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I l principio di obbligatorietà dell’azione penale.

IL SISTEMA ITALIANO: PUBBLICO MINISTERO ED ESERCIZIO DELL’AZIONE PENALE.

3. L’avvento della Costituzione repubblicana.

3.2. I l principio di obbligatorietà dell’azione penale.

La questione relativa al sistema di esercizio di azione penale da adottare non fu, invece, foriera di animati dibattiti. La convinzione che aleggiò fra i padri costituenti fu che il principio di obbligatorietà dell’azione penale fosse l’unico adeguato a un ordinamento democratico e quindi l’unico adottabile in uno Stato di diritto. D’altra parte, all’indomani dell’esperienza fascista, in cui l’esercizio dell’azione penale venne strumentalizzato per perseguire gli interessi del regime, l’obiettivo principale era di riportare il potere di accusa all’interno del principio di legalità ponendo pure un definitivo divieto alla possibilità per il p.m. di archiviare il procedimento in assenza di un controllo giurisdizionale.

35 Per vero, l’estensione di tale disposizione anche al magistrato requirente non è pacifica. Sul

punto v. R. Bifulco-A. Celotto-M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, sub art. 101, UTET, Torino, 2006, pp. 1960 e ss.

Le discussioni dell’Assemblea presero avvio dal testo dell’art. 8 del progetto Calamandrei riguardante, appunto, la pubblicità e legalità dell’azione penale36 e si conclusero con l’adozione dell’art. 112 Cost: «Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale»37.

La laconicità del suo contenuto è colmata dall’attività interpretativa della Corte costituzionale, secondo cui l’art. 112 Cost. rappresenta il «punto di convergenza di un complesso di principi basilari del sistema costituzionale»38: questo, infatti, è attuazione nel procedere del principio di legalità (art. 25 Cost.) ed è anche garanzia di realizzazione del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.). Dalla sua introduzione deriva l’obbligo per il p.m. di esercitare l’azione penale ogniqualvolta gli estremi di un fatto integrino una fattispecie astratta di reato e, contemporaneamente, il divieto di operare qualsiasi valutazione di opportunità, anche politica, ulteriore rispetto alla sussistenza dei requisiti di legge.

Ma, come anticipato, l’art. 112 Cost. è soprattutto espressione del mutato rapporto fra il pubblico ministero e gli altri poteri statali39. In tal senso è possibile affermare che indipendenza esterna e principio di obbligatorietà costituiscano due facce della stessa medaglia, e che, anzi, nel nostro ordinamento siano

36 In particolare, il testo dell’art. 8 prevedeva che «L’azione penale è pubblica, e il pubblico

ministero ha l’obbligo di esercitarla in conformità della legge, senza poterne sospendere o ritardare l’esercizio per ragioni di convenienza».

37 Un’ampia parte della dottrina ritiene che il principio di cui all’art. 112 Cost. non rientri fra i

principi non modificabili: la stessa Consulta, con sentenze 1146 del 1988 e 366 del 1991, ha affermato essere principio modificabile tramite l’art. 138 Cost. qualora vi siano altri principi, sempre di rango costituzionale, in contrasto con esso e che richiedano un’eguale o maggiore considerazione.

38 Corte Cost., sent. n. 88 del 1991, consultabile al sito

http://www.giurcost.org/decisioni/1991/0088s-91.html .

39 Si mostra critico rispetto alla soluzione italiana G. Di Federico, Il pubblico ministero: indipendenza, responsabilità, carriera “separata”, ne L’Indice penale, 1995, p. 406: «non vi è

dubbio che la soluzione adottata dal nostro costituente appaia formalmente perfetta e, aggiungo, del tutto omogenea a una cultura giuridica – quale la nostra – che non solo considera estranei ai propri interessi scientifici i quesiti e le verifiche sulla concreta applicabilità delle norme che si scrivono o si concorre a scrivere, ma che solitamente dà addirittura per scontato ciò che scontato non è, e cioè che i dettati della legge debbano e quindi anche possano essere comunque rispettati, a prescindere da qualsiasi preventivo accertamento o successiva verifica della loro applicabilità». Così, secondo l’Autore, la scelta italiana sarebbe configurabile più come una reazione ai misfatti del precedente regime che come risultato di analisi relative alle complesse esigenze funzionali che il p.m. deve soddisfare in una moderna democrazia.

concepiti come elementi imprescindibili l’uno dall’altro: si ritiene cioè che la garanzia di indipendenza esterna assicurata al pubblico ministero rappresenti il contrappeso specifico al riconoscimento del principio di obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost. Nell’ottica dei costituenti, il principio di legalità nel procedere, infatti, non si realizzerebbe se si esponessero i pubblici ministeri alle direttive del potere esecutivo.

