinguendo eventualmente tra azioni volontarie e involontarie […]» (Pollice, 2007, p. 127).

Tale interpretazione lineare del rapporto catastrofe naturale e responsabilità del ge- nere umano, va ovviamente intensificandosi e assumendo nuovo spessore quando si inserisce nel discorso anche il fattore migrazioni.

A volte non è necessario neppure l’incidente affinché un’opera antropica costringa migliaia di persone all’emigrazione. Pollice suggerisce di procedere ad una distinzione nelle determinanti migratorie di matrice antropica: cause accidentali, progetti di svi- luppo e strategie di guerra (Pollice, 2007). Se tra le prime è facile ricordare gli incidenti nucleari e chimici, tra i secondi basta citare il grande progetto della costruzione della diga delle Tre Gole, in Cina, con il quale si auspicava un miglioramento delle condi- zioni di benessere di milioni di persone e per raggiungere tale obiettivo più di un mi- lione di persone è stato evacuato e ricollocato in nuovi o già esistenti centri urbani, sconvolgendo un’intera regione. La terza causa antropica nei processi di degradazione ambientale è rintracciabile nelle strategie di guerra, quelle strategie che utilizzano l’ambiente come arma, pressione o deterrente. Noto, ad esempio, è il problema della gestione dei corsi d’acqua e dell’uso strumentale che può essere attuato dagli Stati “a monte” nei confronti degli Stati a valle (come ad esempio lungo il corso dell’Eufrate).

Gli effetti degli eventi catastrofici sulla popolazione possono essere diretti e indiretti e, soprattutto, possono investire una scala temporale molto diversa con implicazioni decisamente differenti. Gli effetti devastanti e imprevedibili di un terremoto, ad esem- pio, implicano lo spostamento improvviso e tempestivo di intere popolazioni con una necessaria gestione coordinata dell’emergenza che preveda anche forme di tutela degli individui coinvolti. Le implicazioni dell’innalzamento del livello del mare, al contrario, per ragionare su un fenomeno di lungo periodo, investono allo stesso modo intere po- polazioni (si pensi alle popolazioni di alcune fasce costiere del Bangladesh o di alcune isole del Pacifico) ma, su una scala diacronica, permettono ai singoli e alle autorità di trovare risposte più o meno adeguate al problema dell’abbandono della casa e delle terre. Tali popolazioni, ad esempio, potrebbero decretare di abbandonare tutto e di emigrare ma potrebbero, al contrario, anche decidere di intervenire sul territorio at- tuando opere idrauliche capaci di allontanare il pericolo.

I fenomeni ambientali che causano direttamente o indirettamente le migrazioni non vanno quindi analizzati nel loro insieme ma è necessario scomporli in categorie al fine sia di poterne monitorare la distribuzione geografica ma, soprattutto, per poter individuare le problematicità specifiche di ciascuna tipologia e suggerire interventi i- donei capaci sia di tutelare il territorio che le popolazioni in un’ottica di sostenibilità. È errato pervenire ad una classificazione univoca e universale perché, al pari delle altre

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tipologie migratorie anche quella ambientale è causata da numerose variabili che cam- biano nei contesti geografici, nella storia di un luogo e nel ciclo di vita del singolo in- dividuo (Cristaldi, 2012).

Ragionando esclusivamente sul fattore ambientale, una prima differenziazione di tutti questi fenomeni può essere operata prendendo come punto di riferimento la scala cronologica, pervenendo alle due categorie generali relative agli eventi catastrofici di breve periodo e alle catastrofi di lungo periodo. All’interno di tali categorie bisogna effettuare una nuova suddivisione tra le catastrofi naturali legate ad eventi geofisici, meteorologici, idrologici, climatologici e biologici.

A partire dall’inizio degli anni ’70, periodo nel quale è cominciato il monitoraggio sistematico degli eventi catastrofici da parte del Centre for Research on the Epidemiology of Disaster, il CRED, costituitosi nel 1973 e attivo dal 1988 nella costruzione di una banca dati (EM-DAT) che raccoglie le informazioni sui disastri ambientali registrati nel mondo a partire dal 1900, il numero degli eventi catastrofici naturali è aumentato (fig. 2), così come è aumentato il numero di persone coinvolte (fig. 3), benché il numero delle vittime (decessi) sia diminuito (fig. 4) (The International Disaster Database).

Fig. 2. Numero di disastri naturali segnalati, 1975-2010.

Fonte: The International Disaster Database (http://www.emdat.be/reference-maps)

Il CRED ha registrato negli ultimi anni un incremento di frequenza delle inonda- zioni e delle tempeste (tifoni e uragani) e con i suoi studi diacronici ha evidenziato le aree maggiormente interessate dalle diverse tipologie di disastri naturali (environmental spots). A livello globale, l’Asia e l’area del Pacifico risultano le zone maggiormente inte- ressate dai disastri naturali sia dal punto di vista della frequenza che per quantità di popolazione coinvolta (Asian Development Bank, 2012, p. viii).

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Fig. 3. Persone che hanno necessitato d’immediata assistenza durante un disastro naturale 1975-2011.

