INTERESSE GENERALE
6. LA RINNOVATA STAGIONE DEI TESTI UNICI: IL T.U SULLE SOCIETA’ PARTECIPATE ED IL PROGETTO DI T.U SUI SERVIZI PUBBLICI LOCALI.
6.1. Il testo unico delle società a partecipazione pubblica.
Il d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175 reca il «Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica», in attuazione della delega contenuta negli artt. 16 e 18 della legge (Madia) 7 agosto 2015, n. 124, che ha previsto numerosi interventi per il riordino delle Amministrazioni pubbliche. Il t.u. si muove del tutto in linea con i principi espressi dall’art. 41 Cost: accanto all’attività economica privata, che è espressione di libertà, si può avere un’attività economica pubblica, non però senza limiti, ma – in definitiva – in coerenza con il criterio di sussidiarietà orizzontale (172).
La nuova disciplina definisce e regolamenta la “partecipazione pubblica” come «la titolarità di rapporti comportanti la qualità di socio in società o la titolarità di strumenti finanziari che attribuiscono diritti amministrativi» (art. 2, lett. f) ed in specifico la “partecipazione indiretta” come «la partecipazione in società detenuta da un’amministrazione pubblica per il tramite di società o di altri organismi soggetti a controllo da parte della medesima amministrazione pubblica» (art. cit., lett. g).
house non contrasti con le direttive comunitarie non vuol dire che sia contraria all'ordinamento UE una norma nazionale che limiti ulteriormente il ricorso all'affidamento diretto. Con ciò, si torna alla preclusione degli affidamenti diretti stabilita dall'art. 4, comma 7, in questione, con scelta dichiaratamente pro-concorrenziale che non può certamente ritenersi irragionevole». La soluzione seguita non appare conforme non solo circa il vero significato del carattere
eccezionale e derogatorio dell'in house, ma anche con l'interpretazione letterale dell'art. 4, comma 8, primo periodo, del d.l. 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla l. 7 agosto 2012, n. 135, secondo cui “a decorrere dal 1º
gennaio 2014 l'affidamento diretto può avvenire solo a favore di società a capitale interamente pubblico, nel rispetto dei requisiti richiesti dalla normativa e dalla giurisprudenza comunitaria per la gestione in house”. La circostanza per cui
la Corte costituzionale, con sentenza 23 luglio 2013, n. 229, ha dichiarato, tra l'altro, l'illegittimità costituzionale del detto comma 8, nella parte in cui si applica alle Regioni ad autonomia ordinaria, non rileva. La dichiarazione di incostituzionalità è motivata sulla base di ragioni di competenza legislativa, oltre che di salvaguardia del principio di autonomia organizzativa (delle Regioni) che è proprio quello che consente l'affidamento in house. Inoltre, la normativa e la giurisprudenza europea in tema di in house non possono non applicarsi anche alle Regioni.
(172) I parametri della predetta posizione mediana o di equilibrio si rinvengono anzitutto nei trattati europei e sono, ad esempio, esplicitati nella direttiva 2014/23/UE: - le autorità nazionali, regionali e locali possono decidere di espletare i loro compiti di interesse pubblico avvalendosi delle proprie risorse (anche in cooperazione con altre amministrazioni) o conferendoli a operatori economici esterni; - il diritto europeo fa salvi i regimi di proprietà esistenti negli Stati membri e non richiede la privatizzazione delle imprese pubbliche; - le amministrazioni trattano gli operatori economici (pubblici o privati) su un piano di parità (cfr. art.. 2 e 3 direttiva citt.).
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Il t.u. non si applica però ai casi di «partecipazione di amministrazioni pubbliche a enti associativi diversi dalle società e a fondazioni» (art. 1, co. 4, lett. b) (173). Neppure si applica alle c.d. “società legali” o “società legificate”, la cui costituzione o configurazione sia disposta o basata sulla legge speciale e non su di un contratto di società; a queste ipotesi vuole riferirsi il t.u. nella parte in cui dispone che restano ferme «le specifiche disposizioni, contenute in leggi o regolamenti governativi o ministeriali, che disciplinano società a partecipazione pubblica di diritto singolare costituite per l'esercizio della gestione di servizi di interesse generale o di interesse economico generale o per il perseguimento di una specifica missione di pubblico interesse» (art. 1, co. 4, lett. a) (174).
