INTERESSE GENERALE
7. LE ESIGENZE DI RIDUZIONE DELLE PARTECIPAZIONI LOCALI: LE RAZIONALIZZAZIONIN E LE DISMISSIONI DELLE PARTECIPATE LOCALI.
7.4. Effetti sulla disciplina civilistica e profili di (il)legittimità costituzionale;
In astratto la dismissione dell’ente locale non realizza una ulteriore forma di recesso da affiancare alle ipotesi normativamente disciplinate dal codice civile, valevole solo per gli enti locali,
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come sostenuto da una parte della giurisprudenza, atteso che si tratta in realtà di una “cessazione ex lege”, poiché il comma 569 non parla mai di recesso (la disciplina del recesso viene richiamata unicamente ai fini dell’applicazione dei criteri stabiliti dall’art. 2437-ter, co. 2°, per la determinazione del valore di liquidazione della quota), ma di “cessazione ad ogni effetto”. In ogni caso, al di là che si tratti di recesso ex lege o di cessazione della partecipazione cui consegue la liquidazione della quota secondo i criteri stabiliti per il recesso, l’effetto raggiunto dalle norme richiamate è comunque quello di concedere una deroga peculiare utilizzabile solo per le partecipate locali. In tal senso, le norme cit., pongono rilevanti problemi sia sul piano del procedimento che su quello degli effetti.
Il comma 611, della legge n. 190/2014, si apre mantenendo fermo quanto previsto dall’art. 3, commi da 27 a 29 cit., e dall’art. 1, comma 569 cit., di talché emerge chiaramente come le nuove norme, non abroghino quelle preesistenti e quindi implicitamente confermino la vigenza di due sistemi normativi aventi differente oggetto che disciplinano da un lato l’alienazione delle partecipazioni vietate per legge e dall’altro le operazioni su partecipazioni consentite dall’ordinamento, in ordine alle quali non si verificano ipotesi di divieto e di dismissioni forzose (211).
Alla luce di tale dettato normativo occorre estrapolare un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 1 comma 569 della legge n. 147/2013, anche al fine di salvaguardarne la reale portata applicativa. La disciplina che trae origine dalla norma cit., può considerarsi conforme a Costituzione ed anche ai principi positivizzati nell’art. 4, comma 13, del d.l. n. 95/2013, solo ed esclusivamente per il caso in cui sia applicabile a società totalmente in mano pubblica ovvero che la norma sia effettivamente riferita alle sole partecipazioni vietate per legge e non anche a quelle che, pur ammesse dall’ordinamento, l’Ente locale valuti non più opportune. Per esse, dovrà necessariamente applicarsi la disciplina civilistica in materia di dismissione delle partecipazioni societarie. Occorre cioè interpretare tale norma come una deroga ai principi generali sulle società pubbliche ovvero a partecipazione pubblica, secondo le coordinate ermeneutiche rassegnate a più riprese dalla giurisprudenza civile ed amministrativa (212).Per quanto attiene alla ratio sottesa alle dismissioni cui
(211) La legge di stabilità 2015, relativamente al tema oggetto di indagine, all’art. 1 comma 611, ha stabilito che «fermo restando quanto previsto dall'articolo 3, commi da 27 a 29, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, e successive modificazioni, e dall'articolo 1, comma 569, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, e successive modificazioni (…) le regioni, le province autonome di Trento e di Bolzano, gli enti locali, (…) , a decorrere dal 1° gennaio 2015, avviano un processo di razionalizzazione delle società e delle partecipazioni societarie direttamente o indirettamente possedute, in modo da conseguire la riduzione delle stesse entro il 31 dicembre 2015».
(212) Invero, relativamente alla natura giuridica delle società pubbliche, la giurisprudenza ha più volte chiarito che «la
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si riferisce l’art. 1, comma 569, della l. n. 147/2013, la stessa non è certamente quella di consentire all’ente pubblico di valutare l’opportunità di realizzare il valore della partecipazione (quando questa non rientri tra quelle espressamente vietate) per destinare le risorse in tal modo acquisite ad altri fini; non si può non osservare che, se questa fosse la corretta interpretazione della norma, la stessa si porrebbe in palese contrasto con i principi costituzionali sanciti dall’art. 41 e 42 Cost. Una simile interpretazione, che riconoscesse all’ente pubblico un diritto potestativo di sciogliersi unilateralmente dal rapporto sociale sulla base di una valutazione discrezionale del carattere non strategico della partecipazione e dell’esigenza di destinare risorse ad altri fini istituzionali, ponendo a carico della società l’onere della liquidazione, arrecherebbe un pregiudizio ai soci e ai creditori sociali, conseguente alla riduzione della capacità patrimoniale della società partecipata, che appare del tutto privo di giustificazione e come tale lesivo dei diritti e degli interessi che trovano tutela nei principi sanciti dagli artt. 41 e 42 Cost. Il diritto di recesso sarebbe unicamente motivato dal venir meno dell’interesse dell’ente pubblico al mantenimento della partecipazione e dall’esigenza di monetizzarne il valore: esigenza che, lungi dal giustificare la facoltà unilaterale di scioglimento del vincolo sociale, può e deve trovare soddisfazione tramite il collocamento della partecipazione sul mercato e la seria ricerca di un acquirente nel rispetto delle regole alle quali l’ente pubblico, con l’acquisizione della partecipazione societaria, ha deliberatamente ritenuto di assoggettarsi. Pertanto, una interpretazione rispettosa dei principi costituzionali non può che ritenere che la norma in esame si riferisca unicamente alle partecipazioni “vietate” ai sensi del comma 27 dell’art. 3 della legge 244/2007 tra le quali non rientrano le partecipazioni in società che producono servizi di interesse generale, nonché quelle oggettivamente non estranee alle finalità istituzionali dell’ente. Limiti generali all’attività d’impresa e alle scelte imprenditoriali sono certamente ammissibili per esigenze di utilità sociale, ma ciò vale sia per l’attività economica privata che per quella pubblica. L’art. 41, terzo comma, Cost., significativamente fa riferimento sia all’attività economica privata che a quella pubblica. Non sono costituzionalmente ammissibili misure invasive dell’attività dell’impresa a partecipazione pubblica e della sua sfera di autoorganizzazione che rechino deroghe al diritto comune non sorrette da un preminente interesse, costituzionalmente rilevante (Corte cost., sentenze n. 56 del 2015; n. 247 e n. 152 del 2010; n. 167 del 2009).
