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DISCIPLINA INTERNA E DISCIPLINA DELLA CORTE EUROPEA

L'AGENTE INFILTRATO

E) DISCIPLINA INTERNA E DISCIPLINA DELLA CORTE EUROPEA

Un costante e progressivo allineamento ai principi della Corte Europea si riscontra nella giurisprudenza di legittimità italiana, la quale ha dato un preciso rilievo processuale alla verifica del contributo causale dell’attività dell’agente provocatore, sostenendo che non viola l’art. 6 CEDU l’attività di quest’ultimo soggetto che “si limiti a disvelare un’intenzione criminale già esistente, ma allo stato latente, fornendo l’occasione per concretizzare la stessa”62. Nel caso di specie, la Corte ritiene conforme all’equo processo

l’attività della polizia postale consistente nel mettere in rete, mediante i c.d. siti civetta, immagini pedopornografiche acquisibili da soggetti interessati alla pedopornografia, e qualificando come “non lecite le operazioni sotto copertura che si concretizzino in un incitamento o in una induzione al crimine del soggetto indagato”, con la conseguenza che “l’agente infiltrato non può pertanto commettere azioni illecite diverse da quelle dichiarate non punibili o ad esse strettamente e strutturalmente connesse”63.

La Corte di Cassazione ha così tracciato una netta distinzione tra la figura dell’agente infiltrato e quella dell’agente provocatore, che non ha mai avuto una esplicita definizione normativa. Questa linea di tendenza ha trovato compiuto sviluppo in una recente sentenza di legittimità, relativa ad operazioni antidroga condotte da agenti della polizia municipale64.

Più precisamente, gli agenti della polizia municipale di Sassuolo si erano finti imprenditori interessati all’acquisto di una partita di cocaina per un corrispettivo di 60.000 € e, nel corso della vendita della sostanza illecita, avevano arrestato la persona sottoposta ad indagini e avevano sequestrato il corpo del reato, rinvenuto nell’automobile del complice. La Cassazione, dopo avere ribadito il tradizionale orientamento secondo cui “l’attività dell’agente di polizia giudiziaria risulta legittima quando costituisce in via prevalente

62 Cass., Sez. III, 3 luglio 2008, Malentacca, in Mass. Uff., n. 240270 63 Cass., Sez. II, 9 ottobre 2008, Cuzzucoli e altri, in Mass. Uff., n. 241442 64 Cass., Sez. III, 10 gennaio 2013, Leka, in Mass. Uff., n. 254174

un’attività di osservazione, controllo e contenimento delle azioni illecite altrui”, ha precisato che l’infiltrazione nell’ambito della criminalità organizzata risulta rispettosa dei canoni dell’art. 6 CEDU se “la commissione del reato dipende dalla libera scelta del reo” e non è influenzata in maniera sostanziale dall’azione degli agenti di polizia. Si è rilevato, altresì, che “l’induzione e l’incitamento al reato determinano quindi non solo la responsabilità penale dell’agente, ma l’inutilizzabilità della prova acquisita, per contrarietà ai principi del giusto processo e rende l’intero procedimento suscettibile di un giudizio di non equità ai sensi dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”65.

La pregnante interazione tra profili sostanziali e processuali, che è alla base della nozione di “equo processo”, trova conferma nella sentenza in esame mediante il riconoscimento del principio di legalità processuale, espressione del rapporto tra Stato democratico e cittadino. Alla luce di un'interpretazione “convenzionalmente orientata”, pertanto, la verifica della rilevanza causale della condotta dell’agente provocatore diventa il parametro del rispetto del principio dell’equo processo. Ne consegue l’inutilizzabilità delle prove assunte nell’ambito di un’attività di provocazione al reato da parte della polizia, anche senza la mediazione di uno specifico divieto probatorio posto da norme processuali66.

Secondo ormai costante giurisprudenza costituzionale e di legittimità, infatti, sono inutilizzabili le prove assunte con modalità lesive dei diritti fondamentali del cittadino; un fenomeno, questo, di cui le operazioni sotto copertura costituiscono un'esplicazione, qualora esse determinino la perpetrazione di un reato ad opera di un soggetto che altrimenti non se ne sarebbe reso autore67.