Conformemente all’esigenza di non incontrare forme di responsabilità illimitata per i soggetti pubblici partecipanti, i tipi di società in cui è ammessa la partecipazione pubblica sono «esclusivamente» le s.p.a. e le s.r.l., anche in forma cooperativa o con scopo consortile (cfr. art. 2615 ter c.c.).
Si tratta di un testo unico prevalentemente di “coordinamento” normativo, posto che la normativa pregressa era assai sparsa e frammentata, tanto che l’emanando d.lgs. aveva il «fine prioritario di assicurare la chiarezza della disciplina» e «la semplificazione normativa» (art. 18, co. 1, l. n. 124/2015).
La normativa ora riordinata è peraltro relativamente recente, come si ricava anche dall’art. 28 del t.u., che elenca le norme abrogate: la più risalente nel tempo, tra dette norme, è solo dell’anno 2000. Sono relativamente recenti anche le altre norme dettate su questa materia, non abrogate dall’odierno t.u. ma che, con esso, dovranno essere applicate in correlazione; infatti, pure queste altre norme sono
(173) Con la l. 6.6.2016, n. 106 è stata attribuita delega al Governo per la riforma del terzo settore (inteso – art. 1, l. cit. – come il complesso degli enti aventi natura giuridica privata costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e che promuovono e realizzano attività di interesse generale) ed è dunque attesa la revisione della «disciplina del titolo II del libro primo del c.c. così come della disciplina speciale e delle
altre disposizioni vigenti relative agli enti del terzo settore». Nei conseguenti d.lgs. potrebbe essere stabilita anche una
disciplina dei casi di partecipazione delle Amministrazioni pubbliche a siffatte figure soggettive.
(174) La giurisprudenza ha bene evidenziato che nonostante la veste di società di capitali, vi possono essere casi di figure aventi natura di ente pubblico (cfr. Cass. civ., S.U., 22.1.2015, n. 1159 e 13.11.2015, n. 23306 (entrambe con ulteriori richiami). Si possono richiamare i casi della RAI-Radiotelevisione italiana s.p.a. di cui alla l. 28.12.2015, n. 220 e della CDP-Cassa depositi e prestiti s.p.a. di cui all’art. 5 del d.l. 30.9.2003, n. 269 conv, in l. 24.11.2003, n. 326, In dottrina G. Gruner, Enti pubblici a struttura di spa. Contributo allo studio delle società “legali” in mano pubblica di rilievo nazionale, Torino, 2009; Ibba, C., Società legali e società legificate, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1993, 1 ss.; Renna, M., Le società
per azioni in mano pubblica: il caso delle spa derivanti dalla trasformazione di enti pubblici economici e aziende autonome statali, Torino, 1997.
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state emanate quasi interamente a partire dal 1990 (ma molte tra esse furono già riordinate nel t.u.e.l., d.lgs. 18.8.2000, n. 267: artt. 112-120).
Le norme sulle società a partecipazione pubblica erano state determinate in conseguenza di quattro principali fattori: - l’esigenza che la natura ed il regime privato delle società partecipate da Amministrazioni pubbliche non fossero la causa di elusione di norme o di regole a tutela dell’interesse pubblico; - la trasformazione di molti enti pubblici in società, con la correlata soppressione di apparati amministrativi propri della situazione precedente; - l’indirizzo politico finalizzato ad una privatizzazione sostanziale attraverso dismissioni delle partecipazioni pubbliche; - l’esigenza di una riduzione della spesa nelle (e per le) società partecipate dalla Amministrazioni pubbliche anche in ragione dei risultati economici negativi o comunque deludenti di varie società.
