Occorre interrogarsi se la reviviscenza possa riguardare anche i rapporti fra diritto dell’Unione europea e diritto nazionale, che sono improntati sulla prevalenza del primo nei confronti del secondo, ovviamente nel limite delle competenze attribuite all’Unione dai Trattati.
Il principio della prevalenza del diritto europeo, come noto, nell’ordinamento italiano è stato rico-nosciuto e attuato dalla Corte costituzionale con un percorso non lineare e segnato da soluzioni di continuità1. Dopo un’iniziale approccio secondo cui, in caso di contrasto fra norma nazionale e norma comunitaria, si sarebbe dovuto applicare il criterio cronologico2, è seguito un diverso orientamento secondo il quale l’antinomia si sarebbe dovuta intendere come illegittimità costituzionale della norma italiana, che pertanto sarebbe potuta essere stata dichiarata solo dalla Corte costituzionale3.
Entrambe le soluzioni non erano compatibili con la prevalenza immediata del diritto comunitario su quello nazionale come costantemente intesa dalla Corte di Giustizia, ovvero con l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare «all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contra-stante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale»4.
1 La letteratura sul punto è vastissima. Senza pretesa di esaustività, sull’evoluzione degli orientamenti sul contrasto fra norme interne ed europee v., ex pluribus, A.RUGGERI, Le fonti del diritto eurounitario e i loro rapporti con le fonti
nazionali, in P.COSTANZO,L.MEZZETTI,A.RUGGERI,Lineamenti di diritto costituzionale dell’Unione europea, IV ed.,
Torino, 2014, p. 300 ss.; R.ADAM,A.TIZZANO,Manuale di diritto dell’Unione europea, Torino, 2014, p. 222 ss.; A.
CELOTTO, Fonti del diritto e antinomie, II ed., Torino, 2014, p. 133 ss.; ID.,La prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno: orientamenti della Corte costituzionale e spunti di teoria generale, in Giur. cost., 1992, p. 4481 ss.; G.
ITZCOVICH, Teorie e ideologie del diritto comunitario, Torino, 2006, p. 210 ss.; C.PAGOTTO,La disapplicazione della legge, Milano, 2008, p. 140 ss.; F.GABRIELE,A.CELOTTO,Fonti comunitarie e ordinamento nazionale. Temi e problemi sull'impatto del diritto comunitario nel sistema italiano delle fonti, Bari, 2001, p. 131 ss.; G.TESAURO, Costituzione e
norme esterne, in Dir. Un. Eur., 2009, p. 204 ss.; G. COCCO, Una convivenza voluta ma sofferta: il rapporto tra diritto
comunitario e diritto interno, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 1991, p. 641 ss.; R.BIN,G.PITRUZZELLA, Le fonti del diritto, II ed., Torino, 2012, p. 80 ss.;S.M.CICCONETTI, Le fonti del diritto italiano, II ed., Torino, 2007, p. 445 ss.
2 Cfr. Corte cost., sent. 7 marzo 1964, n. 14, su cui v. L.PALADIN, Il sindacato della Corte costituzionale sull’“utilità
delle leggi”, in Giur. cost., 1964, p. 144 ss.; N.CATALANO, Portata dell’art. 11 della Costituzione in relazione ai trattati
istitutivi della Comunità europea, in Foro it., 1964, p. 465 ss.
3 Cfr. Corte cost., sent. 30 ottobre 1975, n. 232, su cui v. F.SORRENTINO, Brevi osservazioni sulle leggi contrastanti
con norme comunitarie. Incostituzionalità e/o disapplicazione?, in Giur. cost., 1975, p. 3239 ss.; R.MONACO, Norma
comunitaria e norma di legge interna successiva, in Foro it., 1975, p. 2662 ss.
4 Così la celeberrima Corte di Giustizia, sent. 9 marzo 1978, Simmenthal, causa 106/77, su cui v. P.BARILE, Un
impatto tra il diritto comunitario e la Costituzione italiana, in Giur. cost., 1978, p. 641 ss.; S.M.CARBONE,F.S ORREN-TINO, Corte di giustizia o corte federale delle Comunità europee?, in Giur. cost., 1978, p. 654 ss.; L.CONDORELLI, Il caso
Simmenthal e il primato del diritto comunitario: due corti a confronto, ivi, p. 669 ss.; G.SPERDUTI, Diritto comunitario
e diritto interno nella giurisprudenza della Corte Costituzionale italiana e della Corte di giustizia delle Comunità euro-pee: un dissidio da sanare, ivi, p. 791 ss.