Diversamente, non sussiste violazione dei diritti fondamentali qualora la responsabilità penale del soggetto venga accertata sulla base di elementi di 65v. Zacchè, Operazione antidroga condotta dalla polizia municipale: riflessioni in

punto di utilizzabilità della prova, in www.penalecontemporaneo.it

66 cit. Balsamo, Operazioni sotto copertura, pag. 67

67 Cfr. Corte cost., n. 34 del 1974, in www.giurcost.org; Cass., SS.UU. 25 marzo 1998, Manno, in Mass. Uff., n. 210610; SS.UU. 13 luglio 1998, Gallieri, ivi, n. 211196; SS.UU. 23 febbraio 2000, D’Amuri, ivi, n. 215841; SS.UU. 28 maggio 2003, Torcasio ed altro, ivi, n. 225465

prova autonomi rispetto a quelli riconducibili all’attività di provocazione al reato. Nel caso di specie, tuttavia, la Corte di cassazione afferma che l’operazione della polizia municipale non può essere qualificata né come attività sotto copertura, in quanto “non si trattava di operazione antidroga specificamente disposta e comunicata alla Direzione centrale per i servizi antidroga ed all’autorità giudiziaria” (in proposito, deve osservarsi che il nuovo testo del terzo comma dell’art. 9 della L. 16 marzo 2006, n. 146, individua nella Direzione Centrale per i Servizi Antidroga l’autorità competente a disporre le operazioni sotto copertura in materia di attività antidroga; analoga competenza è affidata, d’intesa con tale Direzione Centrale, agli organi di vertice ovvero, su loro delega, ai responsabili almeno di livello provinciale, in ragione dell’appartenenza del personale di polizia impiegato), né come “attività riconducibile all’azione tipica dell’agente provocatore, in quanto il comportamento degli agenti della polizia municipale non ha affatto provocato un intento delittuoso prima inesistente”. L’azione delittuosa contestata all’indagato era, infatti, quella di detenzione di un ingente quantitativo di sostanza stupefacente ai fini della cessione (circa 500 gr di cocaina) e non anche la condotta, cronologicamente successiva, di messa in vendita della stessa sostanza. Pertanto, l’operazione di polizia giudiziaria, consistente nell’attivazione delle trattative per l’acquisto della droga, rappresentava un fattore estrinseco rispetto all’autonoma condotta penalmente rilevante già posta in essere dal reo, prima dell’inizio delle investigazioni. Dunque, in linea con le pronunce della Corte di Strasburgo, l’intervento della polizia municipale si limitava a disvelare la pregressa attività delittuosa, ma in violazione della disciplina sulle operazioni sotto copertura. L’interpretazione conforme alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo può, così, contribuire all’armonizzazione della law of evidence (che appare come una componente essenziale della dinamica di integrazione giuridica europea), introducendo nel sistema italiano un potere-dovere del giudice di valutazione circa l'utilizzabilità della prova imperniato su due parametri: da un lato, le modalità della condotta dell’agente provocatore (in particolare, la sua idoneità a istigare l’imputato a commettere un reato che altrimenti non sarebbe stato realizzato); dall’altro, l'autonomia ed incontrovertibilità degli ulteriori elementi di convincimento rilevanti per

l’accertamento della responsabilità del soggetto. Ma la Suprema Corte va oltre: infatti, in un obiter dictum, infatti, precisa che, in ogni caso, “risulta pur sempre legittimo, e utilizzabile come prova, il sequestro probatorio del corpo di reato, o delle cose pertinenti al reato, rinvenute a seguito di un’attività di polizia dalla quale pur venga riconosciuto il superamento dei limiti imposti dalla legge per le attività di contrasto al traffico di sostanze stupefacenti”. Tale principio di diritto trova conferma nell’arresto delle SS.UU. del 1996 n. 5021, relativamente al rapporto tra perquisizione illegittima e sequestro probatorio, nonché, più recentemente, nell’orientamento seguito dalla giurisprudenza di legittimità in relazione ad un’operazione di polizia giudiziaria culminata nel sequestro di una partita di stupefacenti e svolta per il tramite di un agente provocatore, ma in violazione dell'art. 97 d.P.R. n. 309/199068.

In ossequio al brocardo latino 'male captum bene retentum', il sequestro probatorio viene considerato atto dovuto, dotato di autonoma rilevanza, a prescindere dalle modalità con cui vengano scoperte le cose materiali.

Si ritiene, pertanto, che la nullità degli atti compiuti dalla polizia giudiziaria per violazione di legge, e la loro conseguente inutilizzabilità nel processo, non si rifletta sulla ritualità del disposto sequestro probatorio; il potere del giudice di apprendere coattivamente e di acquisire la prova è preesistente all’atto, anche qualora esso sia compiuto con modalità illegittime. Ed invero, “ancorché nel contesto di una situazione non legittimamente creata, il sequestro rappresenta, invero, un atto dovuto, la cui omissione esporrebbe gli autori a specifiche responsabilità penali, quali che siano state, in concreto, le modalità propedeutiche e funzionali che hanno consentito l'esito positivo della ricerca compiuta”69.

