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INTERESSE GENERALE

7. LE ESIGENZE DI RIDUZIONE DELLE PARTECIPAZIONI LOCALI: LE RAZIONALIZZAZIONIN E LE DISMISSIONI DELLE PARTECIPATE LOCALI.

7.5. Gli orientamenti della giurisprudenza amministrativa e contabile.

La giurisprudenza amministrativa, tuttavia, non ha avallato l’interpretazione suesposta. Ciò poiché è stato affermato che tali disposizioni devono essere lette nel contesto dei tentativi del legislatore statale di regolare il fenomeno delle società partecipate da enti pubblici. Se la direzione della politica legislativa è chiara nel senso della riduzione di queste partecipazioni, la ricostruzione delle modalità di perseguimento di tale obiettivo si presenta più complessa, a causa del carattere frammentario e non ancora assestato della normativa In generale, si possono comunque individuare due approcci legislativi, uno finalizzato a liberalizzare il mercato, rimuovendo rendite di posizione e conflitti di interessi, e uno finalizzato a restringere il perimetro dell’intervento pubblico nelle attività economiche. Il primo non è pregiudizialmente contrario alla figura dell’ente pubblico imprenditore, purché in condizioni di parità con gli altri operatori economici, il secondo forza invece gli enti pubblici ad abbandonare o a limitare la partecipazione diretta alle attività economiche, in quanto considera questo impegno come una fonte di sprechi o una distrazione rispetto ai compiti amministrativi Un esempio del primo orientamento può essere individuato nella disciplina sulle società strumentali introdotta dall’art. 13 del DL 223/2006. Questa norma stabilisce per le società strumentali, che ricevono affidamenti diretti dagli enti pubblici, un modello legale con una serie di stringenti limitazioni: (a) devono operare esclusivamente con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti; (b) non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara; (c) non possono partecipare ad altre società o enti aventi sede nel territorio nazionale; (d) sono a oggetto sociale esclusivo; (e) devono cedere a terzi le attività non consentite oppure scorporarle, anche costituendo una separata società. L’evoluzione di questo

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modello è contenuta nei commi 7 e 8 dell’art. 4 del DL 95/2012, i quali, rispettivamente, impongono agli enti pubblici di acquisire sul mercato i beni e i servizi strumentali alla propria attività mediante procedure concorrenziali, e consentono l'affidamento diretto solo a favore di società a capitale interamente pubblico, nel rispetto dei requisiti richiesti dalla normativa e dalla giurisprudenza comunitaria per la gestione in house. Restano esclusi dall’art. 13 del DL 223/2006 i servizi pubblici, in quanto area già aperta alla concorrenza e contendibile mediante gara. Gli enti pubblici possono quindi avere partecipazioni in società che concorrono per l’affidamento di servizi pubblici, con il solo divieto di fornire a tali società aiuti di Stato, e salva la possibilità di optare per la gestione in house (v. TAR Brescia Sez. II 21 febbraio 2013 n. 196; TAR Brescia Sez. II 22 aprile 2014 n. 415). Un esempio del secondo orientamento è contenuto nell’art. 3 comma 27 della legge 244/2007, che non si limita a regolare le società strumentali, o a ricondurle nello schema dell’affidamento in house, ma vieta agli enti pubblici di assumere o conservare partecipazioni azionarie quando le stesse non siano strettamente necessarie per il perseguimento delle finalità istituzionali. Così impostata, la norma ha un’estensione molto ampia, e può essere riferita a tutte le società partecipate, comprese quelle che si occupano di servizi di interesse generale (ossia di servizi pubblici). La specificazione che segue immediatamente, ossia l’inciso sull’ammissibilità delle partecipazioni in società che producono servizi di interesse generale, individua una facoltà, non un obbligo. Se il legislatore statale non impone direttamente l’uscita degli enti pubblici dalle società che gestiscono servizi pubblici, non esprime nemmeno una qualche opposizione a tale ipotesi, e certamente non costringe le pubbliche amministrazioni a rimanere prigioniere delle società partecipate. Una volta che l’ente pubblico, esercitando la propria discrezionalità, abbia qualificato come non più strategica la presenza ne l capitale di società affidatarie di servizi pubblici, si verifica una situazione equivalente al divieto di conservare partecipazioni azionarie estranee alle finalità istituzionali. Di qui l’applicabilità dell’art. 3 comma 29 della legge 244/2007, il cui intervallo temporale è stato poi riaperto dall’art. 1 comma 569 della legge 147/2013. Lo strumento del recesso non è richiamato nella legislazione successiva (v. art. 1 commi 611 e 612 della legge 190/2014). Tale normativa, tuttavia, ribadisce e amplia l’obbligo per gli enti pubblici di rivedere e razionalizzare le partecipazioni azionarie, eliminando quelle non indispensabili al perseguimento delle finalità istituzionali. Da un lato, infatti, sono espressamente confermate le procedure descritte nell’art. 3 commi 27-29 della legge 244/2007 e nell’art. 1 comma 569 della legge 147/2013, dall’altro è previsto l’obbligo di elaborare un piano operativo di razionalizzazione delle partecipazioni societarie, con la fissazione di modalità e tempi di attuazione,

