• Non ci sono risultati.

Evoluzioni di status e nuovo codice di rito.

IL SISTEMA ITALIANO: PUBBLICO MINISTERO ED ESERCIZIO DELL’AZIONE PENALE.

2. Pubblico ministero ed esercizio dell’azione penale nell’Italia post unitaria.

2.1. Evoluzioni di status e nuovo codice di rito.

Il quadro delineato dalle prime riforme post-unitarie non ebbe, tuttavia, un riscontro favorevole.

Fra i temi più dibattuti, quello della posizione istituzionale del p.m. e dei suoi rapporti con la magistratura giudicante e con il potere esecutivo: «[…] così, appena la nostra legislazione era stata dotata dell’ordinamento giudiziario, ben distinte e variate tendenze si manifestarono nei riguardi del Pubblico Ministero; da quella che lo voleva assolutamente bandito dalla compagine del potere, a quella che, ligia alla sua vera origine e al suo complesso sviluppo storico, lo volea conservar come un rappresentante del Governo presso l’Autorità giudiziaria»15.

15 Si sofferma ampiamente sulle proposte di riforma che, dal 1865 al 1903, interessarono la figura

del pubblico ministero G. Bortolotto, voce Ministero Pubblico (materia penale), in Digesto

Italiano, XV, II, 1904-1911, pp. 586 ss. Particolare interesse riveste, nello specifico, la proposta

dei ministri Zanardelli-Coccu Ortu, rispetto alla quale l’Autore riporta le opinioni espresse durante la discussione parlamentare da illustri giuristi del tempo. La lettura risulta rilevante in specie per il dibattito sulla dipendenza-indipendenza del pubblico ministero dal potere esecutivo. Fra tutte, si ponga attenzione all’intervento di Luigi Lucchini: «Io penso che qui ci sia di mezzo un grosso equivoco sull’indole delle funzioni del Pubblico Ministero, di quelle cioè che sono le sue proprie caratteristiche, ossia di esercitare l’azione penale e di sostenere l’accusa. Si afferma che tali funzioni sono d’indole essenzialmente giudiziaria. Ma non pare che ciò sia esatto. […] Per mettere in moto l’azione penale e per darle questo o quell’indirizzo nei mille incombenti, che sopravvengono in corso di procedimento, il Pubblico Ministero deve fare indagini e apprezzamenti che attengono a considerazioni d’opportunità, d’opinione pubblica, di condizioni del momento, assunte in materia, che più si riferiscono alla vita e alle vicende e ai rapporti sociali e politici. Tutto questo è di carattere più o meno empirico e che sfugge a ogni disciplina giuridica, e tanto più giudiziaria. […]. Le sue sono dunque funzioni di parte, siccome abbiamo già notato, funzioni essenzialmente di parte, di quella parte che si chiama l’accusatore, che ha di contro l’altra parte in processo, ossia il difensore […]. Dunque, dire giudiziaria la funzione del Pubblico Ministero sarebbe tornar indietro almeno di un secolo, quando si aveva il procedimento puramente inquisitorio. E non v’era riconoscimento e contraddittorio di parti in causa […]. Ecco il bel risultato che si avrebbe proclamando il carattere giudiziario delle funzioni del Pubblico Ministero e la sua fusione e confusione col magistrato giudicante: distruggere tutto il progresso che si è fatto in questo secolo e mezzo, da Gaetano Filangieri a Cesare Beccaria in poi, rinnegare le più belle conquiste della scienza, della legislazione, della civiltà […]. Voi dite che, attribuendo le funzioni di Pubblico Ministero alla stessa magistratura giudicante, sottraendo questa a ogni ingerenza del Governo, si renderà pure indipendente l’azione del Pubblico Ministero. E io rispondo che tale indipendenza non è necessaria, né utile, né anco possibile, e che, trattandosi d’una pura e semplice mistificazione, non farebbe che compromettere la vera, la sola indipendenza che può interessare la giustizia d’un paese libero e civile: quella della magistratura

Nel 1890, intanto, con la riforma Zanardelli (l. n. 6878) veniva introdotto il sistema del concorso pubblico per l’accesso alla carriera (adesso unificata) di magistrato, prevedendo il passaggio all’ufficio di pretore come obbligatorio per l’assunzione di funzioni più elevate16.