Nel 1984 la Corte costituzionale recepì nella sostanza l’orientamento della Corte di Giustizia, sta-bilendo che in caso di contrasto fra un regolamento comunitario e una norma interna (non importa se precedente o successiva ad esso) il giudice avrebbe dovuto autonomamente applicare le disposizioni del primo in luogo di quelle interne, senza sollevare questione di legittimità costituzionale5; tale giu-risprudenza non è più stata smentita e deve considerarsi ormai consolidata in relazione a tutte le norme che hanno effetti diretti nell’ordinamento interno, cioè a tutte le norme complete e incondizionate, idonee a creare diritti e obblighi in capo ai singoli senza la necessità di un ulteriore intervento di attuazione da parte dello Stato membro6.
Le norme stabilite dai regolamenti dell’Unione europea rientrano senza dubbio in questa ipotesi: tale fonte infatti, in linea di principio e per espressa previsione dei Trattati, pone norme direttamente applicabili negli Stati membri7.
Tuttavia, è noto che è possibile riconoscere effetti diretti anche a norme desumibili da altre fonti dell’Unione. Esse possono essere ricavate da disposizioni dei Trattati o anche da disposizioni di di-rettive di cui è scaduto infruttuosamente il termine per l’attuazione, qualora siano sufficientemente dettagliate. La soluzione della immediata prevalenza sulle norme interne, inizialmente stabilita con riguardo alle norme dei regolamenti comunitari, è stata così estesa anche alle ipotesi di un contrasto derivante da norme dotate di effetti diretti previste dai Trattati8 e dalle direttive9.
Il quadro complessivo può dunque essere sintetizzato nei seguenti termini: quando l’interprete (che può essere un giudice o anche un’amministrazione pubblica) rileva un contrasto fra una norma nazionale e una norma europea dotata di effetti diretti, egli dovrà applicare la prima, mentre la se-conda non troverà applicazione nel caso concreto. Il fenomeno è comunemente definito come “disap-plicazione” della norma interna per contrasto con norma dell’Unione europea, anche se la Corte co-stituzionale ha talvolta preferito esprimersi nei termini di “non applicazione”. La questione non è meramente terminologica.
Nelle prime pronunce in cui la Corte costituzionale fece proprio l’attuale orientamento non ado-però il termine “disapplicazione” con riferimento alla norma interna soccombente. Il sostantivo fu
5 Cfr. Corte cost., sent. 8 giugno 1984, n. 170, su cui v. G.GEMMA, Un’opportuna composizione di un dissidio, in
Giur. cost., 1984, p. 1222 ss.; G.PAU, Il diritto della Comunità economica europea nell'ordinamento italiano, in Riv. dir.
int., 1984, p. 513 ss.; G.SPERDUTI, Una sentenza innovativa della corte costituzionale sul diritto comunitario, in Riv. dir.
int. priv. proc., 1984, p. 262 ss.
6 Sulla nozione di effetto diretto v., per tutti, G.CONTALDI, Effetto diretto e primato del diritto comunitario, in Diz.
dir. pubbl., a cura di S. Cassese, vol. III, Milano, 2006, p. 2124 ss.
7 Cfr. l’art. 288 del TFUE (ex art. 249 TCE), secondo comma: «il regolamento ha portata generale. Esso è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri».
8 Cfr. Corte cost., sent. 11 luglio 1989, n. 389, su cui v. G.U.RESCIGNO, Un sedicente atto di indirizzo e coordinamento
che per la Corte non è tale, in Le Regioni, 1990, p. 1556 ss.
usato in alcune pronunce successive10, ma in altre la Corte ha preferito riferirsi al fenomeno come “non applicazione”11.
La causa di tali oscillazioni risiede nella ricostruzione dualistica dei rapporti fra ordinamento ita-liano e ordinamento comunitario (opposta a quella monistica fatta propria dalla Corte di Giustizia), che la Corte costituzionale non ha mai formalmente abbandonato. In tale ottica, la “disapplicazione” consisterebbe nel trattamento giuridico riservato a un atto viziato: il contrasto con la fonte dell’Unione sarebbe tale da rendere invalido l’atto, deponendo così per una ricostruzione di tipo monistica dei rapporti fra gli ordinamenti12. La “non applicazione”, invece, non sarebbe indicativa di un’invalidità dell’atto, ma consisterebbe soltanto nell’esito di un’attività interpretativa; il che meglio si concilia con l’ottica di separazione fra gli ordinamenti seguita dalla Corte costituzionale13.
