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I L TEATRO IN I TALIA : COMPAGNIE DI GIRO E TEATRI STABILI

1. IL TEATRO

1.2 L E ORIGINI : IL TEATRO GRECO

1.3.1 I L TEATRO IN I TALIA : COMPAGNIE DI GIRO E TEATRI STABILI

1.3.5 Gli Stabili.

1.1 Una realtà in continuo movimento

Cos’è il teatro? Rispondere a questa domanda è meno facile di quanto possa sembrare di primo acchito. La parola “teatro” possiede infatti una pluralità di significati. Il “teatro” è di volta in volta uno spettacolo, un luogo o un insieme di persone. Sembra mancare, dunque, una definizione di che cos’è il teatro in generale. Forse perché il teatro esiste e funziona, senza aver bisogno di una definizione, e tanto basta, sia a chi vi si affaccia di sfuggita che a chi vive per esso. Forse perché è troppo mutevole la realtà del fare teatro.

In tre millenni di teatro in Occidente niente è rimasto fermo. Di epoca in epoca sono cambiati i valori artistici, i mezzi tecnici, le forme organizzative e anche la percezione di quello che avviene in palcoscenico da parte degli spettatori. I cambiamenti di queste quattro variabili sono continui, anche perché esse sono interdipendenti, e così ogni cambiamento di ognuna di esse si ripercuote su tutte le altre. E queste sono solo le variabili interne al fare teatro, a loro volta collegate alle modificazioni dell’ambiente esterno.1

A questo punto bisogna porsi il problema di capire come si è arrivati all’attuale sistema teatrale italiano. A questo scopo è sufficiente ripassare in breve la storia delle compagnie di giro e dei teatri stabili, che del nostro sistema sono i cardini, come faremo nel terzo paragrafo. Ma questa scelta non è soddisfacente, se si vuole porre in risalto

1 E anche all’ambiente sociale deve guardare chi vuole riformare il teatro: “Non è affatto possibile produrre l’effetto più alto e più puro dell’arte teatrale senza innovare dappertutto, nel costume e nello Stato, nell’educazione e nei rapporti sociali” (Friedrich NIETZSCHE, “Richard Wagner a Bayreuth”, in Scritti su Wagner, Adelphi, Milano, 1979, pag. 96).

proprio quel continuo cambiamento delle variabili teatrali, di cui si diceva sopra. Inoltre si può correre il rischio di trovarsi impreparati di fronte alla necessità di innovare.

Nel campo teatrale, se si vuole primeggiare, bisogna innovare2. Ma il cambiamento si trova sempre di fronte degli ostacoli. Il primo è che le persone, guidate dall’inconscio, fanno sempre ciò che conoscono già bene. L’inconscio è esattamente quello che dice la parola: ciò che è meno conscio perché è più usuale, più familiare, più quotidiano.

Poiché diamo per scontate le nostre idee, le idee (come poteri sovrasensibili), senza che ce ne accorgiamo, ci possiedono.3 Se vogliamo evitare che ciò accada, dobbiamo scuoterci e allargare le nostre prospettive, nello spazio o nel tempo. Ecco perché può essere importante ricordare qualcosa di più della storia del teatro, così come nei prossimi capitoli sarà fondamentale confrontare l’esperienza organizzativa italiana con quella di altri paesi.

Ma un altro ostacolo all’innovazione è la memoria. Se si ricordano troppe cose, per troppo tempo, si continua ad agire nello stesso modo in cui si è agito nel passato.4 Allora è necessario trovare un equilibrio, e questo equilibrio passa necessariamente attraverso una selezione di ciò che si vuole ricordare. In questo capitolo abbiamo deciso di tralasciare una “storia del teatro”, che certo non compete a un testo di organizzazione aziendale, ma non di meno abbiamo dedicato un paragrafo alla prima forma di teatro in Occidente, il teatro greco, proprio per consentire quel confronto e quello “scuotimento”

di cui parlavamo sopra. La nostra non sarà una analisi storica, ma semplicemente lo studio di elementi del passato utili per una consapevole analisi organizzativa del presente5.

