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iii The Empty Space, di Peter Brook: terzo spazio e nuove prospettive teoriche

In un saggio di Peter Brook, "The Open Door", l'autore ricorda che un famoso regista sudafricano gli aveva confessato l'utilità della lettura di The Empty Space per le sue produzioni, e sentendosi lusingato, Brook si domanda come mai quel testo poteva essere stato utile alla difficile realtà di chi aveva vissuto il martirio di Soweto157. La risposta è contenuta nelle prime righe dello stesso libro. Brook parla

dell'effettiva esperienza del fare teatro in luoghi diversi dalla struttura tradizionale e di come possa essere ugualmente "vero" teatro rifacendosi proprio ai concetti esposti in The Empty Space a proposito del "Rough Theatre".

La concezione di "fare teatro" di Brook è molto aperta e dinamica. Rifiuta la rigidità della forma e dello spazio chiuso. Il teatro come spettacolo è concepito come energia, "scintilla di vita", momento unico vissuto nel presente attraverso il prezioso lavoro del corpo dell'attore. Nel considerare la forte analogia tra la posizione di Brook e quella precedentemente considerata di Barba a proposito della recitazione, non si può fare a meno di notare che la visione del regista inglese è forse ancora più "trasgressiva", nel senso che concepisce ogni spettacolo come il risultato di un'unica esperienza energetica, data da una forte e intensa carica interpretativa, all'interno di un qualsiasi spazio, anche vuoto, ma riempito dalla solo potenza della parola pronunciata dell'attore. E' l'attore, che attraverso il suo corpo, crea una visione del mondo ed è questa presenza che attraverso la sua "autentica creatività" può riempire lo spazio del teatro.158 Il teatro per Brook è senza barriere e senza chiusure tra spettatore e scena. Per questo il "teatro

di villaggio" permette una condivisione tra attori e pubblico.159 A questo proposito Brook racconta di

un'esperienza in Iran dove, assistendo ad una rappresentazione di un remoto episodio storico del paese, realizzata in un luogo sperduto in aperta campagna, ricorda la forte empatia tra ciò che accadeva

all'interno della messa in scena e il pubblico.160 Il fatto più interessante è -- secondo Brook -- la

completa e totale rivisitazione del fatto storico, come se quel momento passato fosse trasportato interamente sul piano del presente:

Il villaggio partecipava direttamente e totalmente, qui e adesso, alla morte reale di una figura reale che era morta alcune migliaia di anni prima. La storia era stata letta loro moltissime volte, e descritta a parole, ma solo la forma teatrale poteva

155 Ibid. p. 119. 156 Ibid. p. 170.

157 Peter Brook The Open Door, Theatre Communication Group,New York, 1995( trad. it. La porta aperta, Einaudi, Torino,

2005, p. 6 )

158 Ibid. p. 17. 159 Ibid. p. 27. 160 Ibid. pp. 28-29.

compiere questa impresa di renderla parte di un'esperienza viva161 .

Trasportando questa prospettiva al teatro postcoloniale, sia esso aborigeno, indiano o caraibico, è possibili individuare l'esistenza di una volontà incentrata sulla revisione o sul recupero di un passato distorto. Se questa esperienza è necessaria, come ci trasmette Brook, attraverso un'empatia tra pubblico e attori, e se esiste da parte degli autori e dei registi una forte consapevolezza dell'importanza della preparazione del pubblico, come in Walcott, allora è possibile affermare che il teatro postcoloniale, nel momento deittico della rappresentazione, colma, attraverso una nuova narrazione della Storia, uno spazio precedentemente vuoto, condividendo con il proprio pubblico il momento di rielaborazione degli eventi passati, e permettendo ad esso di conoscere quello che non è mai stato raccontato, e se lo è stato, è stata fatto in modo diverso.