Il riordino della disciplina delle partecipazioni societarie delle Amministrazioni pubbliche, ora stabilito in modo organico dalla legge delega e dal t.u., era stato anticipato dall’art. 23 del d.l. 24 aprile 2014, n. 66 conv. in l. 23 giugno 2014, n. 89, ma relativamente alle sole partecipate dalle amministrazioni locali. La disposizione è stata attuata dal Commissario straordinario per la spending review con il «Programma di razionalizzazione delle partecipate locali» (7.8.2014) (175) che, di per sé, ha avuto solo la portata di un documento di studio, ma importante presupposto di misure legislative future. L’esigenza di riordino venne estesa con il ricordato art. 1, co. 611 e ss. dalla l. n. 190/2014, con prevista più ampia applicazione alle Regioni, Province autonome, Enti locali, Camere di commercio, Università, Istituti di istruzione universitaria pubblici e Autorità portuali, tenuti ad un processo di razionalizzazione delle società e partecipazioni societarie direttamente o indirettamente possedute (176). Nell’odierno t.u., i programmi di razionalizzazione devono invece essere avviati da
tutte le Amministrazioni pubbliche, loro consorzi e associazioni «per qualsiasi fine istituiti», gli Enti pubblici economici e le Autorità portuali (art. 2, co.1, lett. a); le Amministrazioni pubbliche, come ormai consolidato nel nostro ordinamento, sono quelle elencate nell’art. 1, co. 2 del d.lgs. 30.3.2001, n. 165.
(175) Cfr. G.CAIA, Le novità introdotte dal d.l. n. 66 del 2014, in Il libro dell’anno del diritto 2015, 252 ss.
(176) La non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale, promosse con ricorso regionale, è stata dichiarata da C. cost., 16.6.2016, n. 144, anzitutto per la ravvisata circostanza che i piani di razionalizzazione previsti sono disciplinati con una disposizione di principio «che lascia ampio margine di manovra all’autonomia regionale e dunque è espressione
di “coordinamento della finanza pubblica”». I criteri direttivi per la razionalizzazione sono stati ritenuti conformi a Cost.
perché rispondono alla «finalità di evitare abusi del “tipo” societario», con la conseguente tutela della concorrenza e la finalità di risparmio di spesa.
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Il riordino stabilito con il t.u. riguarda non solo siffatti programmi di razionalizzazione (revisione) delle esistenti società partecipate, ma anche: - il regime giuridico di esse; - le finalità perseguibili mediante l’acquisizione e la gestione di partecipazioni pubbliche; - gli atti deliberativi dell’Amministrazione partecipante per l’acquisto, la gestione e l’alienazione di partecipazioni; - i controlli e il monitoraggio sulle partecipate.
Si può dunque rilevare che il riordino permette di ritenere superati molti equivoci sul complesso e controverso fenomeno delle partecipazioni delle amministrazioni pubbliche. Nel contempo, non si può sottacere che questo intervento risponde ad un indirizzo politico di riduzione dell’iniziativa economica pubblica, perché essa non viene negata e neppure aprioristicamente limitata ma riceve varie prescrizioni condizionanti, seppure giustificate dalle distonie che si erano registrate finora (eccessivo numero delle partecipate, gestioni non rispettose del criterio di economicità, elusione di garanzie e regole a tutela dell’interesse pubblico (177).
Come si è anticipato, la spinta principale all’emanazione di un t.u. sulle partecipazioni pubbliche è stata rappresentata dall’esigenza di disporre di un quadro di riferimento univoco che eliminasse le criticità, da molti riscontrate (178). A queste criticità aveva iniziato a sovvenire – negli scorsi anni – una normativa valutata però disorganica e dettata per «perseguire finalità di volta in volta imposte da esigenze contingenti», senza «un disegno coerente di lungo periodo» (179).
Il t.u., in conformità alla legge delega, è basato sulla distinzione tra tipi di società in relazione all’attività svolta, alla misura e qualità della partecipazione e al relativo carattere diretto o indiretto.