2 Confronta, ad esempio, l’attenzione continua rivolta agli autori e ai registi da Ivo Chiesa, direttore per quasi cinquant’anni dello Stabile di Genova, nella costante ricerca di forze teatrali nuove (vedi Maurizio GIAMMUSSO, Il Teatro di Genova una biografia, Leonardo Arte, Milano, 2001).

3 James HILLMAN, Il Potere, Rizzoli, Milano, 2002.

4 Karl WEICK, Organizzare. La psicologia sociale dei processi organizzativi, ISEDI, Torino, 1993 (ed.

orig.: The social psychology of organizing, seconda edizione, Reading, Addison-Wesley, 1979).

5 Un approfondimento delle argomentazioni di questa scelta si trova nel paragrafo dedicato al tema della memoria, nell’analisi organizzativa.

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1.2 Le origini: il teatro greco

“In realtà si ha solo un mezzo per convincersi in breve di quanto siano volgari, e precisamente quanto stranamente e bizzarramente volgari, i nostri istituti teatrali: basta confrontare con essi la realtà dell’antico teatro greco!”6

Non sappiamo se una breve comparazione della realtà attuale con il teatro greco può portare a un giudizio drastico come quello di Nietzsche sul teatro contemporaneo, ma di certo può convincere chiunque delle differenze abissali che possono sussistere tra modi diversi di fare teatro.

Il teatro greco nasce e si sviluppa in Atene7. Qui, fin dai sui primordi, la rappresentazione teatrale fu un fenomeno anzitutto religioso, che aveva luogo nel contesto delle celebrazioni festive in onore del dio Dioniso. In origine, i Greci a teatro sentivano non soltanto di assistere a uno spettacolo, quanto soprattutto di partecipare a un rito. Con l’arrivo della primavera le strade della città si riempivano di un gioioso tumulto per giorni; poi iniziava la gara: all’alba8 i cittadini affluivano in teatro per assistere alla trilogia tragica, e la rappresentazione durava tutto il giorno, fino a concludersi al crepuscolo con il dramma satiresco.

In quell’autentica democrazia che era Atene, il teatro aveva anche una valenza politica;

costituiva una vera e propria assemblea dei cittadini liberi, tutti solidalmente responsabili del governo della città, ed era per essi una grande occasione di apprendimento. Questa educazione del popolo attraverso il dramma avveniva nella forma di una gara tra i più grandi artisti musicali e drammatici. Questo risulta comprensibile per noi solo ricordando che il carattere agonistico era potentemente connaturato alla mentalità greca (basti pensare agli agoni sportivi, come le gare

6 Friedrich NIETZSCHE, “Richard Wagner a Bayreuth”, (op. cit.), pag. 97.

7 Per un quadro di sintesi sul teatro delle origini vedi: Dario DEL CORNO, Letteratura greca, Principato, Milano, 1988.

8 Questa distribuzione delle rappresentazioni nell’arco della giornata ha avuto un’influenza sugli autori e le opere, che dovevano adeguarsi alle luci naturali: basti ricordare l’affascinante prologo dell’Agamennone di Eschilo, con la vedetta che scruta l’orizzonte ancora immerso nell’oscurità della notte morente.

olimpiche). Così, mentre l’uomo moderno trova sconveniente nell’artista l’impulso personale alla competizione, il Greco conosce l’artista soltanto nella lotta personale.

Sotto tutti gli aspetti è ovvio che i cicli di rappresentazioni in onore di Dioniso occupassero nella vita di Atene un posto assai diverso da quello di qualsiasi opera teatrale dei nostri giorni.9 Possiamo precisare questo punto considerando più dettagliatamente due aspetti delle Dionisie cittadine: il numero degli spettatori e le somme di danaro impegnate.

In primo luogo si può stimare in 1500 il numero delle persone coinvolte attivamente ogni anno nelle rappresentazioni, per la maggior parte non professionisti. Ad ogni spettacolo, poi, assistevano decine di migliaia di persone e non erano rare le lotte per accedere ai posti. A favorire una presenza così elevata vi era l’inesistenza di un

“cartellone” che garantisse le repliche in città. A partire poi dall’epoca di Pericle era la tesoreria dello stato che pagava i posti per i cittadini.