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e l’individuazione in dettaglio dei risparmi da conseguire. Il riferimento ai risparmi conferma indirettamente la legittimità delle dismissioni basate su esigenze di cassa, tenendo conto che il concretizzarsi di una voce di entrata riduce la necessità di indebitamento complessivo per finanziare altri investimenti. Il fatto che nell’art. 1 commi 611 e 612 della legge 190/2014 non sia richiamata la facoltà di recedere, e di ottenere così la liquidazione delle azioni, non sembra costituire un ostacolo all’estensione di questo strumento in via interpretativa. Quando è ammesso il recesso, infatti, la liquidazione è certa, trattandosi di un diritto del socio riconosciuto e regolato dal codice civile, e viene conseguita indipendentemente dalla composizione sociale e dalla quota detenuta. Se invece non vi fosse la possibilità di recedere, e parallelamente la procedura di vendita delle azioni andasse deserta, l’unico modo per uscire dalla società sarebbe il consenso di tutti gli altri soci, con esiti variabili a seconda delle circostanze concrete (maggiore o minore peso all’interno del capitale sociale, accordi tra enti pubblici con partecipazioni azionarie). In presenza di soci privati, inoltre, la dismissione, pur corrispondendo a un interesse pubblico, sarebbe subordinata a valutazioni di natura privatistica. Tutto questo vanificherebbe l’obiettivo fissato dal legislatore, e in definitiva costringerebbe l’ente pubblico a rimanere associato a un rischio di impresa che non corrisponde più alle proprie finalità istituzionali. Di conseguenza, il recesso appare come l’elemento che riporta in equilibrio la procedura di abbandono delle partecipazioni azionarie non strategiche» (TAR Lombardia, Brescia, 13 ottobre 2015, n. 1305). Le norme sopra richiamate hanno creato una situazione di notevole incertezza nella materia con incremento esponenziale dei contenziosi; anche quelle riguardanti le dismissioni delle c.d. micropartecipazioni (amplius infra), anche per via dell’interpretazione estensiva fornitane dalla giurisprudenza. (213).

(213) Sul tema si possono richiamare anche le altre seguenti pronunce del giudice amministrativo:

- «l'art. 3, comma 27, l. n. 244 del 2007 è indice di un evidente disfavore del legislatore nei confronti della costituzione e del mantenimento da parte delle amministrazioni pubbliche (ivi comprese le Università) di società commerciali con scopo lucrativo, il cui campo di attività esuli dall'ambito delle relative finalità istituzionali, né risulti comunque coperto da disposizioni normative di specie (secondo il modello delle c.d. 'società di diritto singolare')» (Cons. Stato, Ad. plen., 3

giugno 2010, n. 11);

- «ciò posto, si osserva come la disposizione di cui all'art. 1 comma 569 della legge n. 147/2013) ha previsto, con

riferimento alle partecipazioni azionarie vietate, un'ipotesi eccezionale di cessazione ope legis della qualità di socio, con conseguente diritto dell'amministrazione alla liquidazione del valore della partecipazione azionaria e corrispondente obbligo, per la società partecipata, di corrisponderne il valore secondo le modalità di cui all'art. 2437-ter comma 2 cod. civ. La disposizione è chiarissima nel collegare la cessazione delle partecipazioni azionarie vietate al solo spirare del termine di dodici mesi dal 1° gennaio 2014, senza richiedere alcun preventivo apprezzamento discrezionale (circa l'an, il quid od il quomodo) ad opera dell'amministrazione pubblica socia, in capo alla quale sorge immediatamente un diritto soggettivo alla liquidazione del valore delle azioni, analogamente a quanto avviene - ex art. 2437 cod. civ. - per tutti i casi di recesso del socio. Si tratta dunque di una tipica norma di relazione, intesa a disciplinare non tanto i poteri degli organi pubblici - che, anzi, il legislatore ha inteso per l'appunto surrogare, mediante la predisposizione di un'ipotesi