D’altra parte, la legislazione successiva alla Costituzione rafforza le opzioni costituzionali: così, con la l. 195/58, sulla costituzione e sul funzionamento del CSM, viene definitivamente meno ogni potere del Ministro di grazia e giustizia in merito alla carriera del p.m. e ogni decisione inerente trasferimenti, assegnazione di sedi, promozioni, sanzioni disciplinari e, in generale, lo status del p.m. viene demandata al Consiglio Superiore della Magistratura.

L’insieme delle riforme enunciate ha portato all’attuale configurazione del pubblico ministero italiano, che presenta peculiarità che lo differenziano, e non poco, dai suoi colleghi europei e statunitensi40. Si costruisce, in particolare, la figura di un pubblico ministero “giurisdizionalizzato”, cioè organo di giustizia, e insieme parte del processo41. Egli è un «magistrato appartenente all’ordine

40 L’analisi delle peculiarità del p.m. italiano è condotta da G. Di Federico, Obbligatorietà dell’azione penale e indipendenza del pubblico ministero, in Giursiprudenza Italiana, 2009, pp.

525 ss. L’Autore ritiene che la maggior parte delle caratteristiche di seguito esposte siano dovute e insieme giustificate dal principio di obbligatorietà dell’azione penale il cui principale effetto si traduce nella irresponsabilità dello stesso per le scelte effettuate: «i pubblici ministeri non portano nessuna responsabilità per ogni e qualsiasi iniziativa investigativa e azione penale cui danno inizio, anche se mesi o anni dopo le loro iniziative risultano del tutto infondate e ingiustificate. In ogni caso essi possono pretendere, con immancabile successo, che il loro sospetto che un crimine fosse stato commesso imponeva comunque loro di agire. In altre parole l’obbligatorietà dell’azione penale trasforma ipso jure qualsiasi loro decisione discrezionale in materia di indagini e di azione penale in un “atto dovuto”, escludendoli da ogni forma di responsabilità (come valutazioni negative sulla loro professionalità, responsabilità per spese di indagini inutili e costose, danni di ordine sociale e/o economico, e/o familiare, e/o politico, e/o di salute causati a cittadini innocenti, e così via)».

41 G.Di Chiara, Il pubblico ministero e l’esercizio dell’azione penale, in G. Fiandaca-G. Di

Chiara., Una introduzione al sistema penale: per una lettura costituzionalmente orientata, Jovene, Napoli, 2003, pp. 236 ss., il quale, nel distinguere la collocazione istituzionale e il ruolo processuale del pubblico ministero, precisa che nessun conflitto logico sussiste fra i due profili che vivono, piuttosto, di una complessa vita osmotica: «in quanto organo pubblico, l’attore penale gode di peculiari garanzie ed è assoggettato al dovere di agire secondo obiettività; ciò si riflette, in termini immediati, sulle (pur inevitabili) scelte di strategia e tattica processuale che il pubblico ministero-soggetto è chiamato a compiere nell’adempimento del proprio ufficio».

giudiziario collocato come tale in posizione di istituzionale indipendenza rispetto ad ogni altro potere», che «non fa valere interessi particolari ma agisce esclusivamente a tutela dell’interesse generale all’osservanza della legge» (Corte cost. 190/1970 e 96/1975). Ma egli è anche parte del processo, in senso accusatorio.

4. Il nuovo c.p.p.: un «accusatorio all’europea».

I difetti strutturali del codice del 193042 e le numerose dichiarazioni di illegittimità costituzionale che, nel frattempo, ne cominciarono a invalidare numerosi articoli, resero necessario il ripensamento del rito penale.

Così, con la legge delega 16.2.1987, n. 81, il legislatore italiano conferì al Governo il compito di emanare il nuovo codice di procedura penale «secondo i principi e i criteri direttivi e con le procedure previste dalla presente legge». In particolare, nell’art. 2 si prescriveva che il nuovo codice attuasse i principi della Costituzione e si adeguasse alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale; inoltre, si indirizzava l’esecutivo verso l’attuazione nel processo penale dei «caratteri del sistema accusatorio»43. Di particolare rilievo, in tal senso, l’indicazione affinché si mirasse alla «massima semplificazione nello svolgimento del processo con eliminazione di ogni atto o attività non essenziale» (art. 2, comma 1, n.1).

42 Si sofferma sulle difficoltà del codice di rito del 1930, E. Zappalà, Processo penale ancora in bilico tra sistema accusatorio e sistema inquisitorio, in Diritto penale e processo, 1998, 7, pp.

886 ss. In particolare, l’Autore si riferisce a: l’arresto in aula del testimone ritenuto falso; l’attribuzione all’organo istruttore del potere di ricerca della prova d’accusa e di quello di decidere sulla libertà della persona indagata; l’inutilità della fase del giudizio, di fatto di conferma degli accertamenti già svolti durante la fase istruttoria; le difficoltà cui, di conseguenza, andava incontro la difesa; la durata eccessiva del processo; la commistione fra potere inquisitorio e potere giurisdizionale; la pantomima di un rito solo in astratto ispirato alla oralità e al contraddittorio.