Ieri come oggi la messa in scena di un dramma implicava una spesa, e nell’antica Grecia nessuno immaginava che il teatro potesse o dovesse essere economicamente autosufficiente10. Il finanziamento avveniva attraverso una sorta di patronato obbligatorio: ad ogni drammaturgo veniva, infatti, trovato un corego o promotore.

Provvedere alle spese di una rappresentazione alle Dionisie, come mantenere una trireme per una anno o pagare una delegazione da inviare in un altro stato, era considerata una prestazione per il vantaggio comune che era lecito attendersi dai cittadini facoltosi. Non tutti la consideravano una fastidiosa sovraimposta: per alcuni era la via sicura alla popolarità.

La struttura delle spese era molto diversa da quella del teatro dei nostri giorni: non c’era illuminazione, lo scenario era primitivo o inesistente, scarse le attrezzature necessarie.

La maggior parte delle funzioni ora distribuite fra diverse persone – autore, regista, compositore, coreografo – era riunita nella persona del poeta. Il corego doveva, invece, pagare i componenti del coro e il suonatore di flauto. Talvolta era necessario un secondo coro, e per tutti si dovevano procurare maschere e costumi (su questa voce si poteva risparmiare qualcosa, noleggiandoli di seconda mano), senza parlare di un ricevimento

9 H.C. BALDRY, I Greci a teatro, Editori Laterza, Bari, 1972.

10 BALDRY, (op. cit.).

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al termine della gara. Una voce che variava molto nel bilancio era la presenza di comparse mute, dato che alcuni “divi” chiedevano un seguito imponente.

La spesa pubblica e privata per il teatro era notevole. Le gare venivano a costare più di dieci talenti. La spesa complessiva, sostenuta ogni anno per le feste dalle casse della città di Atene, doveva aggirarsi sui trenta talenti.11

Al di là degli aspetti sociali e organizzativi, va notata una cultura teatrale straordinaria e irripetibile. Incominciamo considerando la maschera. Tutti gli attori recitavano mascherati; non vi erano espressioni del volto da osservare in un teatro da diecimila posti. Ciò che più conta è che la maschera assume un potente significato simbolico:

attraverso di essa si rende presente qualcosa che va oltre l’umano, si recita un dramma più elevato e vengono evocati poteri più grandi.12

Gli spettatori greci non sono paragonabili a quelli moderni. Ciò che spingeva questi uomini al teatro non era un’ansia di sfuggire alla noia, non era la volontà di liberarsi a ogni costo, per alcune ore, da se stessi e dalle proprie miserie. I Greci abbandonavano la loro vita pubblica, nelle piazze e nelle strade, per trovare autentico conforto nella solennità della rappresentazione teatrale. Non si trattava di un pubblico pigro e stanco, abbonato a tutti gli spettacoli, che viene a teatro con i sensi finiti sfiniti e stracchi, per procurarsi qui delle emozioni. Lo spettatore ateniese aveva ancora i sensi freschi, mattutini, festosamente eccitati dal tumultuoso e folle impulso dionisiaco primaverile13; egli, inoltre, sorbiva la bevanda della tragedia così raramente, da poterla gustare ogni volta come per la prima volta.

11 Per dare un termine di paragone, un talento (pari a 60 mine e a 6000 dracme) sarebbe stata una cifra sufficiente per il mantenimento annuo di quindici o più famiglie con quattro componenti, al livello di sussistenza al quale viveva la maggior parte degli ateniesi; oppure si sarebbero potuti comprare trenta schiavi (BALDRY, I Greci a teatro, op. cit.).

12 HILLMAN, (op. cit.).

13 Per i concetti di apollineo e dionisiaco è d’obbligo rinviare a Friedrich NIETZSCHE, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano, 1977, nonché Friedrich NIETZSCHE, La filosofia nell’epoca tragica dei greci e scritti 1870-1873, Adelphi, Milano, 1991.