Qualora, dunque, l’ufficiale di polizia giudiziaria esegua una perquisizione fuori dai casi e dai modi consentiti dalla legge, ha comunque l’obbligo di sequestrare la cosa pertinente al reato rinvenuta nel corso dell’attività investigativa, in quanto l’arbitrarietà o l’illiceità della condotta non può privare l’autore della qualifica soggettiva dallo stesso rivestita.

Il corpo del reato, pertanto, pur se acquisito illegittimamente, non può mai 68 Cass. Sez IV, 22 Aprile 2008, Varutti, in Mass. Uff., n. 239526

essere restituito, rilevando esso stesso come notitia criminis per la fattispecie di reato diversa da quella per la quale si procede ex art. 14 legge n. 269 del 1998 ovvero fornendo eventuali elementi per la prosecuzione delle indagini già avviate.

Tale principio di diritto trova conferma anche in numerose attività sotto copertura di contrasto alla pedofilia, con la conseguenza che il materiale pedopornografico acquisito in violazione dell’art. 14 legge n. 269 del 1998, sebbene inutilizzabile probatoriamente, possa essere sequestrabile come res, in quanto costituente corpo del reato o cosa pertinente al reato. Diversamente, si era affermata l’inutilizzabilità, ex art. 191 c.p.p, delle prove acquisite in violazione dei divieti formali e sostanziali stabiliti dalla legge. Più precisamente, si era ritenuto illegittimo l’eventuale sequestro probatorio del materiale pedopornografico “in quanto non si può affermare la sussistenza del “fumus delicti” in base ad un risultato investigativo inutilizzabile”. Nel caso di specie, infatti, la polizia giudiziaria di propria iniziativa, e senza la preventiva autorizzazione dell'autorità giudiziaria, aveva svolto attività di contrasto sotto copertura, stipulando un contratto di accesso ed iscrizione ad un sito pedopornografico, e procurandosi in tal modo alcune immagini pedopornografiche commercializzate nella rete informatica. La sentenza in commento, invece, riconosce valenza probatoria autonoma agli oggetti sequestrati, costituenti corpo del reato o cose pertinenti al reato, ex art. 253 c.p.p.

Ad avviso della Suprema Corte, pertanto, il carattere autonomo di tale mezzo di ricerca della prova scaturisce dalla natura intrinsecamente oggettiva ed incontrovertibile dello stesso, utilizzabile come prova ai fini della responsabilità penale del soggetto, a prescindere dalle concrete modalità di acquisizione delle cose che ne formano oggetto. Sul punto non sono mancate critiche da parte di chi, in linea con la giurisprudenza della CEDU, ritiene che l’irritualità delle operazioni sotto copertura comporti l’inutilizzabilità dei successivi atti probatori strettamente dipendenti dall’attività investigativa speciale svolta in modo difforme dal modello legale. A questo punto risulta necessario descrivere, seppur in maniera riassuntiva, l'impostazione della disciplina che possiamo intuire dal dispositivo di alcune sentenze della Corte Europea; infatti, per quanto riguarda l'art. 6 CEDU, va evidenziata, anzitutto,

la sentenza 23 ottobre 2014 Furcht c. Germania, relativa ad un'indagine sotto copertura: la Corte Europea ha riscontrato la violazione del principio dell'equo processo, in quanto gli agenti undercover non si sono limitati ad una condotta passiva, ma hanno indotto il ricorrente a commettere il reato, convincendolo a portare a compimento il disegno criminoso, nonostante egli avesse espresso le proprie perplessità sulla prosecuzione dell'operazione. Inoltre, le prove conseguite tramite l'attività degli agenti provocatori sono state utilizzate per la condanna; a tal riguardo, i giudici di Strasburgo hanno osservato come, al fine di escludere la sussistenza dello status di vittima ai sensi dell'art. 34 CEDU, non possa equipararsi all'estromissione delle prove così ottenute il riconoscimento da parte dei giudici interni dell'attività di provocazione e la conseguente mitigazione della pena.