Nel 1907, con la riforma Orlando (l. n. 511) venivano istituiti i Consigli giudiziari e il Consiglio Superiore della Magistratura – le cui competenze, tuttavia, non scalfivano ancora il ruolo di vertice rivestito dal Ministro di giustizia – e veniva ridefinito in parte il sistema delle promozioni e della

giudicante. Libertà e indipendenza in uno stato civile e costituzionale non si comprendono e non si devono ammettere senza corrispondente responsabilità, diretta o indiretta, si tratti di privati cittadini, o di pubblici funzionari. Anche i magistrati giudicanti non isfuggono alla loro responsabilità, per quanto sovrane e incensurabili le loro decisioni. Queste sono, infatti, soggette all’obbligo della motivazione e della pubblicità; e trovan quindi nella pubblica opinione e discussione il loro controllo e la loro sanzione. Soltanto l’operato del Pubblico Ministero, ogniqualvolta o non dà corso all’azione penale, o erra nei modi o sull’indirizzo, o l’interrompe e arresta e in tutti gli svariati incidenti d’una procedura, che dipendono dal suo beneplacito, sfuggirebbe a ogni sindacato e controllo. D’altro canto a regolar l’operato e i responsi dei giudici e dar loro un indirizzo armonico e più conforme alla legge, sta la Suprema Corte. Nulla di tutto questo invece per il Pubblico Ministero, che procederebbe a proprio libito non solo, ma senza un concetto organico, senz’affiatamento e senz’altro criterio direttivo che quello dei capi distrettuali. […] Al contrario, il Governo, che si deve ben guardare dall’ingerirsi nell’opera dei magistrati giudicanti, non attenta per niente alla loro indipendenza e non adempie che il suo dovere vigilando l’opera del Pubblico Ministero, segnalandogli quell’indirizzo, ch’esso reputi più conveniente, per tutto ciò ch’è rimesso al discrezionale arbitrio di esso Pubblico Ministero. […] Niun pericolo, niuna insidia per la pubblica libertà, ma guarentigia soltanto e controllo, col tramite della responsabilità ministeriale, sulle funzioni del Pubblico Ministero. Il pericolo e le insidie sono nelle ingerenze e influenze, d’altronde inevitabili, esercitate clandestinamente; e più lo sarebbero domani se le parti di Pubblico Ministero fossero affidate a dei magistrati giudicanti. Governo, Parlamento e paese dovrebbero avere ben limpida ed esatta codesta ovvia distinzione fra ciò che nell’amministrazione della giustizia vi è di veramente giudiziario, che è opera del magistrato giudicante, e ciò che ha carattere meramente amministrativo, perché opera d’altri funzionari, che non sono da confondersi col giudice, a cominciare dal Pubblico Ministero, per passare alla polizia giudiziaria e terminare ai cancellieri e agli uscieri». Conclude quindi l’autore: «[…] non si commetta lo sproposito di sopprimere l’istituzione medesima per incorporare le funzioni con quelle del giudice. Ciò equivarrebbe ad asservire direttamente la magistratura al Governo, sotto la lustra d’una indipendenza, che sarebbe affatto apparente e che non servirebbe se non a perpetrare l’odierna mistificazione e togliere al Governo quella responsabilità onde può soltanto essere vigilata l’opera del Pubblico Ministero, e a conculcar sempre più il ministero della difesa nei procedimenti penali».

16 G. Scarselli, Ordinamento giudiziario e forense, Giuffrè, Milano, 2010, p. 315: «[…] va

ricordata la legge 8 agosto 1890 n. 6878, la quale all’art. 5 prescriveva che gli uditori giudiziari potessero essere destinati ai collegi giudicanti, al pubblico ministero, oppure alle preture; e all’art. 18 statuiva che: “le carriere della magistratura giudicante e del pubblico ministero, continuando a rimanere distinte quanto alle funzioni, sono uguali e promiscue quanto agli aumenti di stipendio e alle promozioni”».

responsabilità dei magistrati. Al p.m. veniva estesa la garanzia dell’inamovibilità pur restando inalterato il vincolo di subordinazione al potere esecutivo.

Con la l. 438 del 1908, sulle guarentigie e la disciplina della magistratura, vennero ampliate le garanzie di indipendenza dei giudici e si stabilì che essi potessero essere dispensati dal servizio solo «con decreto Reale, su proposta del ministro della giustizia, sentito il parere di una commissione, secondo le norme che saranno dettate nel regolamento» (art. 34).