Brook ci insegna anche a rifiutare il concetto di "forma" in riferimento agli spettacoli di teatro, nel senso di "tradizione", ma anche nel senso opposto. Brook parla di "congelamento" o "forma congelata" riferendosi alla tradizione162, e questo vale per tutti i tipi di tradizione, sia quella classica che folklorica

e locale. Secondo Brook, ciò che conta nel teatro è l'apporto di umanità, la genuinità della rappresentazione, il "dare forme nuove", il che significa rinvigorire anche spettacoli o rappresentazioni di antichi testi come quelli di Shakesperae, ad esempio. Se per Brook il teatro non deve mai essere una "strategia della noia" e quindi attraverso la rappresentazione teatrale deve in qualche modo rinnovare anche ciò che è vecchio e obsoleto, non è possibile dire che questo rinnovamento è stato prodotto da spettacoli e testi del teatro postcoloniale? A questo proposito potremmo citare la ri-scrittura della famosa opera di Tirso de Molina El Burlador de Sevilla, da parte di Derek Walcott, The Joker of Seville, che come vedremo nei capitoli successivi, riattualizza il mito di Don Giovanni attraverso una lingua allo stesso tempo musicale, poetica ma anche molto vicina al modo di parlare dei caraibici di Trinidad. Oppure, la rivisitazione di episodi della storia, sia essa quella dei Caraibi o degli Stati Uniti, come in Drums and Colours, The Ghost Dance, Walker, dove Derek Walcott ha cercato di aprire nuovi spazi di discussione sulla storia passata agendo sulla memoria collettiva.

Il teatro deve, secondo Brook, sempre proporre il nuovo, anche quando, come in questo caso è mascherato dall'antico. Il teatro deve fuggire da un'idea di cultura superiore. Scrive a questo proposito: avete il diritto di sfidare l'idea insidiosa, socialmente riconosciuta, che la "cultura" sia automaticamente superiore. Naturalmente, la cultura è qualcosa di molto importante , ma la vaga idea di cultura quando non è rivisitata, rinnovata, è un'idea usata come un bastone per scoraggiare la gente dell’avanzare legittime rimostranze".163

Le idee del regista inglese confermano quanto scritto poc'anzi in riferimento alla tendenza trasgressiva del teatro postcoloniale, sfidando i parametri della "cultura", attraverso l'apertura a nuove possibilità interpretative a nuove soluzioni linguistiche; da questo punto di vista anche il teatro delle ex colonie si autorappresenta come una forma di contronarrazione.

L' azione trasgressiva della rappresentazione teatrale è rafforzata dalla sua immediatezza comunicativa, inscritta nella modalità enunciativa collegabile alla deissi, che, come riconosce anche Brook rende il "momento presente sbalorditivo",164 e proprio per questo, si mostra come azione culturale tra le più

temute dai regimi dittatoriali.

161 Ibid. p. 131. 162 Ibid. p. 37. 163 Ibid. p. 41. 164Ibid.

Non è certo il caso dell'autore che si andrà ad analizzare: Walcott è probabilmente l'autore che si vuole mostrare più avulso dalle varie polemiche politiche che caratterizzano alcuni grandi scrittori delle ex

colonie;165 tuttavia pensando al teatro postcoloniale in maniera generale, non si può non considerarlo

all'interno della lotta politica, come il caso del teatro nigeriano,con Soyinka rende esemplificativo. Il drammaturgo africano, infatti, proprio per i toni di denuncia e il messaggio fortemente polemico delle sue opere è stato in carcere dopo che gli fu preclusa la possibilità di vivere nel suo stesso paese. Questo riferimento, che tuttavia esula dal nostro campo d'indagine, può essere utile se non per rimarcare che il teatro postcoloniale, proprio per la caratteristiche legate alle modalità espressive del teatro come fatto comunicativo capace di posizionarsi sulla stessa lunghezza d'onda del pubblico, apre nuove spazi culturali che comportano situazioni di conflittualità politiche e sociali:

Scrive Romana Zacchi nella presentazione del volume La scena contestata:

Il mondo del teatro, giullari e istrioni, drammaturghi e compagnie, ha convissuto, con ricorrenti ondate di riprovazione, attacchi durissimi, censure governative, assalti giuridici, e gli esiti non sono mai stati indolori: gli strumenti del potere, intimidito dalla forza della scena, sono stati di volta in volta quelli del controllo religioso, morale e giuridico.166

E’ vero quindi che, da sempre, il teatro è stato luogo di scontro e incontro di pensieri, dibattiti, polemiche e sfide che hanno messo in discussione l’ortodossia del potere politico e dei relativi sistemi culturali.