Non è solo l’atteggiamento degli spettatori ad essere diverso da oggi, ma anche la loro percezione di ciò che viene rappresentato. Nel teatro greco alla realtà della vita e dell’esperienza quotidiana si sostituisce una realtà alternativa, che ingloba nella propria dimensione chiunque ne sia partecipe. Attore e spettatore vivono l’evento teatrale come una realtà distinta da quella in cui si svolge la loro normale esistenza: ma – a differenza della disposizione con cui i moderni affrontano lo spettacolo teatrale – non se ne distanziano come da una realtà fittizia. Per i Greci tutto quanto si svolge a teatro esiste come una realtà dotata di autonome leggi spaziali e temporali, logiche, psicologiche, e dunque provvista di una concretezza altrettanto effettiva quanto quella della realtà abbandonata provvisoriamente all’atto di partecipare alla festa teatrale.

In quest’abbandono a una nuova dimensione sta il nucleo del rapporto fra il pubblico greco e il teatro. Il pubblico del teatro arcaico non considerava la rappresentazione come una realtà immaginaria, che richiedesse la complicità dello spettatore per imporsi14. Nell’eccitazione dionisiaca, la metafora non è una figura retorica, bensì un’immagine sostitutiva che si presenta concretamente, in luogo di un concetto. Il carattere non è affatto un tutto composto da singoli tratti cercati qua e là e messi insieme, bensì una persona insistentemente viva davanti agli occhi.

Questo è il fenomeno drammatico originario, che nasce dal coro tragico: vedere se stessi trasformati davanti a sé e agire poi come se si fosse davvero entrati in un altro corpo, in un altro carattere. Questo processo sta all’inizio dello sviluppo del dramma.

La sensazione moderna “questo è soltanto uno spettacolo” è l’inverso dell’emozione della tragedia greca, che faceva dire “questa è soltanto la realtà quotidiana”. L’uomo di oggi va a teatro per rilassarsi, per scaricarsi dal peso di tutti i giorni, perché ha bisogno di qualcosa che sia soltanto spettacolo, perché viene dal di fuori e sa cos’è reale. Lo spettatore della tragedia greca veniva e conosceva qualcosa di più sulla natura della vita, perché veniva contagiato dall’interno, investito da una contemplazione – cioè da una

14 Il tragico Frinico fu punito con l’enorme somma di mille dracme perché, mettendo in scena un evento contemporaneo, la conquista di Mileto da parte dei Persiani, aveva suscitato la disperazione del pubblico ateniese. “Tale reazione poteva darsi soltanto in una società che non distinguesse il piano del teatro da quello della propria biografia, bensì fosse avvezza a dimenticare quest’ultima durante la rappresentazione, lasciandosi assorbire in una realtà sentita come attuale e totale” (DEL CORNO, (op. cit.), pag. 154).

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conoscenza – che già esisteva prima di lui, che saliva dall’orchestra e suscitava la sua contemplazione, si confondeva con essa.

L’effetto principale e complessivo della tragedia antica, ancora nella sua epoca migliore, si fondò sempre sul coro, un’entità sostanzialmente incomprensibile per lo spettatore moderno. Oltre il coro vi era la scena, molto stretta, con la parete di fondo assai avanzata, che presentava le poche figure che si muovevano misuratamente, come bassorilievi viventi o animate figure marmoree; anche questa caratteristica risulta difficile da comprendere oggi.

Se non riusciamo a capire tante cose della tragedia greca, è soprattutto per il semplice fatto che di fronte ad essa noi siamo incompetenti, poiché la sua azione principale si basa in buona parte su un elemento che è andato perduto, cioè sulla musica. Noi non possiamo neppure intendere il rapporto musica – poesia come lo intendevano i Greci:

essi non imparavano una poesia se non attraverso il canto, così anche nell’ascoltare essi sentivano la profondissima unità di parola e suono. Per loro la prima esigenza era di far comprendere il contenuto della poesia recitata, con un’arte straordinaria dell’esporre, che coinvolgeva musica, danza e regia, tutte sotto la guida unica del poeta. Una realtà del tutto incommensurabile per noi, abituati, se necessario, a tollerare anche il testo più assurdo, purché la musica sia bella.