Con la successiva legge n. 1311 del 1912, per vero, si ristabilirà un certo peso del potere politico sull’organizzazione giudiziaria.

Accanto all’assetto organizzativo, anche quello processuale destava insoddisfazione. I dubbi provocati dalle indebite ingerenze ministeriali nell’esercizio dell’azione penale e la prevalenza, di fatto, del principio di discrezionalità, spinsero quindi alla elaborazione di un nuovo codice di rito17. Così, nel 1913 veniva adottato il codice Finocchiaro-Aprile. Ricorda Tonini come tale codice, pur conservando il sistema misto di origine francese, apportasse già delle innovazioni significative in senso accusatorio: furono rafforzate le prerogative della difesa e furono ampliati i poteri del p.m. in fase istruttoria18. Rimanevano comunque complicati i rapporti fra l’organo requirente

17 Si sofferma sui malumori provocati dal codice di procedura penale del 1865, M. L. Di Bitonto, Il codice di procedura penale del 1865: modelli e ideologie, in R. Favale-C. Latini (a cura di), La codificazione nell’Italia post-unitaria. 1865-2015, Atti del workshop, Camerino, 29 ottobre 2015,

in Quaderni degli Annali della Facoltà Giuridica dell’Università di Camerino, 2016, 2, pp. 208

ss., consultabile al sito

http://d7.unicam.it/afg/sites/d7.unicam.it.afg/files/QUADERNI_2_2016.pdf .

18 P. Tonini, Manuale di procedura penale, Giuffrè, Milano, 2016, p. 25, il quale rammenta che il

c.p.p. 1913 «riconosceva ampi diritti all’accusato già nel corso della fase istruttoria. Il difensore dell’imputato aveva il diritto di assistere con preavviso alle perizie, agli esperimenti giudiziali ed alle ricognizioni; poteva assistere senza preavviso alle perquisizioni domiciliari. Inoltre il difensore aveva il diritto di prendere visione dei verbali degli atti predetti, oltre che dei sequestri, delle perquisizioni personali, delle ispezioni e dell’interrogatorio dell’imputato (al quale, però, non poteva assistere). In definitiva, nel corso dell’istruzione, restavano segrete soltanto le testimonianze. Nel dibattimento (per i reati più gravi, e cioè per i crimini) fu introdotta la giuria popolare. Al termine del dibattimento, la giuria decideva sul fatto, e cioè sulla reità o meno dell’imputato. Alla discussione erano presenti il pubblico ministero ed il difensore; la giuria deliberava mediante schede segrete su quesiti formulati dal presidente. Ove fosse stata pronunciata condanna, i giudici togati determinavano la quantità della pena».

e il giudice istruttore e rimaneva pure invariata la subordinazione del p.m. al potere esecutivo19.

Con riferimento all’esercizio dell’azione penale, il legislatore non adottava formule univocamente interpretabili in relazione al modello prescelto. Nell’art. 1 c.p.p., commi primo e secondo, si prevedeva che «L’azione penale è pubblica ed è esercitata dal pubblico ministero». «Essa è esercitata d’ufficio quando non sia necessaria querela o richiesta». E nell’art. 179, al secondo comma, si rimetteva la scelta archiviativa del pubblico ministero al controllo del giudice istruttore20. Fu opinione prevalente che, pur in assenza di una disposizione esplicita in tal senso, anche in questo codice venisse accolto il principio di obbligatorietà. In tal senso, si ritenne che la predisposizione di un vaglio giurisdizionale sul potere di archiviazione del p.m. non alterasse, ma anzi confermasse, tale orientamento21. Si legge nel Trattato di Manzini del 1914: «Il compito funzionale dello Stato, di provvedere alla realizzabilità della pretesa punitiva nascente da reato, in vista del quale è predisposto il processo penale, costituisce contemporaneamente un potere e un dovere dello Stato stesso. Ed invero, poiché gli interessi tutelati dalle norme penali sono […] interessi eminentemente pubblici, sociali: la loro attuazione si impone allo Stato non come una mera facoltà, per il raggiungimento d’uno scopo non essenziale, ma come un obbligo funzionale, per il raggiungimento d’uno dei fini essenziali per cui lo Stato medesimo è costituito (assicurazione e reintegrazione dell’ordine giuridico). [..] Da questa premessa discende

19 Per una panoramica generale sull’assetto delineato dal c.p.p. 1913 v. M. Natale, Una breve riflessione sul codice di rito del 1913. Azione penale, pubblico ministero e giudice istruttore tra modello misto e suggestioni accusatorie, in Historia et ius, 2013, pp. 1 ss., consultabile al sito

http://www.historiaetius.eu/uploads/5/9/4/8/5948821/natale_1913.pdf .