(177) Gli obiettivi che il t.u. persegue sono ricavabili dalla “analisi di impatto della regolamentazione” allegata allo schema di d.lgs. per le procedure di approvazione. In tale sede si dichiara che le nuove norme sono finalizzate nel “breve periodo” a limitare la costituzione di nuove società pubbliche; rendere trasparenti i bilanci delle società in controllo pubblico; ridurre il numero di società pubbliche; impedire il proliferare di società non necessarie. Nel “medio periodo” a ridurre le aree di intervento delle società pubbliche; eliminare o limitare le società pubbliche non in equilibrio economico; ridefinire il sistema di gestione del personale delle società a controllo pubblico; garantire che l’attività delle società a partecipazione pubblica sia maggiormente efficiente. Nel “lungo periodo” a: miglioramento dei servizi erogati a cittadini e imprese; maggiore credibilità e trasparenza della pubblica amministrazione; favorire il migliore utilizzo delle risorse pubbliche, mediante l’efficiente allocazione delle stesse e la rimozione delle fonti di spreco. Si tratta di una schematizzazione probabilmente prolissa e ripetitiva, che però dimostra come l’eccesivo numero delle attuali partecipate pubbliche e la loro gestione, spesso non pienamente rispondete ad economicità, rappresentavano e rappresentano una criticità seria nell’ambito dei generali problemi della Pubblica Amministrazione, criticità che aveva richiamato anche l’attenzione delle istituzioni europee.
(178) Significativi i rapporti annuali della Corte dei Conti sez. autonomie su “Gli organismi partecipati dagli enti territoriali”. La Relazione 2015 è stata adottata con deliberazione n. 24/SEZAUT/2015/FGR (Pres. Squitieri, R., Rell. De Girolamo, A., Corsetti, A.)
(179) Così il parere Cons. St., comm. spec., 21.4.2016, n. 968, Pres. Frattini, Est. Bellomo, F., Lopilato, V., ove puntuali e ricostruttivi commenti allo schema di d.lgs. e circa la materia considerata
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Si tratta di un criterio che riprende una consolidata e convincente giurisprudenza costituzionale. Ci si riferisce, in particolare, alle sentenze 1 agosto 2008, n. 326 (180) e 4 maggio 2009, n. 148 (181), ove si è posto l’accento, quale elemento centrale di inquadramento, sull’oggetto sociale delle partecipate dalle Amministrazioni pubbliche e di conseguenza sulla distinzione tra “attività amministrativa in forma privatistica” e “attività d’impresa di enti pubblici”: «L'una e l'altra possono essere svolte attraverso società di capitali, ma le condizioni di svolgimento sono diverse. Nel primo caso vi è attività amministrativa, di natura finale o strumentale, posta in essere da società di capitali che operano per conto di una pubblica amministrazione. Nel secondo caso, vi è erogazione di servizi rivolta al pubblico (consumatori o utenti), in regime di concorrenza» (cfr. sent. 326 cit.) (182). Le due sfere di attività devono essere separate per evitare che un soggetto che svolge attività amministrativa, eserciti allo stesso tempo attività di impresa, beneficiando dei privilegi dei quali esso può godere in quanto Amministrazione pubblica. La libertà di iniziativa economica delle Amministrazioni pubbliche non è negata ma esse devono esercitarla distintamente dalle proprie funzioni amministrative, rimediando ad una frequente commistione distorsiva della concorrenza. Da tutto ciò la possibilità (e opportunità) che il legislatore stabilisca alcune regole particolari per le società partecipate dalle Amministrazioni pubbliche, profili per i quali deve sussistere una uniformità a livello nazionale; pertanto, il t.u. riprendendo e razionalizzando precedenti disposizioni, ha, da un lato, prescritto che le società in house hanno come oggetto sociale esclusivo le attività per le quali sono state costituite o partecipate (art. 4, co, 4). Sotto altro profilo, è fatto divieto alle c.d. società strumentali (aventi per oggetto l’autoproduzione di beni o servizi per l’ente o gli enti pubblici partecipanti nel rispetto del diritto europeo sui contratti pubblici) di costituire nuove società e di acquisire nuove partecipazioni in società (art. cit., co. 5).
