• Non ci sono risultati.

INTERESSE GENERALE

5. L’AUTOPRODUZIONE: IL MANCATO RICORSO AL MERCATO NELLE NUOVE DIRETTIVE EUROPEE DEL 2014, POI RECEPITE NEL DIRITTO NAZIONALE CON IL

5.1. La sottrazione alle regole del mercato nell’autoproduzione: eccezione o prerogativa?

L'in house providing è un istituto di origine pretoria (159) che nel tempo si è profondamente trasformato sia a livello europeo che a livello nazionale e identifica il fenomeno di "autoproduzione"

(159) Il termine è utilizzato per la prima volta nel Libro bianco sugli appalti del 1998, ma l’istituto è notoriamente ricondotto alle coordinate tracciate dalla famosa Sentenza CGCE del 18 novembre 1999, causa C-107/98, Teckal – Comune di Viano (RE) – AGAC Reggio Emilia. La questione riguardava l’affidamento diretto, da parte del Comune di Viano, della gestione del servizio di riscaldamento di alcuni edifici comunali, nonché della fornitura dei combustibili necessari, in favore di un consorzio costituito da diversi comuni per la gestione dei servizi di energia e ambiente. La Teckal S.r.l. (società operante nel medesimo settore) impugnava la delibera di affidamento per il mancato esperimento delle procedure di aggiudicazione a evidenza pubblica previste dalla normativa comunitaria sugli appalti. Nell’ordinanza di rimessione alla Corte di Giustizia, il giudice a quo domandava, appunto, se tale normativa fosse applicabile nel caso in cui un ente locale avesse affidato direttamente la fornitura di prodotti e la prestazione di servizi a un consorzio a cui esso partecipi. Al quesito la Corte ha risposto che la normativa comunitaria sulle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture è applicabile ove l’Amministrazione intenda stipulare un contratto a titolo oneroso (avente a oggetto la fornitura di prodotti) con un ente giuridicamente distinto da essa, indipendentemente dal fatto che quest’ultimo sia a sua volta un’Amministrazione o meno. La normativa europea in tema di contratti pubblici, infatti, non trova applicazione quando manchi un rapporto contrattuale, in senso stretto, tra due soggetti. Per affermare tale inesistenza, la Corte sancisce che il giudice nazionale deve verificare se via sia o meno un incontro di volontà tra

87

di beni, servizi o lavori da parte della pubblica amministrazione, ossia l’acquisizione di un bene senza ricorrere al mercato (160)(161).

E’ quindi l’autoproduzione che esclude la necessita di ricorrere al mercato e con essa di applicare la disciplina della par condicio degli operatori economici e dunque la gara per la scelta del soggetto con il quale entrare in relazione economica. In ragione di tale esclusione, e quindi del “sacrificio” dei benefici che la scienza economica riconduce all’attuazione delle regole della concorrenza sia per i players che per gli utenti, l’opzione per l’in house providing non è del tutto libera non tanto nel momento valutativo sull’an, quanto sul quomodo della sua realizzazione ossia relativamente alla struttura che deve avere l’organismo costituito o prescelto per l’autoproduzione che non può essere libera o seguire semplicemente le regole del diritto societario ma che, invece, deve soggiacere al rispetto di determinati requisiti che ne giustificano l’esenzione. Tali requisiti sono mutati nel tempo sia a livello europeo che nazionale, tuttavia, anche dopo il consolidarsi della figura nelle Direttive del 2014, permane un disallineamento tra in house europeo e nazionale. Nell’ordinamento italiano, infatti, le direttive sono recepite nel nuovo codice degli appalti ed in parte nel Testo unico delle società partecipate, ma risultano introdotte alcune norme che mirano a disincentivarne il ricorso per la produzione di beni e servizi (cfr. in tal senso cap. III, par. 2). La volontà del legislatore nazionale di predisporre un sistema disincentivante pone la necessità per l’interprete di domandarsi se la figura dell’in house sia realmente un modulo organizzativo “neutro” (come sembra emergere dal diritto europeo) oppure uno strumento che in qualche modo perturba gli assetti del mercato ledendone “le

l’Amministrazione e una persona da essa giuridicamente distinta, salvo il “caso in cui, nel contempo, l’ente locale eserciti sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi e questa persona realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti locali che la controllano.