In ogni caso, ai fini che interessano nella presente sede, occorre evidenziare che il contrasto fra norma interna e norma dell’Unione direttamente applicabile deve essere risolto, nella concreta attività giurisprudenziale o dell’amministrazione pubblica, nella prevalenza delle norme derivanti dalla fonte europea. Sarebbe però scorretto identificare la condizione della norma interna soccombente al diritto dell’Unione con quella di una norma abrogata o di una norma dichiarata illegittima.
L’abrogazione, come noto, consiste nella fine del periodo di vigenza di una norma e nella conse-guente delimitazione nel tempo della sua efficacia; l’illegittimità costituzionale consiste nell’annul-lamento della norma per un vizio di costituzionalità.
La disapplicazione, invece, non incide su tali piani, riferendosi esclusivamente all’applicabilità della norma in concreto: la norma interna, dunque, pur in contrasto diretto con una norma derivante dalla fonte europea, resta vigente, né è formalmente dichiarata invalida. La disapplicazione per con-trasto con norma europea non incide sullo status della norma, ma è una situazione che si determina volta per volta, con effetti inter partes nel caso in cui essa si verifichi in un procedimento giurisdi-zionale.
10 Ad esempio, v. la già citata Corte cost., sent. 11 luglio 1989, n. 389, in cui richiamando la sentenza n. 170 del 1984 si specifica che «le norme comunitarie direttamente applicabili prevalgono rispetto alle norme nazionali (…) Più preci-samente, l’eventuale conflitto fra il diritto comunitario direttamente applicabile e quello interno (…) produce un effetto di disapplicazione” (punto 4 del considerato in diritto, corsivo aggiunto).
11 Cfr. Corte cost., sent. 18 aprile 1991, n. 168 (espressione esplicitamente preferita, nella motivazione della sentenza, a quella di disapplicazione); sent. 26 marzo 1993, n. 115.
12 Ed è proprio questo il motivo per cui, nella già citata sentenza n. 168 del 1991, la Corte rifiuta espressamente di qualificare il fenomeno come “disapplicazione”: tale termine «evoca vizi della norma in realtà non sussistenti in ragione proprio dell'autonomia dei due ordinamenti» (punto 4 del considerato in diritto).
13 Sul punto cfr., per tutti, A.CELOTTO, Dalla “non applicazione” alla “disapplicazione” del diritto interno
incom-patibile con il diritto comunitario, in Giur. it., 1995, p. 341 ss.; ID., Fonti del diritto e antinomie, cit., p. 143-149, il quale nota che nella giurisprudenza più recente della Corte sta emergendo un orientamento sostanzialmente improntato al mo-nismo; S.M.CICCONETTI, Le fonti del diritto italiano, cit., p. 448-449 sub nota 34; F.GABRIELE,A.CELOTTO,Fonti comunitarie e ordinamento nazionale, cit., p. 146; G. ZAGREBELSKY,V.MARCENÒ, Giustizia costituzionale, Bologna, 2012, p. 187; G.U. RESCIGNO, L’atto normativo, Bologna, 1998, p. 170 ss.; R.BIN,G.PITRUZZELLA, Le fonti del diritto, cit., p. 82, i quali ultimi preferiscono esprimersi in termini di “non applicazione” invece che di “disapplicazione” proprio al fine di escludere che si tratti di un’invalidità della norma interna.
Diverso è il caso in cui una norma legislativa sia impugnata in un giudizio di legittimità costitu-zionale in via principale per incompatibilità con il diritto dell’Unione dotato di effetti diretti: essa è dichiarata incostituzionale perché, nell’ipotesi di un giudizio in via d’azione, la soluzione della non applicazione rappresenterebbe «una garanzia inadeguata rispetto al soddisfacimento del dovere (…) di dare pieno e corretto adempimento agli obblighi comunitari»14. In tali ipotesi, infatti, la violazione dell’obbligo costituzionale di adeguamento agli obblighi derivanti dall’appartenenza all’Unione eu-ropea, desunto dall’art. 11 Cost. e, oggi, anche dall’art. 117, primo comma, Cost., «si sovrappone alla violazione del precetto comunitario»15.
Nelle ipotesi diverse dal giudizio in via d’azione, ovvero quando è il giudice a rilevare un contrasto fra norma interna e norma europea direttamente applicabile, sembra invece preclusa la possibilità della dichiarazione di illegittimità costituzionale proprio per effetto dell’obbligo di non applicazione: una questione di legittimità sulla norma interna non applicabile, infatti, non sarebbe strumentale per la definizione del giudizio a quo e pertanto difetterebbe strutturalmente di rilevanza16. Per questo motivo la norma disapplicata, di cui pure si potrebbe ipotizzare una censura se fosse oggetto di un giudizio in via principale, non può essere considerata come una norma di cui è stata dichiarata l’in-costituzionalità: come noto nell’ordinamento italiano tale funzione spetta solo alla Corte costituzio-nale.