Il discorso di Brook sul teatro, come è possibile dedurre, si collega pienamente alla realtà del teatro scritto e rappresentato nelle ex colonie: la visione di un teatro "rozzo" "immediato", non prodotto dalle "persone colte", ma sprigionato dall'energia del suono, della parola, del colore e del movimento sembra essere in sintonia con l'analisi del teatro "performativo" prodotta da Olaniyan e con la nozione di teatro sincretico di Balme. Le idee presentate da Brook riassumono con un tono appassionato e coinvolgente, dato da chi lavora direttamente sul campo pratico, gli studi di Pavis e Barba che, similmente, giungono a prospettare modalità spettacolari dinamiche e lontane da forme rigide e "congelate", bensì inserite in una prospettiva di creolizzazione e di relazione con la diversità culturale. La risposta a cui giunge Brook infatti è molto simile a quella di altri autori, e, come già affermato, si riconduce alla realtà postcoloniale nel tentativo di creare nuovi testi e spettacoli che non siano né l'imitazione o la semplice ri-scrittura della tradizione letteraria della società che ha dominato, né un ritorno alle origini, inteso come "africanismo", in quanto, anch'esso, inserito in una prospettiva estetizzante e esotizzante fortemente criticata da Said. Scrive infatti Peter Brook:

In India, in Africa, nel Medio Oriente, in Giappone, gli artisti che lavorano in teatro fanno la stessa domanda: qual'è la nostra forma oggi? (...)

Da un lato c'è la credenza che le grandi potenze culturali dell'Occidente - Londra, Parigi e New York - abbiano risolto il problema , e che basti usare le loro forme, allo stesso modo in cui i paesi sottosviluppati acquisiscono i processi industriali e le tecnologie. L'altro atteggiamento è opposto: gli artisti del paesi del terzo Mondo spesso sentono di avere smarrito le proprie radici, di essere rimasti intrappolati nella lunga ondata proveniente dall'Ovest con tutte le sue immagini del 20° secolo, così da sentire il bisogno di rifiutarsi di imitare i modelli stranieri. Questo conduce a un provocatorio ritorno alle

165Questa affermazione è ovviamente discutibile, considerando anche la recente dichiarazione "poetica" di Derek Walcott al

Presidente americano Obama con la poesia Forty Acres. Tuttavia si è preferito tralasciare le implicazione puramente politiche del teatro walcottiano -- che comunque emergono -- optando per un approccio essenzialmente culturale e artistico, alla luce di quanto dichiarato anche dall'autore sulla valenza politica dell'arte.

radici culturali e alle antiche tradizioni. (...) nessuno dei due metodi, tuttavia, produce buoni risultati167.

Riconoscendo anche al teatro postcoloniale, quindi, il possibile rischio di elaborare forme sterili e vuote, Brook riflette sul significato più profondo del teatro come forma espressiva: "un'esperienza teatrale che vive nel presente deve essere vicina al pulsare del tempo" 168; in questo modo il teatro,

anche quello dei paesi che da poco hanno dato voce alle loro identità, deve esprimere quella sostanza che è la "densità dell'esperienza umana", a sua volta indefinibile, inafferrabile e magica come il teatro stesso. Allargandosi al concetto dell'arte che "non possiamo né afferrare, né definire", Brook riflette su ciò che può veramente rappresentare la vivacità e la novità di un teatro che non ha più barriere, né tradizioni separate, ma basato sull'utilizzo di forme in maniera temporanea e transitoria allo scopo di "lasciare una porta aperta" attraverso cui la visione del mondo si modifica.169. Come vedremo, è questo

che Walcott ha tentato di fare: il concetto di mimicry che egli stesso ha adottato nel riallacciarsi alle forme della tradizione letteraria e linguistica dell'Europa, gli ha permesso non tanto di imitare delle forme ma di usarle nella maniera per lui più originale, di mescolarle con altri elementi più caraibici, allo scopo di creare una forma nuova -- anch'essa transitoria -- ma tale da fare sì che pubblico e lettori acquisissero nuove visioni e vivessero -- almeno nel momento deittico della rappresentazione -- nuove esperienze.