(160) La Corte di Giustizia europea, in tal senso, ha giocato un ruolo decisivo nel tracciare natura, requisiti e contorni dell’istituto attraverso diverse sentenze paradigmatiche che sono state poste alla base della positivizzazione dell’istituto poi avvenuta con le Direttive del 2014, recepite nell’ordinamento italiano con il d.lgs. n 50/2016 e con il d.lgs. n. 175/2016. Le sentenze più importanti della CGCE sull’in house providing, successive alla Teckal, sono le seguenti: - CGCE, 7 dicembre 2000, procedimento C-324/98, Teleaustria;

- Padania Acque (21 luglio 2005, procedimento C-231/03); - Parking Brixen (13 ottobre 2005, procedimento C-458/03); - Stadt Halle (11 gennaio 2005, procedimento C-26/03);

- Anav c. Comune di Bari (6 aprile 2006, procedimento C-410/04); - Carbotermo-Alisei (11 maggio 2006, procedimento C-340/04); - 10 novembre 2005, causa C-29/04, Commissione/Austria;

- 11 maggio 2006 (C-340/04 – Comune di Busto Arsizio/Agesp s.p.a.);

- 17 luglio 2008, causa C-371/05 (Commissione delle Comunità Europee c. Repubblica italiana).

(161) Cfr. in tal senso l’art. 19 della legge delega 7 agosto 2015 n. 124, il d.lgs. 19 agosto 2016 n. 175, artt. 2, 4, 12; il d.lgs. n. 50/2016, agli artt. 5 e 192.

88

ragioni” a discapito della concorrenza e dei suoi benefici. Ci si deve chiedere cioè se abbia senso parlare di mercato, concorrenza e di in house come di situazioni poste sullo stesso piano ovvero se, invece, l’in house si collochi “totalmente” fuori dal mercato. In tale ultimo senso, la scelta per l’autoproduzione non potrebbe mai perturbare il mercato poiché l’amministrazione che opta per autoprodurre “si sottrarrebbe” tout court al mercato, non essendovi allora alcuna esigenza di applicare le regole che governano il regime dell’acquisizione di beni o servizi o la produzione degli stessi nel mercato.

Ci si deve chiedere se il modulo in house sia compatibile con gli obiettivi storicamente perseguiti dall'Europa, della realizzazione di un mercato comune caratterizzato da un regime di tipo “liberista”, teso a favorire “la libera iniziativa privata e basato su regole volte a tutelare la concorrenzialità fra imprese, senza alcuna discriminazione tra settore pubblico e settore privato”. La compatibilità esiste, atteso che il favor per l'apertura dei mercati alla libera concorrenza non comporta una totale chiusura dell'ordinamento europeo verso l'intervento diretto in economia da parte degli enti pubblici. Anzi, il diritto europeo dell’Unione ammette che l'amministrazione pubblica disponga di un ambito di libertà tale da permetterle di organizzare la propria struttura e la produzione di beni e servizi per la collettività nel modo che essa ritenga meglio rispondente alle necessità della medesima collettività. Inoltre, l'esigenza di produrre servizi e beni d'interesse generale emerge anche dall'art. 36 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, che inquadra l'accesso ai servizi generali come mezzo per acquisire la coesione territoriale e sociale.

Pertanto, alla stregua del diritto dell'Unione il contrasto tra l'interesse all'apertura dei mercati, da un lato, e i valori sociali e le prerogative delle autonomie sociali dall'altro, può risolversi anche con il sacrificio del primo e, conseguentemente, con la sottrazione al libero mercato della produzione di alcuni beni e servizi, laddove la gestione pubblica e diretta del servizio sia giustificata alla luce di ragioni obiettive di tutela dell'interesse generale. Del resto, anche la giurisprudenza europea ha più volte affermato che eventuali clausole restrittive della concorrenza devono essere ammesse se risultano necessarie per consentire lo svolgimento del servizio di interesse generale da parte dell'impresa incaricata.

Per quanto attiene ai limiti dell'in house, il T.U. partecipate definisce la società in house come società sottoposta a «controllo analogo » (art. 2 lett. o) che può esser costituita solo per soddisfare esigenze strettamente necessarie alle finalità istituzionali (art. 4 comma 1), per la realizzazione di servizi di interesse generale, opere pubbliche, autoproduzione di beni e servizi strumentali (art. 4, comma 4),

89

quali attività ad «oggetto esclusivo» della società in house (art. 4 comma 4), che deve agire «in via prevalente» per l'ente partecipante.

Si tratta dunque di una figura connotata da pubblicità, esclusività, eccezionalità, autonomia, indipendenza dal mercato e dalla concorrenza, il cui fondamento starebbe nel cd. principio di auto- organizzazione amministrativa, che, a sua volta, trova corrispondenza nel più generale principio comunitario di autonomia istituzionale.

