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Il contenuto eterogeneo del termine “discrezionalità”.

LA DISCREZIONALITA’: DEFINIZIONI E CRITERI DI ANALIS

1. Il contenuto eterogeneo del termine “discrezionalità”.

Il concetto di discrezionalità appare estremamente generico, sia nel linguaggio comune che in quello tecnico-giuridico, ricomprendendo al suo interno una pluralità di fenomeni.

Nel linguaggio comune, con il termine “discrezionalità” si indica la libertà o il potere di un soggetto di decidere, secondo il proprio giudizio o in base a un criterio condiviso, la propria linea d’azione in relazione a un contesto determinato e a uno scopo precipuo1. Secondo accezioni più articolate, col termine “discrezione” può indicarsi la facoltà o il potere di discernere, una norma del giudicare e del volere, oppure la moderazione, il senso della misura, la capacità di mantenere un segreto. In un’accezione negativa, la discrezionalità può coincidere con il potere, il libero volere al di fuori di qualsiasi parametro precostituito. Nell’uso comune, infatti, il termine “discrezionalità” si confonde anche con i concetti di arbitrio, libertà o insindacabilità.

La ricognizione del significato dell’espressione “discrezionalità” in ambito giuridico risulta più complessa. Da più parti, infatti, sono stati messi in luce, da un lato, lo scarso interesse della letteratura giusfilosofica meno recente verso tale concetto2, dall’altro, la eterogeneità e complessità del suo contenuto che mal si

1 A. Renteria Diaz, Il labirinto della giustizia. Giudice, discrezionalità, responsabilità, Franco

Angeli, Milano, 2000, pp. 36-38.

2 Ivi, pp. 35 ss. L’Autore giustifica tale mancanza di interesse, specie in tempi risalenti, con la

tradizionale concezione dichiarativa dell’attività del giudice: così, i giuristi formatisi nella tradizione occidentale che vedono nello stato di diritto la principale delle garanzie democratiche, hanno avuto più interesse a nascondere piuttosto che ad esaltare la discrezionalità del giudice. «La ragione di tale atteggiamento era, com’è ovvio, l’idea che per assicurare la posizione neutrale del giudice era necessario che egli non fosse consapevole del proprio potere discrezionale; in altre parole, si diceva, per essere tale il giudice deve essere convinto che egli applica, e non crea, il diritto. Indubbiamente, quindi, la discrezionalità giudiziaria non trovava posto in una letteratura

presta a una pretesa classificazione di elementi che fungano da minimo comune denominatore3: «pochi fenomeni, come questo dell’esercizio del potere discrezionale, sia in una considerazione astratta, sia in uno studio del suo momento operativo pratico, anche a livello giurisprudenziale, presentano tanta possibile varietà di criteri e tanta sensibilità alle influenze peculiari di una determinata disciplina giuridica»4.

Diverse, infatti, sono le accezioni in cui, specie in considerazione dei vari rami del diritto, può essere inteso il termine “discrezionalità”. Così, sebbene il campo in cui la tale nozione sembra trovare la propria sistemazione naturale è il diritto amministrativo, si parla di discrezionalità anche con riferimento all’attività legislativa e a quella giudiziaria, in specie in materia penale con riferimento alla commisurazione della pena5. La discrezionalità rappresenta pure una specifica

ancorata ai principi di chiusura e completezza, tanto cari alla tradizione giuspositivista nella accezione più classica».

3 Per vero, nella letteratura giuridica italiana, si registrano tentativi di delineare una nozione

giuridica unitaria di discrezionalità, valida a prescindere dai diversi ambiti in cui questa opera. Così Costantino Mortati, padre degli studi sulla costituzione materiale in Italia, alla voce

Discrezionalità, in Novissimo Digesto Italiano, 1960, pp. 1098-1109, tenta di fornire una

definizione generale di discrezionalità, da considerare parte della teoria generale del diritto, più precisamente della teoria delle fonti e della interpretazione. Secondo il costituzionalista, la discrezionalità avrebbe un carattere ibrido dovuto alla commistione fra il vincolo derivante dalla funzione per cui il potere è attribuito e la libertà nella ricerca dei mezzi mediante cui tale funzione deve trovare soddisfazione. Presupposti della discrezionalità sarebbero: 1) il carattere funzionale del potere attribuito a chi decide; 2) la mancanza o la incompletezza delle disposizioni normative relative ai comportamenti da seguire per soddisfare nei singoli casi gli interessi per cui il potere è conferito. Non sarebbero, invece, caratteristiche fondamentali della discrezionalità così intesa né l’esclusione dalla sua sfera operativa dei diritti soggettivi, né la sua insindacabilità. Allo stesso modo A. Raselli, Studi sul potere discrezionale del giudice civile, Giuffrè, Milano, p. 263, compie un’operazione di generalizzazione, valida pure per la giurisdizione civile, penale e amministrativa, secondo cui il potere discrezionale consisterebbe «nella facoltà degli organi dello Stato di determinare la propria linea di condotta nell’attività esterna, in mancanza di norme imperative particolari che la regolino, secondo valutazioni di opportunità rivolte a determinare, in rapporto allo scopo della funzione, che cosa comporti, nel singolo caso concreto, il precetto giuridico generale, posto per gli organi dello Stato: “adempi nel modo più opportuno la funzione

pubblica che ti è demandata”».