Lo spazio vuoto, in senso metaforico, incorpora tutte le esperienze di teatro che abbracciano, secondo la visione di Brook il nuovo. Questa immagine del teatro si collega al concetto di nuova spazialità culturale di cui parla Bhabha nella sua raccolta di saggi, ripetutamente citata, The Location of Culture. In più parti il teorico indiano parla di "third space", in cui la struttura del significato e del referente nell'atto di enunciazione si rivela doppia e ambivalente, portando a sfidare il sentimento storico di un'identità culturale, normalmente concepito come una forza "unificante, autenticata dal passato, e tenuta in vita dalla tradizione nazionale del popolo".170 Nello spazio di negoziazione dei significati,

come ci spiega Bhabha, emergono potenzialità di significati dati dalla ambivalenza stessa dei referenti, in questo modo il linguaggio può essere ibrido, "contaminato" da diverse lingue che sono parlate simultaneamente, oppure si possono udire diversi stili e registri, simultanei nello stesso dialogo. Se applichiamo le teorie di Bhabha al linguaggio possiamo identificare lo spazio comunicativo delle ex- colonie o delle città ad alta densità di immigrazione come quello in cui si annulla il concetto di nazione tradizionale, e dove si aprono tanti spazi possibili, in cui i confini si sovrappongono giungendo così ad una dimensione culturale transnazionale e translaziononale. Come si rapporta il teatro a tutto questo? Abbiamo già cercato di dimostrare come, in maniera particolare nella rappresentazione, il teatro possa essere uno spazio di enunciazione "altro", che nella dimensione deittica esprime una forte valenza culturale. In particolare, lo spazio del teatro postcoloniale è proprio lo stesso "terzo spazio di enunciazione" in cui si articolano e si negoziano le differenze culturali. L'esempio più immediato in Walcott è ancora Pantomime, in cui l'autore inscena una rivisitazione del rapporto Robinson- Crusoe attraverso due personaggi, un ex-attore inglese e un ex compositore di calypsos di colore, entrambi soli sia nello spazio della storia, l'albergo chiuso per lavori in corso a Trinidad, e ovviamente lo spazio della scena in quanto sono gli unici due personaggi dell'opera. Come vedremo, in modo più analitico la pantomima messa in scena da Jackson tenta un "vero" ribaltamento dei ruoli all'interno del rapporto

167 Peter Brook, La porta aperta, op. cit. p. 64. 168 Ibid. p. 67.

169 Ibid. pp. 68-69.

servo-padrone, cercando di sviscerare le distanze tra i due personaggi determinate da secoli di storia di dominio europeo e allo stesso tempo articolando una nuova prospettiva culturale data dalla ricerca stessa di un linguaggio nuovo e comune. Walcott, in questo caso, offre direttamente la possibilità di considerare il teatro proprio come "terzo spazio di enunciazione" in quanto i personaggi mettono in scena una pantomima; pertanto la prospettiva metalinguistica elaborata dall'autore sembra confermarci la validità della supposizione che il teatro postcoloniale è un teatro che tende ad esprimere concetti culturali nuovi in uno spazio da costruire, o da ristrutturare, come emblematicamente è l'albergo in cui si ritrovano i due personaggi di Pantomime, ma che è comunque quello spazio in cui la diversità culturale può essere enunciata e quindi rappresentata.

Il nuovo del teatro postcoloniale permette forse quella revisione di analisi teorica anche nel campo della semiotica teatrale ipotizzata da Patrice Pavis come allargamento degli stessi confini di analisi in aree culturali più ampie e più ibride.

La semiotica teatrale deve forse tenere in considerazione l'apporto delle teorie postcoloniali e di come queste possono essere integrate e applicate alla realtà testuale.

Cercando di stabilire un'interazione tra le teorie relative alla comunicazione letteraria, teorie semiotiche e postcoloniali, Cristina Demaria fornisce elementi utili a questa ricera nel volume Teorie di Genere. femminismo. Critica post-coloniale e semiotica. L'approccio di Demaria, riferito principalmente ad una rimodulazione del genere all'interno della comunicazione letteraria, con chiari riferimenti alle teorie femministe, permette di considerare la base teorica del postcolonialismo come un importante apporto alle teorie semiotiche. Se il corpo femminile e il corpo del nativo risultano segni di "corpi schiavizzati" e inferiori, posti sullo stesso piano, e se l'identità individuale femminile può essere (de)costruita come pratica semiotica, anche l'identità del nativo si inserisce in tale pratica171. Come osserva Demaria infatti

nel dibattito femminista intervengono le questioni legate alla razza e all'etnia all'interno di un tentativo di riformulare il canone, la prospettiva storica, ma anche la stessa generazione del discorso da un punto di vista semiotico.172

Il campo post-coloniale è un assemblaggio, un corpus di testi che conserva come tema e interessa principale l'analisi della

relazione coloniale, e quindi della definizione di una prospettiva imperialista, così come della prospettive subalterne e

resistenti che a essa si sono opposte o ancora si oppongono. La decolonizzazione viene così interpretata come un processo di riformulazione dei significati culturali dominanti, cui la letteratura e la critica post-coloniale partecipano come spazio di trasformazione e di elaborazione delle rappresentazioni" 173.