ma continua ad apparire come un insieme di deroghe alla disciplina generale» (Cass. civ., s.u. 25 novembre 2013, n.
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Gli interventi legislativi che intendano condizionare le scelte organizzative dell’impresa (pubblica o privata), tanto più se esercitata attraverso la persona giuridica societaria, debbono rispettare il principio di proporzionalità. Risultano incostituzionali misure incongrue, sproporzionate o ingiustificatamente invasive (cfr. Corte giust., sent. 29 novembre 1956, causa 8/55, Fédéchar e sopratt. 17 dicembre 1970, in causa 11/70, Internationale Handelsgesellschaft; v. poi sentt. 11 luglio 1989, causa 265/87, Schräder; 13 novembre 1990, causa 331/88, Fedesa, e 5 ottobre 1994, C-133/93, C-300/93 e C-362/93, Crispoltoni et al.). Questi principi devono essere osservati anche nella disciplina legislativa di un’attività economica considerata quale pubblico servizio, “che è pur sempre espressione del diritto di iniziativa economica garantito dall’art. 41 Cost.” (Corte cost., sentenze nn. 15 del 2015 e 548 del 1990). A tal riguardo, non si può trascurare l’espresso riconoscimento che il Trattato fa dei servizi di interesse economico generale e delle funzioni particolari a essi assegnate (artt. 14, 106, comma 2, TFUE, protocollo n. 26), quali strumenti del principio di coesione. La Costituzione protegge dunque, in piena sintonia con il diritto UE, l’iniziativa economica pubblica e privata, prevedendo per l’una e per l’altra eventuali controlli ove ciò risulti necessario a fini di utilità sociale, e sempre rispettando il principio di proporzionalità (Corte cost., sent. n. 270/2010). Principio che deve essere preso in considerazione dal Legislatore nella calibratura di interventi atti a incidere sull’attività d’impresa e sulla sua organizzazione. Interventi che dovranno in ogni caso essere interpretati ed applicati conformemente a tale principio. Misure legislative ingiustificatamente intrusive della dinamica d’impresa e della sua sfera di libertà nel mercato sono quindi destinate a non superare il vaglio di legittimità costituzionale perché - generando detrimento degli interessi degli operatori economici, dei consumatori, dei lavoratori – recano danno all’utilità sociale (cfr. Corte cost., sentenze nn. 247 e 152/2010, n. 167/2009, n. 200/2012). E ancora, la sfera patrimoniale dei soci, pubblici e privati, risulta anch’essa merite-vole di tutela, alla luce dell’art. 42 Cost. e delle libertà economiche europee, quale diritto fondamentale necessario per garantire il libero esercizio delle attività econo-miche (v. Corte giust. UE, sent. 20 giugno 2002, C 313/99, Mulligan; 10 dicembre 2002, C 491/01, British American Tabacco). In coerenza con tali essenziali principi, il legislatore nazionale ha ribadito che alle società a totale o parziale partecipazione pubblica si applica la disciplina del codice civile in materia di società di capitali (art. 4, comma 13, d.l. 6 luglio 2012, n. 95, conv. in l. 7 agosto 2012, n. 135), salvo deroghe espresse (che invero andrebbero interpretate restrittivamente, in base ai noti canoni ermeneutici). Un regime di rigore è invece giustificato – secondo l’insegnamento della Corte costituzionale – per le società strumentali: esse esercitano, in realtà, una
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“attività amministrativa in forma privatistica”, di natura finale o strumentale, e non attività d'impresa di enti pubblici. La “stretta” legislativa non è giustificabile, invece, per l’attività d’impresa volta ad erogare servizi al pubblico (consumatori o utenti): Corte cost., sent. n. 326/2008, richiamata – proprio su questo punto cruciale – da Cons. Stato, sez. V, 4 agosto 2010, n. 5214, cons. diritto, n. 5.3. L’art. 3, commi 27-29, l. n. 244/2007 e l’art. 1, comma 569, l. n. 147/2013, come interpretati dalla giurisprudenza, oltre a vulnerare gli artt. 41 e 42 Cost., entrano pertanto in collisione anche con questa essenziale distinzione, tra il regime proprio delle società partecipate strumentali e quello delle società partecipate che gestiscono servizi d’interesse economico generale.