Per quanto riguarda gli attori, bisogna ricordare, per prima cosa, che non vi erano attrici. Tutti i ruoli femminili erano recitati da attori uomini, e non si simulavano voci femminili, come accadeva, invece, nel teatro elisabettiano con l’uso di ragazzi. Il primo attore aveva una preminenza intangibile: di lui solo si poteva dire che “recitava” nel dramma, a lui solo spettava il premio per la recitazione. Il protagonista era l’erede riconosciuto del posto originariamente occupato dal poeta medesimo; il

“deuteragonista” e il “tritagonista” dovevano stare al proprio posto, e non farsi mai troppo avanti. Dato il limite dei tre attori, ognuno di essi doveva recitare più parti nella stessa opera. Ciascuno di questi attori – cantanti doveva recitare, nel suo sforzo che durava dieci ore, all’incirca 1600 versi, fra cui almeno sei pezzi cantati, più o meno estesi. E ciò di fronte a un pubblico che puniva spietatamente ogni eccesso di voce e

ogni accento errato; e ciò ad Atene, dove persino la plebe aveva un giudizio fine e delicato.

Infine, pensiamo anche al poeta, inteso nel senso più vasto, come lo intendevano i Greci. Egli doveva eccellere in cinque gare, ossia doveva essere munito di doti artistiche sia come scrittore che come musicista, sia come attore che

come danzatore, sia infine come regista della sua opera.

Il suo lavoro era pieno di vincoli: il numero ristretto di attori, l’impiego del coro, la necessità di ambientare ogni azione in una piazza aperta. Vincoli che a noi appaiono ingiustificati; ma forse ai Greci sarebbe parsa un’ingiustificata mancanza di disciplina quella libertà, che a noi sembra naturale garantire all’artista.

Egli, inoltre, non poteva attirare l’attenzione sulla sua opera per l’originalità della materia trattata; il tenere avvinto lo spettatore fino alla fine con lo stimolo di una trama interessante, sarebbe stato qualcosa di inaudito per i tragici greci. La tragedia greca non si ridusse mai a una specie di gioco degli scacchi. L’effetto della tragedia antica non era basato mai sulla tensione, sull’eccitante incertezza circa quello che sarebbe avvenuto poi, ma piuttosto su quelle grandi scene di pathos, ampiamente costruite, in cui giocava un ruolo fondamentale la possente musicalità del ditirambo dionisiaco.

La trama era conosciuta fin dall’inizio dallo spettatore (si trattava quasi sempre di miti, a volte rielaborati rispetto alla tradizione, ma pur sempre conosciutissimi). Quanto è distante tutto questo dai sentimenti del pubblico moderno, dove la prima critica che viene mossa a qualsiasi spettacolo, in qualsiasi gruppo di spettatori, è: “era scontato”.

Nel teatro greco le cose non staranno sempre così. La commedia nuova, che fiorisce quando l’antica arte tragica è ormai appassita, svilupperà il gioco degli scacchi teatrale;

questo comporterà una radicale trasformazione della percezione della realtà drammatica da parte degli spettatori, avvicinandola di molto a quella attuale.

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1.3.1 Il teatro in Italia: compagnie di giro e teatri stabili

Per comprendere appieno il sistema teatrale italiano e i suoi meccanismi, è necessario conoscere la storia, che ha lasciato infiniti retaggi, dei suoi cardini attuali: le compagnie di giro e i teatri stabili. Ci si renderà conto allora che molte delle forme organizzative del teatro non sono sostanzialmente cambiate negli ultimi secoli. Quindi è ancora più delicato il loro studio, ed è cruciale capire appieno le logiche che, attraverso gli usi, sono giunte fino a noi, se vogliamo intervenire in maniera efficace sull’organizzazione.

Cerchiamo, dunque, di soffermarci sugli elementi storici legati alle più rilevanti consuetudini attuali del fare teatro.

1.3.2 In principio era la compagnia (compagnie, capocomici,