Un primo elemento di analisi del teatro postcoloniale è la rappresentazione dell'alterità, e la volontà di ri-scrivere o mostrare in maniera inusuale la tradizione "classica" occidentale. Il linguaggio altisonante, retorico, l'eroe tragico, l'impatto catartico sul pubblico sono elementi portanti del teatro classico che, tuttavia, possono ricomporsi secondo una nuova ottica rigenerante nel teatro postcoloniale. La ri- scrittura, la fusione tra elementi nuovi e antichi coinvolge un processo di riformulazione del teatro secondo parametri più originali e più adatti alle nuove condizioni imposte dalle regole della globalizzazione. Il teatro -- anche nel rispetto della classicità -- attraverso le esperienze postcoloniali, deve mettere in discussione l'originalità di un testo, grazie a una recitazione attiva e partecipe. Dovrebbe evitare di essere quello che Peter Brook chiama "deadly theatre".128
Un teatro “vivo” si basa, secondo Brook, sulla ricerca, sulla scoperta del nuovo nei testi “classici”, sulla rivalutazione di stili di recitazione e sulla scomparsa di “pregiudizi” legati al consolidamento di determinate prospettive culturali. Scrive Brook:
In a living theatre, we would each day approach the rehearsal putting yesterday's discoveries to the test, ready to believe that the true play has once again escaped us. But the Deadly Theatre approaches the classics from the viewpoint that somewhere, someone has found out and defined how the play should be done. 129
La minaccia di pietrificare il testo, in una visione di come “dovrebbe essere realizzato”, opprime la vitalità del testo stesso, che si può modellare e vivificare nelle mani degli autori contemporanei e grazie alla scoperta di nuovi stili di recitazione. Questi presupposti anticipano elementi tematici e strategie performative caratteristici del teatro walcottiano.
Nel teatro "rozzo", di impatto immediato inserito nella quotidianità a cui fa riferimento Peter Brook, l'alterità è inserita come segno del teatro e gli appartiene in maniera quasi "genetica", come se il teatro stesso si nutrisse di forme altre, diverse e decisamente alternative al teatro "classico" o della "tradizione". Tuttavia il teatro delle ex colonie non vuole né opporsi né sostituirsi al teatro "occidentale", ma integrarlo o probabilmente ridistribuire elementi desunti dalla tradizione in nuovi contesti linguistici e performativi.
Rifacendosi nuovamente alla nozione di T. Kozwan, in base alla quale tutto è segno nel teatro, si può deurre che anche le forme e le rappresentazioni del diverso possono essere considerate segni. Per "diverso" si intende tutto ciò che esula dal punto di vista eurocentrico, tutto ciò che è "periferico" opposto al "centro", il "nero" opposto al "bianco". Nel teatro postcoloniale la rappresentazione del diverso non è mai realizzata esternamente, da un punto di vista di osservazione "etnocentrica", bensì da una prospettiva interna, in quanto la diversità intesa a questo punto come differenza culturale è tale solo se la percezione è appunto eurocentrica.
Scrive Elleke Bohmer, a proposito della scrittura postcoloniale:
Indigenous writers focus their energies on revising the language, narrative styles and historical representations of the colonial or invader. Again their aim is not to replace white with black. Rather it is to accentuate hybridity.130
128 Peter Brook, The Empty Space, o. cit. pp. 9-41. 129Ibid. p. 14.
In pratica, il teatro postcoloniale -- come le altre forme di espressione letteraria -- ha trasformato il segno dell'Altro e della differenza culturale inserendolo in più ampi orizzonti di narrazione e di rappresentazione.
For the post-colonial playwright theatre has meant both traditional indigenous performance -- which has often had to be rediscovered and reinvented -- and the theatre that the colonists brought with them from the metropolitan power, usually in particularly impoverished and amateur forms.131
Il teatro povero e amatoriale delle ex-colonie ha allargato in un certo senso i confini delle forme di narrazione e di rappresentazione modificando la percezione del segno dell'alterità e delle differenze culturali.