Oltre ed in conseguenza alla distinzione tra tipi di società, che si riflette sul loro regime giuridico, vi è un ulteriore profilo – ora stabilito dal t.u. – relativo alle finalità (pubbliche) perseguibili mediante
(180) Pres. Bile, F., Red. Cassese, S. Per un commento, v. R.URSI, La Corte costituzionale traccia i confini dell’art. 13 del
decreto Bersani, in Giornale dir. amm., 2009, 11.
(181) Pres. Amirante, F., Red. Tesauro, G. Per un commento v. G. BOTTINO, Le amministrazioni pubbliche e la
costituzione, o la partecipazione, di società a capitale pubblico: la legittimità costituzionale dei limiti previsti nell'odierna legislazione statale, in Giur. Cost., 2009, 1606 ss.
(182) La distinzione tra società che svolgono attività amministrative e società di capitali che svolgono vera e propria attività economica è stata ripresa dal legislatore, ad esempio nell’art. 29 della l. 7.8.1990, n. 241 in materia di procedimenti amministrativi; ivi si stabilisce che le disposizioni della legge «si applicano, altresì, alle società con totale o prevalente capitale pubblico, limitatamente all’esercizio delle funzioni amministrative».
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l’acquisizione e la gestione di partecipazioni pubbliche; anche questo profilo è stato ricostruito dalla sopra citata giurisprudenza costituzionale. Nella sent. n. 148 del 2009, giudicando della costituzionalità dell’art. 3, co. 27 ss. della l. 24 dicembre 2007, n. 244, si richiama la relazione al relativo disegno di legge e si sottolinea che pur essendo la creazione di società per lo svolgimento di compiti di rilevanza pubblica uno strumento utilissimo per perseguire maggiore efficienza a vantaggio della collettività, occorre evitare forme di abuso che sottraggono l’agire amministrativo ai canoni della trasparenza e del controllo da parte degli enti pubblici e della stessa opinione pubblica nonché occorre tutelare la concorrenza e il mercato. Per queste ragioni sono possibili (e opportune) norme dirette ad evitare che le Amministrazioni pubbliche «svolgano attività economica al di fuori dei casi nei quali ciò è imprescindibile per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, ovvero per la produzione di servizi di interesse generale», norme miranti a realizzare dette finalità «con modalità non irragionevoli» e cioè senza «carattere di genericità» ma esclusivamente nei casi «nei quali non sussista una relazione necessaria tra società, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche, e perseguimento delle finalità istituzionali» (sent. ult. cit.). Per queste ragioni, il t.u. identifica le attività rispetto alle quali le Amministrazioni pubbliche possono, direttamente o indirettamente, costituire società ed acquisire o mantenere partecipazioni in società. Tale identificazione è tassativa («esclusivamente per lo svolgimento delle attività sotto indicate» art. 4, co. 2).
Prima di richiamare l’identificazione contenuta nel t.u., conviene ricordare che questa impostazione, già anticipata con il cit. art. 3 della l. n. 244/2007, era stata riassunta e ricostruita in maniera veramente completa da Cons. St., A.P., 3 giugno 2011, n. 10. Non è ammessa la costituzione e il mantenimento da parte delle Amministrazioni pubbliche di società commerciali con scopo lucrativo in cui campo di attività esuli dall’ambito delle rispettive finalità istituzionali né risulti comunque coperto da disposizioni normative di specie (secondo il modello delle c.d. “società di diritto singolare”) (183).