Il caso in questione era il seguente: nell'ottobre 2007, nel quadro di un'indagine per traffico di droga, viene autorizzata un'operazione sotto copertura nei confronti di sei soggetti (fra cui non figura il ricorrente). La polizia decide di stabilire i contatti con S., un indagato, attraverso il ricorrente. Dopo che un agente comunica al ricorrente la poca convenienza dell'(inizialmente concordata) operazione di contrabbando di sigarette, il ricorrente dichiara la disponibilità sua e di S. al traffico di cocaina e anfetamine, non volendo però essere coinvolto direttamente e pretendendo solo delle commissioni. Qualche giorno dopo, il ricorrente informa gli agenti di non essere più interessato all'attività illecita. Gli agenti convincono però il ricorrente a proseguire l'operazione, all'esito della quale viene arrestato. Il processo si conclude con la condanna del ricorrente, sulla base della sua confessione e dei verbali degli agenti sotto copertura; la pena è tuttavia ridotta in ragione del fatto che il ricorrente è stato incitato dagli agenti di polizia a commettere il reato.

Il ricorrente ritiene iniquo il procedimento, in quanto è stato condannato per un reato che è stato provocato a commettere dagli agenti sotto copertura (condanna per di più basata sulla prove ottenute in virtù dell'operazione undercover). Appurato come al momento del primo approccio da parte degli agenti sotto copertura non vi fossero sospetti sul coinvolgimento del ricorrente nel traffico di droga, la Corte Europea nega che il ricorrente potesse ritenersi già intenzionato a commettere l'illecito. Per di più, il

ricorrente si è definitivamente convinto a compiere il reato solo dopo l'opera persuasiva degli agenti undercover: pertanto, può affermarsi che questi ultimi abbiano indotto il ricorrente a delinquere. Le prove così ottenute sono poi state utilizzate per la condanna. Di qui la violazione dell'art. 6 comma 1 CEDU, che non può ritenersi scongiurata dal più mite trattamento sanzionatorio irrogato, motivato proprio dal riconoscimento - da parte dei giudici tedeschi - di un'attività di incitamento da parte degli agenti di polizia. Sempre in tema di operazioni undercover, si segnala la sentenza 30 ottobre 2014 Nosko e Nefedov c. Russia, in cui la Corte di Strasburgo, nel ravvisare la violazione dell'art. 6 comma 1 CEDU, ha rimproverato allo Stato russo l'assenza di qualsiasi controllo giudiziario sul potere discrezionale della polizia di intraprendere attività sotto copertura; il caso di specie era così articolato: i due ricorrenti, in due vicende separate, sono entrambi coinvolti in operazioni undercover. Con riguardo alla prima vicenda, la polizia riceve informazioni confidenziali che additano la ricorrente come implicata nel rilascio, dietro compenso, di falsi certificati di malattia. Il 20 novembre 2007, l'agente sotto copertura Ms. A. si reca dalla ricorrente, accompagnato da un collega di quest'ultima, per ottenere un certificato di assenza per malattia. Tre giorni dopo, Ms. A. chiede alla ricorrente di prolungare i giorni di congedo: ricevuto il certificato, Ms. A. consegna dei soldi alla ricorrente. Subito dopo, nell'ufficio fa irruzione la polizia. Il processo si conclude con la condanna della ricorrente.

Quanto alla seconda vicenda, dopo aver ricevuto informazioni confidenziali, la polizia decide d'intraprendere un'operazione sotto copertura con riguardo al ricorrente, sospettato di rilasciare falsi certificati dietro corrispettivo in denaro. Il 18 luglio 2008, dopo essere stato accompagnato da un agente di polizia per un "alcool test", l'agente undercover Mr. Y. chiede al ricorrente di manomettere il risultato dell'esame, poiché teme che il livello di alcool ecceda il limite legale, con la conseguente revoca della patente di guida. In un primo momento, il ricorrente rifiuta categoricamente; tuttavia, a seguito di una promessa di denaro e delle reiterate suppliche di Mr. Y. (che afferma l'indispensabilità della patente di guida per mantenere la propria famiglia), il ricorrente accetta il denaro per falsare l'esito degli esami. Immediatamente

dopo, la polizia entra nello studio del ricorrente e lo arresta. Il processo si conclude con la condanna del ricorrente.

I ricorrenti ritengono che siano stati condannati per reati commessi a seguito della provocazione della polizia, in violazione dell'art. 6 comma 1 CEDU. La Corte europea condivide le doglianze di entrambi, ritenendo iniqui i procedimenti nei loro confronti; infatti, in entrambe le vicende, l'operazione sotto copertura è stata disposta, in assenza di qualsiasi controllo giudiziario, dalla polizia, con ampia discrezionalità e senza una preliminare attività investigativa che verificasse la fondatezza delle informazioni confidenziali ricevute. Per di più, gli organi giurisdizionali non hanno adeguatamente verificato le obiezioni dei ricorrenti, relative sia all'inesistenza di ragioni che giustificassero l'operazione undercover sia alla natura dell'attività posta in essere dagli agenti sotto copertura, non meramente passiva ma di provocazione alla commissione del reato70.