4 A. Cristiani, La discrezionalità dell’atto nel processo penale, Giuffrè, Milano, 1985, p. 32. 5 Sul tema della discrezionalità del giudice penale si rimanda al dibattito sviluppatosi in Italia,

intorno agli anni ’60, di cui sono esponenti principali: F. Bricola, La discrezionalità nel diritto

penale. Nozioni e aspetti costituzionali, Milano, 1965; Franco Cordero, Le situazioni soggettive nel processo penale: studi sulle dottrine generali del processo penale, Giappichelli, Torino, 1956;

E. Dolcini, voce Potere discrezionale (dir. proc. pen.), in Enciclopedia del diritto, XXXIV, 1985, p. 747 ss.; Salvatore Messina, La discrezionalità nel diritto penale, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1947. Inoltre, un utile contributo alla ricostruzione della discrezionalità penale e, in specie, alla

modalità operativa con cui, in certi ordinamenti, il pubblico ministero può esercitare i propri poteri, in particolare l’azione penale.

Emilio Betti dà conto delle diversità enunciate affermando che sotto l’espressione “discrezionalità” sono, in effetti, ricompresi fenomeni fra loro differenti6. Si distingue, così, fra una discrezionalità sovrana (c.d. assoluta), che è quella legislativa e che può essere delegata all’organo giurisdizionale solo in via eccezionale allorquando questo sia facoltizzato a decidere secondo equità; una

discrezionalità amministrativa (c.d. pura), che «importa, da parte dell’autorità,

una valutazione non vincolata, ma autonoma, degli interessi concorrenti nel caso in questione e una conseguente libertà di scelta, secondo un criterio di opportunità, fra più soluzioni possibili, rispondenti del pari all’esigenza dell’interesse pubblico»7; una discrezionalità tecnica, basata sull’apprezzamento delle regole proprie di particolari arti o discipline; una discrezionalità di

carattere suppletivo o complementare, funzionale all’adattamento e alla

specificazione della norma alla variabilità della fattispecie, in funzione dell’accertamento e dell’apprezzamento della fatto concreto (è il caso degli artt. 132-133 c.p.); una discrezionalità giurisdizionale, collegata all’ultima accezione proposta, consistente nell’apprezzamento condotto alla stregua di nozioni elastiche o di concetti di valore a cui rinviano le norme giuridiche da interpretare e da applicare8.

Ognuna di queste declinazioni si differenzia dall’altra e si diversifica pure in base all’ordinamento in cui trova applicazione. Così, non solo le caratteristiche della

distinzione fra limiti di tipicità e commisurazione della pena è offerta da G. Caruso, La

discrezionalità penale. Tra “tipicità classificatoria” e “tipologia ordinale”, CEDAM, Padova,

2009.

6 E. Betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici. (Teoria generale e dogmatica),

Giuffrè, Milano, 1949, pp. 55-56. Per vero, Emilio Betti rientra fra coloro che negano la possibilità di una nozione unitaria e generalizzabile di discrezionalità. Egli afferma, infatti, che «tutti questi fenomeni non hanno in comune che il nome discrezionalità: se si cerca di analizzarli a fondo, si trovano fra loro differenze essenziali».

7 Ivi, p. 64.

8 Per vero, l’Autore ritiene – Ivi, pp. 58 ss. – che nelle ultime due ipotesi sia ravvisabile

l’esercizio di un apprezzamento vincolato che ha carattere d’interpretazione, e non

discrezionalità amministrativa sono diverse, ad esempio, da quella giudiziale in materia penale o civile e da quella legislativa ma, anche volendone tentare una diversificazione, le nozioni elaborate con riferimento a uno specifico ordinamento si mostrerebbero comunque insufficienti e differenti rispetto alle declinazioni che lo stesso concetto assumerebbe in un’ottica comparata. Tale eterogeneità, per quanto suggestiva, rende fuorviante la trattazione di ognuno di questi aspetti in confronto al tema che si vuole affrontare. È parso dunque più pertinente alla ricerca proposta delineare il problema definitorio generale della discrezionalità con riferimento specifico alla sola discrezionalità amministrativa e a quella giudiziale, declinazioni che pongono questioni in parte riconducibili all’attività del soggetto requirente e la cui specificazione contenutistica sembra utile per delineare meglio il tema centrale della ricerca: la discrezionalità del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale.

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