(183) Infatti, sempre secondo quanto segnalato dall’A.P. del Cons. St. si deve tenere conto delle seguenti coordinate fondamentali: a) l'attività di impresa è consentita agli enti pubblici solo in virtù di espressa previsione; b) l'ente pubblico che non ha fini di lucro non può svolgere attività di impresa, salve espresse deroghe normative; c) la possibilità di costituzione di società in mano pubblica, operanti sul mercato, è ordinariamente prevista da espresse disposizioni legislative; non di rado è la legge a prevedere direttamente la creazione di una società a partecipazione pubblica; d) la costituzione di società per il perseguimento dei fini istituzionali propri dell'ente pubblico è generalmente ammissibile se ricorrono i presupposti dell’in house (partecipazione totalitaria pubblica, esclusione dell'apertura al capitale privato, controllo analogo, attività esclusivamente o prevalentemente dedicata al socio pubblico), e salvi specifici limiti legislativi.
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«Un conto è, dunque, la costituzione di una società in house, da parte di un ente pubblico senza fine di lucro, che è in sé un modulo organizzativo neutrale, che rientra nell'autonomia organizzativa dell'ente, con il limite intrinseco che ogni forma organizzativa è sempre e necessariamente strumentale al perseguimento dei fini istituzionali dell'ente medesimo, e salvi specifici limiti legislativi. Un altro conto è la costituzione, da parte di un ente pubblico, di una società commerciale che non operi con l'ente socio, ma operi sul mercato, in concorrenza con operatori privati, e accettando commesse sia da enti pubblici che da privati. La società commerciale facente capo ad un ente pubblico, operante sul mercato in concorrenza con operatori privati, necessita di previsione legislativa espressa, e non può ritenersi consentita in termini generali, quanto meno nel caso in cui l'ente pubblico non ha fini di lucro».
Nel t.u., riveste importanza centrale la norma dell’art. 1, co. 3: «Per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato». Si tratta di un’affermazione non scontata perché la sempre più ampia presenza di società partecipate da Amministrazioni pubbliche e l’eterogeneità dei loro oggetti, così come il relativo collegamento finalistico con gli interessi pubblici, poteva far dubitare, qualcuno, che il regime giuridico fosse sempre quello dettato dal c.c. Con minore incisività ed anche con minore risalto, una previgente disposizione, inserita in un d.l. recante misure urgenti per la spending review, aveva già stabilito che «Le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salve deroghe espresse, si applica comunque la disciplina del codice civile in materia di società di capitali» (art. 4, co. 13 del d.l. 6 luglio 2012, n. 95 conv. in l. 7 agosto 2012, n. 135). Viene pertanto ribadita una ricostruzione che era già propria della giurisprudenza e della dottrina, le quali non avevano mancato di sottolineare che la partecipazione pubblica, anche integrale, non muta la natura della società partecipata e che da un atto di autonomia privata (e cioè dalla costituzione o partecipazione a società secondo le modalità previste nel c.c.) non può sorgere un ente pubblico o organo, in senso proprio, dell’ente pubblico, se non interviene la legge ad operare tale qualificazione (184).
(184) Cfr., tra le molte, Cass. civ., S.U., 4.1.1993, n. 3 e Cass. civ., S.U., 15.4.2005, n. 7799. In dottrina si deve ancora oggi rinviare a G.GALGANO, (da ultimo in) F.GALGANO., e R.GENGHINI, Il nuovo diritto societario, II ed., tomo I, Padova,
2004, 449 ss.; MSGIANNINI, Diritto amministrativo, vol. I, III ed., Milano 1993, 232; F.ROVERSI MONACO, Brevi note in
tema di società per azioni «pubblica», in Cons. Stato, 1972, II, 950 ss. («la società a partecipazione pubblica è, salvo eventuali deviazioni da valutarsi caso per caso, integralmente disciplinata dal diritto privato: è, quindi, ente privato
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La volontà di determinare una identità di disciplina privatistica, nonostante la partecipazione pubblica, rende conto dell’esigenza che le deroghe (ossia regole particolati integrative) si concretino solamente in alcuni aspetti di specialità rispetto alle previsioni codicistiche e non diano luogo ad una disciplina eccessivamente derogatoria o peggio del tutto speciale ed atipica rispetto al paradigma del contratto di società, perché altrimenti ci si troverebbe di fronte ad un ente pubblico o apparato