È evidente che, se la relazione in house comporta l'esclusione dall'applicazione delle direttive, l'in house non può considerarsi un principio, ma costituisce, invece, espressione del principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche di cui è specifico corollario il principio dell'autoproduzione. Il rapporto tra principio di libera amministrazione e principio di concorrenza va rivisitato. Si tratta, in particolare, della concezione dell'in house come “deroga alla regola della concorrenza”, che trova ancora affermazione in parte della giurisprudenza del Consiglio di Stato, secondo cui l'in house rappresenta “un'eccezione alle regole generali del diritto comunitario, le quali richiedono che l'affidamento degli appalti pubblici avvenga mediante gara”, oltre che in quella della Corte costituzionale, secondo cui “i casi di affidamento in house, quale modello organizzativo succedaneo della (vietata) gestione diretta da parte dell'ente pubblico, debbono ritenersi eccezionali e tassativamente previsti”. Dal che è conseguita la ritenuta possibilità del legislatore italiano, in sede di recepimento, di adottare una disciplina che preveda regole concorrenziali più ampie rispetto a quelle richieste dal diritto europeo.

Una volta che si tratta dell'adempimento dei propri compiti di interesse pubblico, alla pubblica amministrazione va consentito di procedere in autoproduzione di beni e servizi; il che rappresenta diretta conseguenza del principio di libera amministrazione. L'in house, quindi, non è un'eccezione all'evidenza pubblica ma si pone a monte della stessa come conseguenza della scelta dell'amministrazione di non ricorrere al mercato; scelta che rientra nell'autonomia del soggetto pubblico (garantita anche dall'art. 5 della Cost.) e che, come ogni manifestazione di discrezionalità, è sottoposta al vaglio di legittimità del giudice (nella specie, amministrativo).

Non può non prendersi atto della fine dell'eccezionalità dell'affidamento in house. Il che non sempre è tenuto presente dal legislatore nazionale, il quale ha manifestato una chiara preferenza per l'esternalizzazione sulla base di ragioni (tutte interne) di disfunzioni e “mala gestio” conseguenti al ricorso all'in house. Ne è esempio — in tema di servizi pubblici locali di rilevanza economica — tutta la normativa che ha preceduto l'art. 34, commi da 20 a 27, del d.l. n. 179/2012, convertito, con

90

modificazioni, dalla l. n. 221/2012. Inoltre, sempre nella stessa materia, da una parte sono state equiparate le diverse forme di affidamento, dall'altra si è incentivato l'affidamento previa evidenza pubblica. Nella diversa visione dell'in house da parte dell'ordinamento europeo e di quello nazionale non si può che propendere per la prima. Così come non convince la previsione, da parte del legislatore nazionale, delle limitazioni al ricorso all'in house (nella materia degli appalti pubblici e delle concessioni) rispetto a quanto disciplinato dalle nuove Direttive.

La fine del carattere derogatorio dell'in house e l'equiodinazione dei modelli di affidamento e di gestione non possono non comportare, conseguentemente, “il pieno sdoganamento” dell'in house nell'ordinamento italiano; il quale, anche per motivi legati a peculiari situazioni interne, ha inteso tutelare la concorrenza e il mercato a discapito dell'in house.

È innegabile che il legislatore nazionale debba tenere conto delle peculiari situazioni interne, ma così come l'applicazione delle direttive europee deve essere uniforme, allo stesso modo lo deve essere il campo delle esenzioni dalle stesse. E l'in house, in quanto esenzione, una volta definito non più dalla giurisprudenza della Corte di giustizia ma dalle direttive, con normativa dettagliata e di per sé autosufficiente, non può che avere gli stessi connotati negli ordinamenti degli Stati membri. I due principi di cui si è detto, di libera amministrazione delle autorità pubbliche e di tutela della concorrenza, nonché la sussidiarietà del secondo rispetto al primo, conferiscono all'in house pari dignità rispetto alla gara.

Nell'espletamento di compiti di interesse pubblico le amministrazioni devono perseguire e garantire la qualità, l'efficienza, l'economicità dell'appalto o del servizio; in sostanza la virtuosità per l'amministrazione, la collettività e gli utenti dei servizi. Quale sia la modalità migliore dell'affidamento, se in house o previa gara, è scelta che compete all'amministrazione affidante e non è detto che la gara sia opzione di per sé migliore rispetto all'affidamento in house, potendo verificarsi il contrario (ad esempio in caso di fallimento del mercato o di particolare virtuosità della gestione in house). E allora, ancora più a monte della verifica della sussistenza dei requisiti per procedere a un affidamento in house, diventa cruciale la scelta della modalità di affidamento, le ragioni fondanti e le motivazioni addotte; scelta che si manifesta in provvedimenti amministrativi sottoposti al vaglio di legittimità del giudice nazionale e della Corte di giustizia.