Nel teatro, così come in tutta la letteratura coloniale, l'Altro è sempre stato rappresentato come distante, negativo e selvaggio. Uno dei primi autori che ha rappresentato a teatro un personaggio "diverso" in tal senso è stato Shakespeare in The Tempest, con Calibano. In tal guisa il segno della diversità è stato definito circoscrivendolo alla connotazione negativa, ben sapendo come il personaggio di Calibano si rapporti "scorrettamente" con un linguaggio spesso violento e volgare, sia nei confronti di Prospero che di Miranda, i quali a loro volta gli si rivolgono con un linguaggio da "dominatori," chiamandolo spesso "abhorred slave".132 Con Shakespeare il nativo, l'indigeno diventa l'orribile schiavo da confinare e
degradare psicologicamente in quanto indegno di vivere nella stessa comunità dei personaggi bianchi. Senza dovere ripercorrere la storia di come è stato rappresentato il nero o il selvaggio nel teatro, si può concordare con il giudizio di Olaniyan a proposito della rappresentazione "eurocentrica" della differenza culturale, come derivante da considerazioni, presupposti e stereotipi relativi a ciò che può
essere o meno rappresentabile da un punto di vista morale e religioso133. Olanyan afferma che nel teatro
americano fino al Novecento, il nero è sempre stato interpretato da attori bianchi mascherati da personaggi stereotipati, rappresentativi di comportamenti tipici di neri, ex schiavi delle piantagioni, spesso grotteschi o comici. Questo "blackface minestrly" è secondo Olaniyan, la rappresentazione eurocentrica della differenza culturale e razziale. Il nero, non può nemmeno recitare sé stesso sul palcoscenico, e se nel testo drammatico il segno del "nero" o del "selvaggio" è comunque associato al suo significante, in questo tipo di rappresentazione il significante(l'attore) è completamente dissociato dal suo significato.
L'impossibilità di rappresentare il vero "nero" o comunque la resa di esso attraverso la maschera, a teatro, provoca una maggiore percezione della distanza e dell'alterità, rendendo così visibile allo spettatore che tale personaggio “diverso” è in realtà una finzione: il referente del corpo dell'attore -- mascherato da nero -- è annullato, in quanto la sua stessa identità è negata. Potremmo quasi affermare che il teatro eurocentrico ha negato la rappresentazione del diverso, per costruire una forma di alterità relegata a grottesca rappresentazione di personaggi stereotipati e “finti”. Secondo Olaniyan il "blackface minestrly" ha infatti contribuito ad amplificare il pregiudizio e la considerazione pregiudiziale dei personaggi "neri" rappresentati a teatro.134 D’altra parte questo modo di percepire
l’alterità, come distante e soprattutto non appartenente ad un determinato ambito culturale, rientra in un
131 Brian Crow, Chris Banfield, An Introduction to Post-colonial Theatre Cambridge University Press, Cambridge, 1996, p.
11.
132 William Shakespeare The Tempest, by the Folger Shakespeare library, Washington Square Press, 1994. 133 Tejumola. Olniyanan Scars of Conquests Masks of Resistance, op. cit.
modo di concepire la struttura stessa della narrazione e della rappresentazione, come ha delineato in maniera esaustiva E.Said in Culture and Imperialism. L’autore, esaminando, la narrativa e il teatro del Novecento, indica come la rappresentazione della cultura e delle persone non occidentali, rientri in forme stereotipate, a loro volta inserite in una visione “orientale” ed esotica della figura dei nativi di luoghi colonizzati. Ad esempio analizzando Heart of Darkness di Conrad, l’autore fa notare che, pur descrivendo la disumanità di Kurtz, scrittore e narratore non approfondiscono la percezione -- e quindi non trasmettono -- quanto avvenga realmente tra gli indigeni, essendo la prospettiva del racconto in linea con i principi della colonizzazione:
…né Conrad né Marlow ci fanno vedere cosa vi sia al di là degli atteggiamenti da conquistatori del mondo incarnati da Kurtz, da Marlow, dal gruppo di ascoltatori incantati sul ponte della Nelle e da Conrad stesso. Con questo intendo dire che
Cuore di Tenebra è così efficace perché la sua estetica e i suoi principi politici sono, per così dire, imperialisti, e questi alla
fine dell’Ottocento parevano incarnare al tempo stesso una estetica, una politica e perfino un’epistemologia inevitabili e ineluttabili135.
Said mette in luce come tutta la letteratura dell’Ottocento e di parte del Novecento si basi su una visione dell'imperialismo come la “missione civilizzatrice” -- riecheggiando la nota poesia di R.Kipling -- di determinati paesi europei nei confronti delle colonie e di come, di conseguenza, gli abitanti di tali spazi fossero, similmente alle loro terre, oggetti da manipolare e da plasmare secondo un’identità occidentale. La loro diversità e differenza viene pertanto percepita come distanza.