È possibile, inoltre, che una norma interna non possa più essere applicata in relazione ad alcune fattispecie che sarebbe in astratto idonea a regolare – poiché disciplinate da una norma ad effetto diretto dell’Unione –, ma resti applicabile con riferimento a tutte le altre, che invece non sono prese in considerazione dalle norme europee17; circostanza che non si potrebbe ovviamente verificare qua-lora una norma fosse tout court abrogata o dichiarata illegittima, poiché nella prima ipotesi essa non avrebbe più efficacia qualificatoria per qualsiasi rapporto sorto successivamente alla sua cessazione di vigenza, mentre nella seconda ipotesi perderebbe efficacia ex tunc.
14 Così Corte cost., sent. 30 marzo 1995, n. 94, su cui v. R.BIN, All’ombra della “La Pergola”. L'impugnazione in
via principale delle leggi contrarie a norme comunitarie, in Le Regioni, 1995, p. 1140 ss. Sul punto cfr. A.CELOTTO,
Fonti del diritto e antinomie, cit., p. 148; R.BIN,Gli effetti del diritto dell'Unione nell’ordinamento italiano e il principio di entropia, in Scritti in onore di Franco Modugno, I, Napoli, 2011, p. 363 ss.
15 Così R.BIN,Gli effetti del diritto dell'Unione nell’ordinamento italiano e il principio di entropia, cit., p. 365, il
quale evidenzia come comunque come sia improbabile, stante l’attuale formulazione dell’art. 127 Cost., che una legge statale possa essere impugnata da una Regione per violazione del diritto europeo direttamente applicabile.
16 Cfr., ad es., Corte cost., sent. 13 luglio 2007, n. 284, su cui v. A.GUAZZAROTTI, Competizione tra giudici nazionali
e intervento della Corte di giustizia, in Giur. cost., 2007, p. 2788 ss. Sul punto cfr. ancheG.TESAURO, Costituzione e
norme esterne, cit., p. 206; R.MASTROIANNI,Conflitti tra norme interne e norme comunitarie non dotate di efficacia diretta: il ruolo della Corte costituzionale, in Dir. Un. Eur., 2007, p. 589; A.CELOTTO, Le “modalità” di prevalenza
delle norme comunitarie sulle norme interne: spunti ricostruttivi, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 1999, p. 1479-80; R.
BIN,G.PITRUZZELLA, Le fonti del diritto, cit., p. 82-84; G. ZAGREBELSKY,V.MARCENÒ, Giustizia costituzionale, cit., p. 187; A.RUGGERI,A.SPADARO,Lineamenti di giustizia costituzionale, V ed., Torino, 2014, p. 228; E. MALFATTI,S. PANIZZA,R.ROMBOLI, Giustizia costituzionale, V ed., Torino, 2016, p.96.
Abrogazione e disapplicazione, come pure illegittimità e disapplicazione, sono dunque fenomeni non sovrapponibili. La stessa disapplicazione non è infatti ritenuta sufficiente a garantire pienamente la supremazia del diritto dell’Unione; tale circostanza si spiega soltanto se si considera la diversità che intercorre fra le ipotesi ora considerate.
Come appena illustrato, la disapplicazione non implica necessariamente l’inibizione di tutti i pro-fili applicativi di una norma interna, ma può anche limitarsi soltanto ad alcuni di essi; soprattutto, la disapplicazione non si può imporre erga omnes, ma dipende dalle valutazioni svolte di volta in volta dall’interprete-giudice chiamato a dirimere un caso concreto. La disapplicazione di una norma in-terna, pertanto, non è in grado di garantire in modo soddisfacente la certezza e la conoscibilità del diritto, lasciando i destinatari della norma dell’Unione in una condizione di mancanza di chiarezza sulla possibilità di farvi pieno affidamento.
Per questi motivi la Corte di Giustizia ritiene che il mantenimento in vigore di norme nazionali in contrasto con quelle europee comporti una violazione degli obblighi gravanti sullo Stato membro in forza dei trattati: il sorgere di un’antinomia fra diritto interno e diritto europeo non deve considerarsi risolto definitivamente mediante la disapplicazione del primo, ma richiede che lo Stato membro ade-gui la sua legislazione, abrogando o modificando le norme contrastanti in modo da garantire tanto la certezza del diritto, quanto la piena prevalenza del diritto europeo18. Tale obbligo gravante sugli Stati membri non si giustificherebbe qualora abrogazione e disapplicazione fossero fenomeni sostanzial-mente sovrapponibili.