Se la letteratura postcoloniale, e quindi anche il teatro, ha la funzione di rimodellare la prospettiva culturale, riconducendo i soggetti dominati, i colonizzati da coloro che subiscono passivamente la storia a coloro che ne diventano protagonisti, appare evidente che la teoria, la critica letteraria e la semiotica non possono prescindere da questo cambio di prospettiva. Se, come sottolinea ancora Demaria, e come abbiamo visto in E. Said, il colonialismo è stato un'"operazione del discorso che interpellava i soggetti coloniali incorporandoli in un sistema di rappresentazioni",174 lo scopo della letteratura postcoloniale

sarà quello di creare degli spazi di confine meno marcati e di annullare il dualismo della percezione della differenza culturale. Questa labilità del confine è l'anima della teoria postcoloniali che ribalta completamente la metodologia di analisi e gli stessi "oggetti di valore" delle enunciazioni teoriche che

171 Cristina Demaria Teorie di Genere. Femminismo, critica postcoloniale e semiotica. Bompiani 2003. p. 46. 172 Ibid. p. 97.

173 Ibid. p. 98. 174 Ibid. p. 99.

hanno supportato il colonialismo e l'imperialismo. In questa prospettiva, il teatro come genere letterario, ma anche come spettacolo, si propone come momento deittico di enunciazione diretta il cui scopo è, nell'immediato, attraverso tutti i meccanismi legati all'enunciazione e alla significazione che sono stati brevemente analizzati, quello di creare un nuovo spazio identitario per coloro che non avendo vissuto la storia, l'hanno subita. Se Cristina Demaria propone nello studio dei testi femminili, un ribaltamento delle prospettiva teorica per riattivarne una che consideri il linguaggio, il corpo femminile secondo nuove linee di indagini semiotiche, perché non pensare di considerare la letteratura postcoloniale, partendo proprio dal teatro, un valido apporto che permette quello stesso cambiamento che anche Patrice Pavis auspicava? Tutto ciò renderebbe forse possibile una rivalutazione di opere all'interno del "canone tradizionale" e quindi di riattualizzarle non solo attraverso la rappresentazione scenica, come propone Brook rifiutando la ridondanza del "teatro mortale", ma attraverso l'attivazione di nuove prospettive teoriche in cui non si può più trascurare la realtà postcoloniale.

Prima di concludere, occorre riflettere anche sulla traccia di pensiero lasciata da Demaria: il corpo. Come abbiamo cercato di definire all'inizio di questo capitolo, nel teatro si sovrappongono diversi segni, non necessariamente linguistici, ma anche corporei, direttamente ed esplicitamente rappresentativi di passioni e affetti. In un testo complesso come quello teatrale esistono, utilizzando le parole di Paolo Fabbri:

pezzi di parole,di gesti, d'immagini, di suoni, di ritmi(...)175

L'analisi di Fabbri cerca di ampliare la pratica semiotica riferita al testo, tenendo in considerazione il ruolo del corpo nella rappresentazione dei sentimenti umani. Il teatro di Derek Walcott avrà come scopo quello di stabilire degli equilibri tra la lingua e corpo, ridimensionando e rivoluzionando le concezioni sull'identità culturale ma anche sulle strutture interne alla comunicazione teatrale. Le ipotesi metodologiche di Fabbri si rivelano molto utili se applicate al teatro di Walcott, che riflette e fa riflettere sulla realtà caraibica nelle sue specificità postcoloniali e multiculturali.Walcott è per metà inglese, in parte anche olandese, e con la sua grande opera, oltre a scoprire i Caraibi, non si può fare ameno di scoprire una nuova realtà, che non è solo quella della sua isola, ma anche dell'Europa dei suoi antenati o degli Stati Uniti, la sua seconda patria. Così la letteratura e il teatro, con Walcott, rivivono