Said dimostra come lo stesso spazio coloniale venga omologato alla spazio della madrepatria e, come, già nella narrativa di Jane Austen e Charles Dickens, le colonie siano percepite come un prolungamento geografico della Gran Bretagna. Oltre a ciò, i personaggi europei come Marlow o Lawrence D’Arabia, rafforzano l’idea dell’autorità del dominio colonizzatore136. Said propone un esempio di
rappresentazione “orientaleggiante” di luoghi e persone di uno spazio coloniale nel teatro attraverso lo studio delle messa in scena dell’Aida di Giuseppe Verdi, in cui la rappresentazione dell’Impero è rintracciabile nelle scelte scenografiche e coreografiche, nei costumi, nella conformazione di alcuni personaggi, realizzata dallo stesso compositore. Said sottolinea il coinvolgimento e la presenza di Verdi nella realizzazione dello spettacolo di opera lirica, e di come le sue scelte riflettano la tendenza ad omologare la rappresentazione dell’esotico inscritto nell’immaginario occidentale delle colonie e dei loro abitanti.
Ne risultò un Egitto orientaleggiante a cui anche Verdi, dal canto suo, era arrivato con la musica. Tipici da questo punto di vista alcuni passaggi del II atto: il canto della sacerdotessa, e poco più avanti, la danza rituale (...)
A questo materiale Verdi apporta due importanti modifiche. Trasforma alcuni dei sacerdoti in sacerdotesse, seguendo la consolidata tradizione europea di mettere delle donne orientali al centro di qualsiasi rituale esotico; le sacerdotesse verdiane sono l'equivalente delle danzatrici, delle schiave, delle concubine e delle "bellezze al bagno" nell'harem, che dominano l'arte europea di metà Ottocento e, dal 1870 in poi, gli spettacoli d'intrattenimento" 137.
Said ci mostra come la realizzazione di un grande spettacolo come l'Aida di Verdi riconfermi una tendenza culturale che intendeva mantenere una forte distanza tra il mondo dei colonizzatori,"civilizzato" e quello delle colonie, percepito come esotico per essere poi omologato ad
135 Edward Said, Culture and Imperialism Vintage Books, 1994 Cultura e Imperialismo (trad. it. Cultura e Imperialismo,
Gamberetti ed., Roma 1998, p. 49).
136 Ibid. 137 Ibid. p. 146.
un'unica forma rappresentativa di un "Oriente" in realtà molto distante dal contesto culturale delle colonie. Come si intuisce dalla lettura dell'opera di Said, molto spesso, la differenza culturale si amplificava attraverso il corpo femminile, che similmente al nativo o al selvaggio, era considerato "oggetto" inferiore e di facile sfruttamento. L'esempio offerto da Said in riferimento ad uno spettacolo decisamente centrale nella storia del teatro e dell'opera come l' Aida, conferma l'ipotesi che, nelle diverse forme di spettacolo teatrale occidentale, il segno dell'"altro" era spesso rappresentato attraverso un camuffamento che ne allargava la percezione della distanza e della diversità culturale e sociale. E' anche pertinente affermare che comunque la scrittura, intesa come lingua espressiva di generi e opere letterarie, ha -- da un punto di vista antropologico -- cercato di catturare la diversità culturale e di riportarla entro i limiti della cultura occidentale. La scrittura, come contrapposizione alla nozione di oralità associata alle culture primitive e non civilizzate, delimita e circoscrive la diversità attraverso un linguaggio conosciuto e consolidato culturalmente. L'etnologia, come scrive Michel de Certau, in La scrittura dell'altro, ha permesso di strutturare, attraverso le forme della scrittura, la dimensione dell'oralità legata allo spazio dell'altro. L'oralità percepita come differenza culturale, quindi come alterità, si frappone al mondo del missionario civilizzato che, attraverso la propria attività di scrittura,
descrivendo il mondo selvaggio sconosciuto la rimodella secondo leggi e valori della propria civiltà.138
Secondo de Certau, la scrittura è già di per sé un atto di invasione e di dominio dello spazio oltre che della mente dei colonizzati, in quanto il significante -- la parola scritta -- è, spesso, completamente dissociata dal proprio significato. Nello spazio dell'oralità la rappresentazione grafica dell'oggetto e l'enunciato scritto si dimostrano i primi strumenti di un dominazione culturale che hanno successivamente prodotto le rappresentazione distorte dell'alterità di cui parlano, anche se in contesti diversi, sia Olaniyan che Said.