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eccezionale di recesso al solo verificarsi dei presupposti di legge - quanto i rapporti tra la pubblica amministrazione e le società partecipate, fonte immediata di diritti soggettivi (di recesso e di liquidazione della quota) e di corrispondenti obblighi. La dismissione della partecipazione concreta del resto un atto jure privatorum, compiuto dal comune "uti socius" - e non "jure imperii" - a valle della scelta di fondo per l'impiego del modello societario. Non venendo in questione l'esercizio di un potere amministrativo propriamente detto, ma soltanto l'accertamento - vincolato - del ricorrere dei presupposti di legge per la cessazione della partecipazione azionaria, deve ritenersi che la controversia esuli - ex art. 7 comma 1 c.p.a. - dalla giurisdizione del giudice amministrativo, per rientrare appieno in quella dell'autorità giudiziaria ordinaria, cui del resto spetta la cognizione sulle domande concernenti il diritto di recesso del socio e, per il caso di contestazioni, sulla liquidazione del valore delle azioni. Né rileva in contrario il disposto di cui all'art. 119 comma 1 lett. c) c.p.a. (a mente del quale "le disposizioni di cui al presente articolo si applicano nei giudizi aventi ad oggetto le controversie relative a [...] i provvedimenti relativi alle procedure di privatizzazione o di dismissione di imprese o beni pubblici, nonché quelli relativi alla costituzione, modificazione o soppressione di società, aziende e istituzioni da parte degli enti locali"), vuoi perché non si tratta di norma sulla giurisdizione, ma sul rito, vuoi perché essa presuppone comunque un provvedimento discrezionale adottato all'esito di una procedura amministrativa nell'ambito della quale vi sia la spendita di un potere autoritativo, ipotesi del tutto mancante nel caso di specie, in cui la cessazione della partecipazione consegue soltanto alla natura vietata della partecipazione stessa (secondo parametri direttamente forniti dalla legge), ed allo spirare di un termine» (T.A.R. Genova, (Liguria), sez. II, 04 aprile 2016, n. 333);

- «lo scioglimento e la conseguente liquidazione (…) si inserisce in un trend normativo di progressivo disfavore nei

confronti delle società partecipate da enti pubblici non strettamente necessarie per il perseguimento dei loro fini istituzionali. Esso prende l'avvio con la legge finanziaria 2008 (l. 24.12.2007, n. 244), il cui art. 3, comma 27, ha stabilito che al fine di tutelare la concorrenza e il mercato, le p.a. non possono costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né assumere o mantenere direttamente o indirettamente partecipazioni, anche di minoranza, in tali società. Tale norma ha posto un limite all'impiego dello strumento societario "non tanto per assicurare la tutela della concorrenza - che di per sé lo strumento dell'impresa pubblica non potrebbe pregiudicare - quanto per garantire, in coerenza con l'esigenza di rispettare il principio di legalità, il perseguimento dell'interesse pubblico. Può, pertanto, ritenersi che, allo stato, esiste una norma imperativa che - esprimendo un principio già in precedenza immanente nel sistema - pone un chiaro limite all'esercizio dell'attività di impresa pubblica rappresentato dalla funzionalizzazione al perseguimento anche dell'interesse pubblico» (così, Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza n. 1574 del 20 marzo 2012);

- «in definitiva, sulla base delle disposizioni testé sintetizzate, per uscire dalle società controllate, ossia per liberarsi dalle

partecipazioni non strategiche, gli enti pubblici possono cedere le azioni mediante procedure ad evidenza pubblica negli intervalli temporali previsti dai commi 568 bis e 569 dell'art. 1, l. n. 147 del 2013. Quest'ultima norma ha anche regolato l'ipotesi della mancata alienazione prevedendo il recesso con liquidazione delle azioni ex art. 2437 ter, comma 2, c.c. L'uscita di un ente pubblico dalle società che gestiscono servizi pubblici è quindi oggi non solo possibile ma allo stesso tempo necessaria, quando gli enti pubblici ritengano ormai venuto meno il collegamento con le funzioni amministrative, in quanto sia l'art. 3 comma 27, l. n. 244 del 2007 sia l'art. 1 comma 611, l. n. 190 del 2014 collegano le partecipazioni azionarie al perseguimento delle finalità istituzionali (sul punto, cfr., ad esempio, TAR Lazio, sez. III, sentenza n. 3972 del 10 marzo 2015)» (T.A.R. Roma, (Lazio), sez. II, 17 giugno 2016, n. 7030);

- «In caso di mancata alienazione, entro il termine indicato, poi, è previsto un meccanismo del tutto nuovo e peculiare

per interrompere il rapporto societario intercorrente tra l'ente e la società partecipata, inedito altresì nell'ambito del diritto societario (che pure conosce degli strumenti, come il diritto di recesso, che conducono al conseguimento del medesimo risultato). È, infatti, stabilito che, trascorso tale termine, la partecipazione non alienata mediante procedura di evidenza pubblica cessa ad ogni effetto e che, nei successivi 12 mesi, la società è chiamata a liquidare in denaro il valore della quota del socio cessato in base ai criteri stabiliti all'art. 2437-ter, secondo comma, del codice civile. Di conseguenza, si prevede una decadenza ope legis della partecipazione con il conseguente obbligo, per la società, di procedere alla liquidazione all'ente del valore delle quote o delle azioni detenute in funzione della consistenza patrimoniale della società e delle sue prospettive reddituali nonché dell'eventuale valore di mercato. Non si tratta, esplicitamente, di un diritto di recesso, dal momento che il legislatore non qualifica come tale lo strumento innovativo introdotto: del resto, vi sono alcune differenze significative, come emerge considerando che l'esercizio del diritto di recesso comporta e presuppone l'espressione di una volontà, legata all'interruzione del rapporto societario. In particolare, risulta necessario ribadire la circostanza, supportata da adeguata motivazione, che la partecipazione non si

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7.6. Il comma 569-bis ed il passaggio assembleare: norma transeunte o espressione di un

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