L’evoluzione del “diritto vivente” fin qui verificatasi sembra, dunque, confermare l’assunto che il vincolo ermeneutico scaturente dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo non impedisca di riconoscere valenza probatoria agli oggetti sequestrati che siano di per sé qualificabili come corpo del reato o come cose pertinenti al reato, a prescindere dalle modalità con cui è avvenuta la loro acquisizione. La portata innovativa della pronuncia assume un particolare significato perché incide su un tema, come quello delle operazioni sotto copertura, che coinvolge la visione di fondo del ruolo della polizia giudiziaria e della stessa repressione penale, rappresentando una vera e propria cartina tornasole per la distinzione tra culture democratiche e culture autoritarie nel campo del processo penale71. F) LA FIGURA DELL'AGENTE UNDERCOVER

Un primo esame diacronico della normativa in materia di attività di indagine sotto copertura posta in essere dalla polizia giudiziaria ci rivela un aspetto assolutamente insospettabile: difatti, la figura dell’agente undercover 70 v. Casiraghi, in Diritto Penale Contemporaneo, Monitoraggio CEDU 2014, su

www.penalecontemporaneo.it

risultava essere il distillato di una travagliata elaborazione giurisprudenziale che, in assenza di un dato normativo positivo specifico, ha dapprima configurato la legittimità della condotta dell’undercover alla luce di un'interpretazione estensiva dell’ art. 51 c.p.

Per quanto concerne l'agente sotto copertura appartenente alla polizia giudiziaria, l'esclusione della responsabilità penale veniva ricollegata all'adempimento di un dovere. Si operava così un espresso richiamo al disposto dell'art. 55 c.p.p, che pone in capo alla polizia giudiziaria l'obbligo di assicurare le fonti di prova dei reati e di ricercarne gli autori.

In particolar modo la Suprema Corte si era senza meno pronunciata sull'ammissibilità della condotta dell'agente infiltrato, dichiarandosi, tuttavia, fortemente restrittiva in ordine al concreto spazio operativo che a questo poteva essere concesso. L'orientamento assolutamente consolidato era (ed è tuttora) nel senso che l'agente undercover non è punibile in quanto espleti un'attività avente efficacia di mero “controllo, osservazione e di contenimento dell’ altrui attività illecita”72.

Di converso risultava penalmente perseguibile , alla stregua di un concorrente ex art. 110 c.p, il soggetto che svolge una concreta attività di istigazione o, comunque, un'attività avente efficacia determinante o concausale nella progettazione e commissione dei delitti. D'altronde l'art.51 c.p. esclude la punibilità in caso di esercizio di un diritto scriminante, a condizione che la norma che ne autorizzi l’esercizio mediante una condotta che ordinariamente è penalmente illecita, enuclei, anche implicitamente, il duplice requisito legittimante della necessità di agire e della proporzione della condotta rispetto all’ evento delittuoso da contenere e/o evitare.

L'art. 97 comma 1 del D.P.R. 309/90 legittima all'effettuazione di attività undercover gli ufficiali di polizia giudiziaria addetti alle unità specializzate antidroga (per la POLIZIA DI STATO: Servizio Centrale Operativo, Centri Criminalpol, Sezioni Stupefacenti della Squadre Mobili; per i 72v. Cass. Pen. sez. VI., 31.12.1998 n.669, Cass. Pen 1999, 800: “ […] Quando,

invece, la condotta dell’ agente si inserisca nell'iter criminoso con rilevanza causale , nel senso che l'evento delittuoso sia conseguenza diretta della sua condotta , non opera la causa di giustificazione e l'agente è punibile a titolo di concorso di reato”

CARABINIERI: Reparto Operativo Speciale , Reparto Operativo AntiDroga e Nucleo Operativo di Reparto Operativo; per la GUARDIA DI FINANZA: Gruppo Operativo Antidroga e G.I.C.O.), che agiscano in esecuzione di operazioni antidroga disposte dalla Direzione centrale per i servizi antidroga o, d’intesa con questa, dal Questore, dal Comandante del gruppo dei Carabinieri o della Guardia di Finanza o dal Comandante del nucleo di polizia tributaria, o dal direttore della Direzione Investigativa Antimafia. Di analogo tenore è il disposto evincibile dall'art. 12 quater del D.L. 306/1992 convertito con modificazione nella L. 356/1992, laddove qualifica

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