Fonte: The International Disaster Database (http://www.emdat.be/).

Fig. 4. Numero di vittime di disastri naturali ogni 100.000 abitanti 1986-2005.

Fonte: The International Disaster Database (http://www.emdat.be/reference-maps).

Ma non tutte le aree colpite dagli eventi catastrofici vedono partenze di massa, per- ché l’emigrazione è anche condizionata dal grado di sviluppo economico e dalle capaci- tà d’intervento dello Stato. Steve Lonergan, già nel 1998 aveva sottolineato quale fosse il ruolo significativo giocato dallo sviluppo del Paese sulla vulnerabilità verso i cam- biamenti ambientali (Lonergan, 1998). E Richard Black, nel 2001, con un forte spirito critico, affermava che se il cambiamento ambientale c’è, questo è solo una causa parzia- le dell’emigrazione mentre l’origine dei movimenti dipende dalle disuguaglianze nello sviluppo (Black, 2001).

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Gli uragani e i cicloni che si abbattono sugli Stati Uniti, ad esempio, pur distrug- gendo intere città e regioni (si ricordi l’uragano Katrina del 2005 che si è abbattuto su New Orleans distruggendola parzialmente) e spingendo all’emigrazione migliaia di famiglie, grazie all’intervento dei governi, alle capacità tecnologiche e ai capitali pre- senti, finiscono per lasciare meno distruzione e impoverimento della popolazione ri- spetto a quanto disseminano in altri paesi (si ricordi la devastazione conseguente allo tsunami del 2004 nell’Oceano Indiano). Oppure basta paragonare la situazione di Hai- ti dopo tre anni dal terremoto (2010) con quanto si sta ricostruendo oggi, e si è già ricostruito, in Giappone dopo lo tsunami del 2011.

Tra i fenomeni ambientali di lungo periodo che si ritiene abbiano il maggior impat- to sulle popolazioni bisogna annoverare l’innalzamento del livello del mare, la siccità e la desertificazione. Lo scioglimento dei ghiacciai sta facendo registrare un sensibile aumento delle acque oceaniche mettendo in grave pericolo i territori posti al di sotto o leggermente al di sopra di tale livello. L’Asia e il Pacifico sono le aree più vulnerabili e maggiormente esposte a tale fenomeno. Esempi macroscopici di tale fenomeno sono le piccole isole del Pacifico che vedono la scomparsa progressiva dei loro territori invasi dalle acque marine. Non soltanto i terreni si assottigliano ma diventa sempre più pre- occupante anche la salinizzazione delle acque dolci e delle falde acquifere con il conse- guente aumento della salinità delle terre da coltivare. Con il tempo anche le terre non interessate direttamente dalla sommersione del mare devono essere abbandonate per le rese agricole sempre più basse. Solo per rimanere in Asia, oltre alle coste del Bangla- desh e del Vietnam, anche le zone costiere di Guangzhou, Haikou, Shanghai, Shen- zhen, e Tianjin in Cina, di Seoul nella Repubblica di Corea, così come quelle di Hon- shu in Giappone sono a rischio a causa dell’innalzamento del livello del mare.

Per lanciare uno sguardo al Pacifico, i problemi ambientali che stanno affrontando i piccoli Stati delle isole Tuvalu e Kiribati, a seguito del processo di sommersione, sono esacerbati anche da altri fenomeni demografici che spingono verso l’emigrazione. Le isole, infatti, stanno registrando un aumento naturale della popolazione mentre stanno registrando una diminuzione delle rese agricole e delle risorse disponibili, elementi che portano a crisi sociali sempre più consistenti. I governi dei due Paesi stanno appron- tando misure atte a gestire il cambiamento ambientale e la partenza in massa della po- polazione. A Tuvalu, tra l’altro, sono in via di realizzazione nuove cisterne per la con- servazione dell’acqua potabile, mentre a Kiribati è in corso il programma “migration with dignity”, un programma d’istruzione attraverso il quale offrire alla popolazione competenze professionali utili sia in Patria che nel caso di migrazione.

Nell’analisi delle migrazioni per cause ambientali bisogna anche considerare le cata- strofi di origine tecnologica, cioè tutti quegli eventi catastrofici indotti direttamente dall’azione antropica, quali ad esempio le fuoriuscite di petrolio da navi o pozzi petro- liferi, incidenti industriali, etc., che possono sconvolgere intere regioni e popolazioni. L’incidente nucleare di Chernobyl del 1986, ad esempio, come quello di Fukushima del 2011, hanno distrutto interi ecosistemi forzando la popolazione all’evacuazione e alla migrazione.

Ma i danni economici che si stimano subito dopo il verificarsi di questi eventi diffi- cilmente tengono conto dell’economia informale che permette, in realtà, la sopravvi-

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venza di intere fasce di popolazione svantaggiata quindi, in alcuni paesi, i danni ripor- tati sono molto più consistenti di quelli stimati. Le catastrofi hanno ridotto non solo la disponibilità delle risorse, di cibo, ma anche di lavoro spingendo la popolazione a mi- grare per le conseguenze indirette sull’economia.