Nelle cosiddette invaded colonies, come ad esempio i Caraibi, in cui i "nativi" sono stati costretti ad omologarsi ad un idioma distante e dissonante rispetto alle loro origini africane, principalmente, poi indiane o di altre aree, il rapporto con la lingua è molto complesso. La contaminazione linguistica è molto evidente in Walcott, sia nella poesia che nel teatro, dove è spesso utilizzata per mostrare la distanza culturale tra il vecchio Impero e la nuova realtà culturale, sociale e linguistica delle Indie Occidentali. Se quindi la lingua è stata, da parte dei colonizzatori, il mezzo per esprimere l'alterità dei colonizzati, per sottolineare attraverso in linguaggio grottesco, stereotipato o "orientaleggiante", la percezione distorta e densa di pregiudizi dei popoli sottomessi, una volta appropriato come strumento artistico proprio da parte dello scrittore ex- colonizzato, l'idioma rappresenta il mezzo espressivo più potente della contronarrazione e della riappropriazione di un'identità troppo a lungo deformata. Come scrivono gli autori di The Empire Writes Back:
the use of English inserts itself as a political discourse in post-colonial writing, and the use of english variants of all kinds captures that metonymic moment between the culture affirmed on the one hand as “indigenous or “national”, and that characterized on the other as “imperialist”, “metropolitan”139 .
L’uso di varianti linguistiche che deviano dall’inglese standard, rappresenta la volontà da parte degli scrittori postcoloniali di riformulare il canone della letteratura proponendo nuove prospettive linguistiche che affermano contenuti culturali, all’interno dei quali la differenza è integrata nello stesso canone. Si tratta di considerare la variante linguistica non tanto come la metafora della differenza e della distanza, bensì, come ha affermato Bhabha, di vederla alla luce della metonimia, cioè come la
138 Michel de Certau La scrittura dell’altro, a cura di Silvana Borutti, R. Cortina, Milano 2005, p. 29. 139 Ashcroft, Griffith, Tiffin The Empire Writes Back, op. cit. p. 53.
parte, l’eccezione, che rappresenta il tutto.140 Non è un caso se Ahcroft, Griffith e Tiffin, a questo
proposito indicano come caso esemplare proprio un'opera di teatro: in The Cord dello scrittore malesiano K.S. Manian, spesso il dialogo dei personaggi alterna l’uso dello standard English a forme più "dialettali", legate alla parlata locale:141 il risultato, oltre ad una chiara volontà di rendere sia lettore
che pubblico consapevoli della realtà linguistica del luogo in cui si svolge l’azione, è la presenza dell’altro integrata nella mimesi del dialogo, come segno operativo e funzionale di un’intera opera. Questa psuedo-alterità linguistica, incorporata nel testo drammaticoè riscontrabile anche in Walcott, in particolare in Dream On Monkey Mountain, dove la riflessione sull’uso della lingua si associa al comportamento "schizofrenico" del personaggio principale; oppure in Pantomime dove attraverso il code- switching o altre modalità di deviazione linguistica, si tenta un’inversione dei ruoli tra servo- padrone rimodulando il rapporto Robinson-Friday. Spesso la questione della lingua appare come punto di partenza per riflettere sull’identità e sulla storia del paese colonizzato. Quale lingua è giusto parlare e quale lingua deve essere quella dei testi letterari? Questo problema è centrale e spesso rimane irrisolto nella misura in cui, in particolare nell'area caraibica, non c’è una lingua ma se no odono molteplici, che a loro volta formano un continuum ibrido di varianti dell’inglese. A dimostrazione delle osservazioni esposte, è utile riportare quanto sottolinea Maria Antonietta Saracino in relazione alla molteplicità linguistica dell'arcipelago caraibico:
(...) all'inglese ufficiale, quello della burocrazia, della legge, della trasmissione del sapere scolastico e della formazione intellettuale, nel tempo si sono affiancati -- seppure in forme non ufficiale -- l'inglese creolo (creole english), frutto dell'incontro con le lingue locali; quella che prende il nome di nation language, nata dalla fusione tra inglese e lingue africane, nonché diverse varianti dialettali. 142
Sempre a questo proposito, in The Empire Writes Back, gli autori identificano la flessibilità della rappresentazione dell'uso della lingua come uno spazio culturale vuoto, nel senso che contiene molteplici possibilità di formulazione e di scrittura atte a ridisegnare la percezione della differenza culturale:
The cultural space is the direct consequence of the metonymic function of language variance. It is the “absence” which occupies the gap between the contiguous inter/faces of the “official” language of the text and the cultural difference brought to it. Thus the alterity in that metonymic juncture establishes a silence beyond which the cultural Otherness of the text cannot be traversed by the colonial language143.