43 Precisa E. Zappalà, op. cit., p. 886: «Certo l’aver indicato come linea di riforma l’adozione del

sistema accusatorio non significava affatto aver risolto tutti i problemi d’impianto del nuovo processo, perché, come è noto, non esiste storicamente un processo accusatorio mutuabile, pronto all’uso, ma significava indubbiamente aver voluto stabilire una determinata scala di valori, propria appunto del modello accusatorio, alla quale bisognava ispirarsi nel congegnare il concreto articolarsi degli istituti processuali».

Con il d.P.R. 447/88, è stato adottato il nuovo codice di procedura penale introducendo un sistema di stampo tendenzialmente accusatorio44.

Fra le novità di maggior impatto rispetto al precedente impianto si rammentano: la scomparsa del giudice istruttore45; la netta ripartizione dei ruoli e una precisa separazione tra le diverse fasi processuali; l’accoglimento del principio dispositivo della prova; la limitazione dell’acquisizione della prova da parte del giudice a specifiche ipotesi predeterminate dalla legge; la sottrazione al giudice del dibattimento della conoscenza del materiale probatorio precedentemente raccolto; il principio di oralità, il divieto di letture e il contraddittorio fra le parti nella formazione della prova46.

Restano, tuttavia, pure istituti e strutture derivati dalla tradizione continentale, con qualche eco inquisitorio.

In questo senso, Ennio Amodio, già all’indomani dell’entrata in vigore del codice, qualifica il nuovo sistema processuale penale italiano come un

44 Scrive a tal proposito E. Grande, Imitazione e diritto: ipotesi sulla circolazione dei modelli,

Giappichelli Editore, Torino, p. 49: «nessun modello figlio della tradizione inquisitoria aveva fino a quel momento osato un mutamento così radicale. Lo stesso legislatore tedesco, aveva fatto penetrare i caratteri liberali del modello accusatorio (raggiungendo così l’antitesi mista) attraverso modifiche di singoli ambiti della procedura (udienze preliminari, enfasi sul diritto alla difesa, eliminazione della figura del giudice istruttore). Nella tradizione di civil law il solo legislatore italiano ha finora tentato un salto tanto ambizioso da una realtà inquisitoria, sia pur profondamente modificata rispetto al 1930, ad un ideale accusatorio di progresso».

45 E. Zappalà, op. cit., p. 887: «Un passaggio fondamentale per la realizzazione di tale

cambiamento è l’abolizione della figura emblematica del tradizionale modello inquisitorio: il giudice istruttore. Al di là del valore simbolico, la scomparsa del giudice istruttore rappresenta un segno chiaro, esplicito del mutamento di rotta della politica processuale penale italiana, perché consente la messa in opera di uno schema accusatorio fondato sulla distinzione non equivoca tra fase dell’investigazione e fase di elaborazione della prova».

46 Con riferimento alla limitazione dei poteri del giudice, si rammentino le conclusioni (contrarie)

cui la Corte costituzionale è giunta nella sentenza n. 255 del 1992. Ivi i giudici costituzionali hanno affermato che nel nuovo processo italiano, accanto alla regola dell’oralità, vi è da rispettare anche il principio di non dispersione dei mezzi di prova: un sistema probatorio che impedisce al giudice di valutare le precedenti dichiarazioni raccolte nel corso delle indagini preliminari non può essere considerato ragionevole, dato che il fine principale del processo penale è la ricerca della verità. Deve dunque essere data al giudice la possibilità di utilizzare tutte le risorse conoscitive, ivi comprese le dichiarazioni acquisite senza le garanzie del contraddittorio. La svolta “inquisitoria” impressa da tale sentenza è alla base delle modifiche al c.p.p. apportate, dapprima, con l. 356 del 1992 e, successivamente, con la l. 267 del 1997, con cui si ripristina il divieto di utilizzare prove acquisite fuori dal contraddittorio senza il consenso delle parti. Con la legge costituzionale 63 del 2001, sul giusto processo, la disciplina è stata ulteriormente modificata.

“accusatorio all’europea”47, cioè come un processo che, pur aspirando alla tradizione accusatoria, mantiene pur sempre saldi alcuni istituti della tradizione continentale.

