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L'esigenza di sicurezza

Nel documento Terrorismo e diritti fondamentali (pagine 71-75)

IL TERRORE E LA "SICUREZZA"

1.5. L'esigenza di sicurezza

I costi sociali delle politiche neoliberiste sono stati enormi: a fronte di un aumento della disoccupazione cronica, si è scatenato un clima di incertezza, coinvolgente sia le classi meno abbienti che quelle appartenenti al ceto medio; sentimento di incertezza accompagnato dall'approfondimento della divisione di classe e razziale. E' esattamente questo il contesto in cui Garland situa la trasformazione nel controllo della criminalità: al clima di incertezza fece da contraccolpo l'emergere di un clima culturale ipervigilante, ambivalente e insicuro, clima nel quale la criminalità ha iniziato ad essere percepita come

un problema di indisciplina, di mancanza di autocontrollo e controllo sociale. Il crimine diviene una scelta individuale di fronte ad un sistema di controllo blando e come tale merita di essere punita. Sulla spinta di questo nuovo sistema di pensiero condiviso dall'opinione pubblica, la questione criminale, sradicata dalla complessità dei rapporti sociali, viene ridefinita come problema di edificazione morale. Il problema a cui i politici sono chiamati è quello di costruire "l'egemonia di una nuova moralità". Come già accennato, in questo clima culturale la criminologia torna a distanziarsi dal proprio oggetto di studio e a considerare il criminale come mostro, la più grande minaccia per la società, poiché in grado di separarla, frammentarla, minarne il tessuto alle fondamenta. La crisi economica, l'aumento dell'insicurezza e della conflittualità sociale, la crescita dei tassi di criminalità degli anni Sessanta, hanno scatenato una sorta di panico morale che la destra conservatrice è riuscita ad egemonizzare attraverso le politiche di law and order e tolleranza zero. Alla fine degli anni sessanta, immagini televisive di scontri interraziali nelle città, di lotte violente per la rivendicazione dei diritti civili, di dimostrazioni antimilitariste, di omicidi politici, insieme ad un aumento della criminalità di strada, hanno mutato l'orientamento dell'americano medio, proprio quando le storie di rapine a mano armata e di microcriminalità, il sindacalismo militante, i conflitti cronici tra imprenditori e operai e le lunghe file di disoccupati, finivano con il convincere molti elettori britannici che la politica socialdemocratica moderata aveva fatto il suo tempo. Insieme all'impatto economico devastante causato dalla recessione verificatasi alla metà degli anni settanta, questi fattori hanno innescato la crisi dell'assetto politico del dopoguerra. La cultura politica conservatrice ha spostato il dibattito pubblico attorno alle problematicità sociali e individuali sul piano del vocabolario punitivo. Perno del discorso

conservatore era il continuo rimando alla minacciosa immagine di un'ondata di disordine e criminalità alimentata dalla presenza di una vera e propria classe pericolosa. Prese piede in quegli anni e in quei luoghi l'ossessione sicuritaria, base sulla quale venne ideato un nuovo sistema di controllo, nonché di governo, volto a fare della Sicurezza il criterio primo di legittimazione di qualsiasi azione di governo intrapresa in suo nome. E questo è il clima su cui teorie quali quella dell'incapacitazione selettiva o delle "finestre rotte", da un noto articolo di Wilson e Kelling (1982), hanno potuto prendere così tanto spazio, tanto da elaborare soluzioni di sapore repressivo e criminalizzante che finirono per costituire un vero e proprio modello di governo. Negli ambienti della politica ci si rese conto come la criminalità come problema rappresentava in un certo senso una soluzione che poteva costituire la via per il rinnovamento del governo. I politici e gli amministratori compresero ben presto quanto essa rappresentasse una questione strategica di grande rilievo, dal momento che in tutti i contesti istituzionali si ritiene come chiunque si mobiliti per prevenire reati o altri comportamenti problematici assimilabili a questi ultimi agisca con piena legittimità. In questo senso allora la categoria di criminalità è in grado di legittimare forme di intervento che presentano altre motivazioni e, come tale, offre sempre nuove opportunità di governance. E' proprio in questo che consiste il governo attraverso la criminalità di cui parla Simon nel suo "il governo della paura": quando governiamo attraverso la criminalità, rendiamo il crimine e le forme di sapere a esso storicamente associate -diritto penale, letteratura popolare sulla criminalità, criminologia- disponibili al di là del loro ambito di origine, facendone uno strumento efficace con il quale interpretare ed inquadrare tutte le forme di azione sociale come questione di