Nel testo postcoloniale -- e quindi anche in quello di teatro -- l’alterità è interna allo stesso uso della lingua; si tratta di un appropriazione della lingua che, decostruendo i processi legati al rapporto metafora/metonimia, costruisce uno spazio dove la parola esprime la differenza culturale, senza accomunarsi ai giudizi di valore costruiti dal pensiero coloniale. Il teatro è il genere e la forma spettacolare che attualizza costantemente questa "parola", sia come scrittura che come oralità, colmando parte di quello spazio vuoto attraverso la costruzione e l'articolazione di una diversa percezione della differenza culturale. Nello spazio "vuoto" del teatro si inserisce l'assenza di cui parlano gli autori di The Empire Writes back, a proposito della frattura tra lingua "ufficiale", standard e idioma
140 Ibid. p. 52. 141 Ibid. p. 54.
142Maria Antonietta Saracino La letteratura anglo-caraibica in Agostino Lombardo (a cura di ) Le orme di Prospero, La
Nuova Italia Scientifica, Roma, 1995, p.116.
locale. Questa ambivalenza linguistica, nel teatro, non solo è presentata attraverso le questioni legate all'identità, alla storia e alle conseguenze della colonizzazione, come in altri testo letterari, ma si rende maggiormente "visibile" e concreta grazie al momento performativo, la messa in scena, dove il segno linguistico trova corrispondenza in segni gestuali e visuali. L'espressione e l'articolazione della diversità trova sfogo in uno spazio concreto che frapponendosi tra scrittura e oralità rimodula il canone e rende impossibile l'interferenza del linguaggio coloniale. In questo modo, come spiegato nel testo di Griffin, Ascroft e Tiffin, l'alterità non può essere manipolata, trasformata e resa distante dal linguaggio dell'imperialismo, non solo perché non esiste più, ma per il semplice fatto che si è giunti a delimitare uno spazio nuovo dove la parola "altra" è dinamicamente inserita nel testo come segno linguistico, verbale, visuale e anche gestuale allo scopo di veicolare l'identità postcoloniale. Il teatro postcoloniale per motivi e meccanismi che analizzeremo più approfonditamente nel secondo capitolo in riferimento alla realtà dei Caraibi, si riappropria della lingua e della cultura dei colonizzatori; sia Soynka che Walcott dispongono di una profonda conoscenza sia del teatro elisabettiano che di quello greco antico; allo stesso tempo entrambi gli scrittori mostrano la volontà di rappresentare personaggi delle loro terre attingendo anche da forme della cultura orale, dei rituali e del folklore. Il teatro postcoloniale unisce quindi la tradizione della scrittura e dell'oralità rappresentando la differenza non più come distante ma come parte del tutto. La diversità non viene più percepita come un segno relativo ad un mondo esotico e vagheggiato, oppure come grottesco mascheramento, ma è inserita in un'azione dinamica fatta di rapporti tra personaggi bianchi, neri e meticci posti sullo stesso piano; come vedremo il rapporto "Prospero-Calibano" si esaurisce, in uno spazio dove i confini tra ciò che è dominato e dominatore si annullano o addirittura si invertono.
Lo spazio del teatro delle ex-colonie è quindi lo spazio dell'apertura all'altro e della relazione, è un territorio in cui le forme della scrittura si alternano con l'oralità per ridefinire i propri confini in un continuo rapporto d'integrazione e di fusione con ciò che è culturalmente diverso e opposto.
Nel saggio Lo sguardo dell'altro, di Silvia Albertazzi, si legge dell'importanza di recuperare il materiale letterario appartenente alla tradizione orale delle popolazioni colonizzate e di come questo patrimonio