Per quanto riguarda la Direttiva concessioni, l’art. 2 della Direttiva 2014/23/UE prescrive che le autorità nazionali, regionali e locali possono liberamente organizzare l'esecuzione dei propri lavori o

91

la prestazione dei (...) servizi, sulla base del diritto nazionale e dell'Unione (cfr. anche l'art. 4, sui “servizi di interesse economico generale”).

L'art. 354, TFUE, conformemente al generale modello dell'economia sociale di mercato, presuppone il regime della proprietà pubblica o privata di ciascuna impresa, a cui, dunque, si applicherebbero le regole ed i principi sulla concorrenza (e, quindi, anche gli artt. 101 e ss., TFUE). L'art. 17, riconosce la facoltà di gestire un servizio attraverso un affidamento in house; la Direttiva sembra recepire la meno rigorosa giurisprudenza europea delineata dopo il 2007 e non sembra porre alcun vincolo alla scelta operata dall'ente affidante, anche se ad un'attenta lettura non è proprio così.

Un primo limite può essere rinvenuto negli artt. 34 e 37, TFUE, che impongono agli Stati membri di organizzare i “monopoli”, in modo da evitare le restrizioni quantitative alla libera circolazione ex artt. 26, 28 e ss. e 33 e ss. TFUE.

Tali norme devono essere raccordate con l’art. 17 che limita la connessa scelta dell'amministrazione se un affidamento in house costituisce un “monopolio” per un servizio della cui gestione sia incaricata un'impresa titolare di una simile posizione nella produzione di taluni beni. Altra ipotesi è quella in cui attraverso l'in house si vada a configurare un assetto oligopolistico riferito ad un particolare settore del mercato: anche in tale caso, il diritto europeo pone alcuni limiti che circoscrivono la discrezionalità della scelta amministrativa.

La competizione concorrenziale, presupposta dagli artt. 101, c. 1, lett. a), b) e c) e 102, c. 2 e ss., TFUE, postula sempre una pluralità di operatori economici ed esprime il favor dell'amministrazione per la concorrenza verso il mercato, atteso che la concorrenza è sempre associata alla garanzia di pluralità, anche ai sensi degli artt. 28 e ss., 49 e ss. e 56 e ss., TFUE.

Anche per l’oligopolio la disciplina dell'art. 17, Dir. 2014/23/UE deve essere coordinata con quella europea sugli aiuti di Stato e per i servizi di interesse economico generale.

Considerando che l'organismo affidatario in house è un'impresa ai sensi degli artt. 107 e ss., TFUE, occorre comprendere se la partecipazione pubblica diretta a costituire il medesimo affidatario possa rilevare come un “aiuto di Stato”. Il modello dell'in house non elimina la distinzione soggettiva tra l'“amministrazione aggiudicatrice” e la società affidataria e il rischio che ciò sia qualificato alla stregua di un “aiuto” ex art. 107, TFUE.

Una pubblica amministrazione sembra poter ricorrere all'in house providing per le sole ipotesi compatibili con la stessa disposizione, letta assieme all'art. 106, TFUE, dal cui combinato disposto si evince che la partecipazione finanziaria pubblica, in una società in house, può essere legittima e non

92

richiede la previa notifica alla Commissione, ex art. 107, per le ipotesi consentite dalla prima norma ovvero nei limiti indicati dall'art. 106, qualora la società svolga un “servizio di interesse economico generale”. Soprattutto per gli affidamenti concessori il conseguente bilanciamento rischia di oscillare tra il forte rigore delle modalità dell'individuazione del contraente ed altre previsioni normative imprecise e generali, che, per le amministrazioni nazionali, non facilitano l'applicazione della normativa. Una simile riflessione si lega all'ampia discrezionalità, loro attribuita tramite il citato art. 30, c. 1, che potrebbe incrementare i rischi legati ad una non uniforme attuazione delle norme cit., i quali, del resto, già discenderebbero dalle divergenti regole nazionali sui contratti dei soggetti pubblici.

Un'altra analoga osservazione deriva dalle disposizioni sull'in house di cui all'art. 17, che sembrano attenuare il rigore delle prime pronunce giurisprudenziali europee conformemente ai principi degli artt. 49 e ss. e 56 e ss., TFUE, adottate per la definizione dell’affidamento in house.

L'armonizzazione delle norme giuridiche perseguita dalla Dir. 2014/23/UE complessivamente risulta solo parziale e richiede che la Corte di giustizia continui la propria importante e puntuale opera pretoria per salvaguardare l’armonizzazione dei principi sottesi alla disciplina dei contratti pubblici.

Outline

Documenti correlati