Si giustifica in tale ottica, anzitutto, il mancato recepimento del principio di disponibilità della pretesa punitiva, connaturale alla struttura del processo di

common law e da noi rimpiazzato con il principio di disponibilità dei mezzi di

prova: «la svolta impressa al nostro ordinamento investe la tecnica del processo e non la tutela giurisdizionale intesa come regime di utilizzazione dello strumento processuale legato all’interesse sostanziale pubblico alla repressione dei fatti criminosi. La legge delega e il progetto preliminare del nuovo codice non danno spazio alla disponibilità della tutela poiché consentire al pubblico ministero di restringere l’area di indefettibilità dell’azione in presenza di notizie di reato non manifestamente infondate significherebbe violare il principio di legalità sancito dall’art. 25 comma 2 Cost., prima ancora che il principio di obbligatorietà dell’azione penale dettato dall’art. 112 Cost.»48. Così, istituti come il patteggiamento o il rito abbreviato, in cui più forte si sente l’eco del modello anglo-americano, nel modello italiano vanno ricondotti alla tecnica del processo, cioè ai poteri delle parti interni alla struttura procedimentale e non alla disponibilità della pretesa punitiva: il giudice resta pur sempre titolare di una, sia pur limitata e anomala, iurisdictio.

Possono essere individuati quali “strascichi” della tradizione di civil law anche il rifiuto della struttura bifasica del processo e la mancanza di una giuria popolare chiamata a decidere sul fatto. Così, se il processo di common law tendenzialmente si caratterizza per una biforcazione del momento in cui viene accertata la colpevolezza rispetto a quello in cui viene determinata la pena, il sistema italiano del 1988 affida a un unico corpo giudicante tanto la decisione

47 E. Amodio, Un “accusatorio all’europea” per la riforma della procedura penale continentale,

in AA.VV., Il nuovo codice di procedura penale visto dall’estero. Atti del seminario di Torino (4-

5 maggio 1990), Giuffrè, Milano, 1991, pp. 225 ss.

48 E. Amodio-C. Bassiouni, Il processo penale negli Stati Uniti d’America, Giuffrè, Milano, 1988,

p. XLVIII, in cui si specifica pure che «un processo di parti, informato al principio dispositivo sul terreno della prova, nega all’accusatore e all’imputato il potere di disporre dell’oggetto della controversia secondo i canoni della legalità sostanziale e processuale radicati nella cultura continentale».

sulla colpevolezza quanto quella relativa alla commisurazione della pena. Tale caratteristica pare avere un peso determinante nello scivolamento del sistema processuale penale italiano verso un modello dominato dal giudice e non dalle parti: «gravato dell’onere di stabilire se l’imputato sia colpevole o innocente, il giudice italiano, a differenza del suo collega d’oltre oceano, risulta infatti anche personalmente responsabile della correttezza della decisione sul merito e quindi dell’esatta ricostruzione dei fatti. Ciò lo induce inevitabilmente ad assumere il maggior controllo possibile sulla dinamica processuale ed a ricoprire un ruolo il più possibile attivo nell’accertamento del fatto»49.

D’altra parte, fra le scelte del legislatore italiano maggiormente contraddittorie rispetto al modello di riferimento, vi è quella del mantenimento del principio di obbligatorietà dell’azione penale. Il funzionamento di un rito tanto farraginoso e sofisticato, innestatosi su una realtà sociale e culturale piuttosto complessa, avrebbe infatti richiesto l’adozione di forme flessibili anche dell’esercizio dell’azione penale. Lo stesso legislatore, nella Relazione al progetto preliminare, rammentava: «l’esperienza degli ordinamenti che da secoli prevedono un processo di tipo accusatorio, insegna che tale modello processuale è in grado di trovare pratica applicazione, stante il notevole dispendio di risorse richieste dalla formazione orale della prova in dibattimento e dalla cross examination, solo se a essa si accompagnano forme di definizione anticipata del dibattimento»50. E, già all’indomani dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, Giuliano Vassalli, ministro di grazia e giustizia in carica, parlava dell’opportunità di modificare il principio di obbligatorietà dell’azione penale che «urta manifestamente e sistematicamente contro una visione funzionale della giustizia»51.

In generale, si ritiene che con la riforma del 1988 il legislatore abbia perso l’occasione di riconsiderare in senso adversary e accusatorio il ruolo del pubblico

49 E. Grandi, op. cit., pp. 55-56.

50 C. Cesari, Le clausole di irrilevanza penale del fatto nel sistema processuale penale,

Giappichelli, Torino, 2006, p. 33, nota 96.

51http://www.archiviolastampa.it/component/option,com_lastampa/task,search/mod,libera/action,

ministero. Il mantenimento della sua natura di magistrato, appartenente allo stesso corpo dei colleghi giudicanti, fa sì che il p.m. italiano si percepisca e venga anche percepito come organo neutrale e non come parte, quindi soggetto

parziale, del processo52. La struttura del rito penale e i poteri legati all’esercizio dell’azione penale, ne sono un’ulteriore conferma.

4.1. Le indagini preliminari, l’esercizio dell’azione penale e i controlli

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