20Si leggeva nell’art. 179 c.p.p.: «Il procuratore del Re promuove ed esercita l’azione penale,

secondo le norme stabilite dalla legge, o richiedendo l’istruzione formale, o procedendo per citazione diretta dopo la istruzione sommaria che reputi necessaria, ovvero per citazione direttissima. Se reputi che per il fatto non si debba promuovere azione penale, richiede il giudice istruttore di pronunciare decreto. Se creda che la competenza spetti al pretore, (omissis), gli restituisce o trasmette gli atti. Se creda che la cognizione del fatto non appartenga alla autorità giudiziaria, trasmette gli atti all’autorità competente».

21 Per vero, N. Miletti, op. cit., p. 320, riporta le opinioni contrastanti suscitate da tale novità

legislativa. Così, se taluna dottrina (Alimena) considerò quello dell’art. 179 uno strumento utile al p.m. per sottrarsi ad azioni contrastanti col proprio convincimento o alla decisione su notitiae

criminis imposte dal ministero, altra dottrina (Stoppato) vide in tale novità uno strumento per

logicamente il principio della indisponibilità del detto potere-dovere: gli organi dello Stato, mediante i quali questo agisce, non ne possono disporre liberamente. Lo Stato si è imposto, con la legge delle autolimitazioni inderogabili. La rinunzia (condizionata o no) alla potestà di pretendere la punizione (perseguire) e di realizzarla eventualmente (punire), non è quindi ammissibile se non sia legislativamente e previamente disposta dalla suprema volontà dello Stato (es.: prescrizione dell’azione penale; amnistia; condanna condizionale)». E con riferimento alla riserva di esercizio dell’azione penale in capo al p.m., egli scriveva: «Nel nostro diritto, peraltro, il promovimento e l’esercizio dell’azione penale è di regola riservato al pubblico ministero. Né in ciò v’è motivo di lamento: giacchè il p.m., che per se stesso è un organo pubblico impersonale deputato all’attuazione obiettiva di un alto interesse sociale, può essere considerato come un arnese di tirannia o uno strumento politico soltanto da quella rimbambita democrazia, sospettosa e scriteriata, che, assorbendo senza critica le idee della rivoluzione francese (idee, allora spiegabili come reazione al regime di polizia), vede in ogni autorità un nemico naturale del popolo, senza pensare che nello stato odierno dal popolo proviene la forza che crea e disciplina la sovranità e l’autorità». Continuava, infine, affermando il principio di legalità del processo penale: «La pretesa punitiva dello Stato, nascente da reato, deve farsi valere dall’apposito organo pubblico ogniqualvolta ne ricorrano in concreto le condizioni di legge, in adempimento d’un dovere funzionale assoluto e inderogabile, escludente ogni considerazione d’opportunità. Questa regola fondamentale prende il nome di principio della legalità del processo penale», da cui discendono le ulteriori regole della necessità e quella della immanenza del procedimento medesimo22.

Le stesse conclusioni venivano pure sostenute da Stoppato: «La prosecuzione delle azioni punibili è diritto e dovere del potere dello Stato e la procedura di uno Stato libero si fonda sulla separazione del dovere ufficiale dello Stato medesimo ad elevare l’azione, a perseguire il reato, da quello di conoscerne. […]. Il sistema

22 V. Manzini, Trattato di procedura penale italiana secondo il nuovo codice di procedura penale, vol. I, 1914, Fratelli Bocca, Torino, pp. 114 ss.

adottato dal Codice per ciò che riflette l’attività del pubblico ministero è rigorosamente legale. Esso ha obbligo di procedere in tutti i casi nei quali si presentino gli estremi di un fatto punibile, salva in alcuni casi la facoltà del privato di querelarsene»23.

Documenti correlati