dell'autorità in America che per rimuoverla sarà necessario uno sforzo collettivo da parte degli americani. Pervade infatti gran parte dei flussi di informazioni, discorsi e dibattiti. La guerra alla criminalità ha deformato la democrazia americana in quanto ha modificato il sistema di priorità. Il governo attraverso la criminalità, così per come lo intende Simon, non si limita a governare gli appartenenti alle classi più povere, ma "riconfigura attivamente il modo in cui si esercita il potere lungo le gerarchie di classe, razza, etnia e genere". In questo senso, saremmo di fronte ad un carattere performativo della criminalità. Negli anni ottanta e novanta, i processi decisionali in quest'area sono divenuti più politicizzati, più rischiosi e più soggetti all'attenzione della stampa e dell'opinione pubblica. Nel momento in cui la questione criminale diveniva un tema caldo sul quale potevano giocarsi le campagne elettorali, i partiti politici entravano in competizione per dimostrare chi fosse più intransigente nella lotta contro la criminalità, chi fosse più interessato alla sicurezza pubblica e capace di ripristinare moralità, ordine e disciplina, contrastando la degenerazione sociale dell'epoca tardomoderna. E mentre l'agenda neoliberista favorevole alla privatizzazione, alla competizione del mercato e alla riduzione della spesa pubblica ispirava gran parte della riforma delle agenzie preposte all'amministrazione della giustizia penale - collocate dietro le quinte - è stata invece l'agenda neoconservatrice a dettare i principi più visibili della politica penale. Invece di riconoscere il limiti della sovranità statale e adattarvisi, questo programma mirava a riguadagnare la fiducia pubblica nella giustizia penale, affermando i valori della disciplina morale, della responsabilità individuale e del rispetto dell'autorità. Tanto nella politica penale che in quella assistenziale, l'imperativo era quello di ristabilire il controllo attraverso il ricorso a strumenti punitivi. In entrambi i casi, la popolazione che risultava

più bisognosa di controllo era quella composta dai poveri, dai neri e dai giovani emarginati provenienti dalla classe operaia. Insomma negli Stati Uniti della tarda modernità si assiste all'elaborazione di un modello di governo che è stato successivamente adottate da altri paesi, nel momento in cui si sono trovati ad affrontare periodi simili di crisi e di vuoto di legittimazione (come ad esempio l'Italia negli anni Novanta): si tratta del gioco neoliberale-neoconservatore, in base al quale esigenze di tipo economico ed esigenze di tipo politico si incastrano perfettamente per andare a creare una rete volta a catturare la parte della popolazione che si elegge a nemico. In Italia, oggigiorno, questa popolazione è rappresentata dai migranti. La combinazione fra impossibilità quasi totale di immigrazione regolare e di mantenimento della regolarità e la stretta repressiva nei confronti degli immigrati" conduce a "da un lato la riproduzione dei clandestini, ossia di manodopera schiavizzabile perché priva di ogni diritto e di ogni possibilità di accedervi, dall'altro lato la facile designazione del nemico di turno a cui attribuire la responsabilità di tutte le paure, le insicurezze, i malesseri e i problemi economici e sociali provocati dallo sviluppo neoliberale stesso.

Nel documento Terrorismo e diritti fondamentali (pagine 71-75)