1. IL TEATRO
1.2 L E ORIGINI : IL TEATRO GRECO
1.3.3 L’O TTOCENTO
Nell’Ottocento le cose cambiarono: l’evoluzione della drammaturgia, il superamento dei caratteri, le nuove scuole interpretative, e, soprattutto, la nascita di un moderno teatro di regia, e della scenografia contemporanea, compromisero la concezione della compagnia sopra descritta, la sua centralità e soprattutto il sistema dei ruoli. Il teatro di regia, infatti, costruiva gli spettacoli intorno ad un’idea unitaria, ad un nucleo di senso che guidava tutte le scelte, incluse, ovviamente, quelle relative agli attori.
In Italia, tuttavia, la compagnia tradizionale rimase relativamente solida, e fu ancora protagonista nel XIX secolo, l’epoca in cui i teatri costituivano il cuore pulsante della vita sociale e culturale italiana, come comprova la traiettoria quasi esponenziale descritta dalla loro crescita numerica nell’arco di poco più di un secolo: 200 nel 1785, 400 nel 1835, 957 nel 1870, 1055 nel 1890, 3000 nel 190716. La metà del secolo rappresentò certamente un momento di grande fulgore per queste organizzazioni e tuttavia, come spesso accade, proprio allora si manifestarono i prodromi del suo declino.
La fine del secolo dei Lumi costituì, in effetti, la prima tappa di un percorso che, da un teatro, per così dire, di antico regime, carico di forti valenze simboliche e ideologiche e calamita di molteplici interessi e pulsioni sociali, avrebbe condotto verso una realtà in cui gli spazi di catalizzazione degli interessi di larga parte del coevo tessuto sociale si sarebbe progressivamente erosi. Tale fenomeno fu l’esito naturale dell’azione di una serie di concause nel cui ambito occupavano un posto importante l’abnorme crescita del
16 Guido GUERZONI e Marina ROMANI, “Breve storia dell’intervento pubblico in campo teatrale nell’Italia dell’Ottocento. Ovvero della natura ereditaria e congenita del morbo di Baumol”, in SANTAGATA W. (a cura di), Economia dell’Arte, UTET, Torino, 1998.
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numero di sale teatrali e il prevalere, per alcuni generi di spettacolo, delle compagnie girovaghe in rapporto a quelle stabili e, nell’ambito delle prime, di quelle “a mattatore”.
L’attività delle compagnie “a mattatore” era incentrata sul primo attore, di norma un nome famoso, che era contemporaneamente direttore, imprenditore, e primattore. Gli attori più noti non si riunirono più in un’unica compagnia (come era avvenuto, ad esempio, per la Reale Sarda di Torino), ma optarono piuttosto per la direzione di un complesso proprio, circondandosi di artisti di scarso rilievo con la conseguenza, facilmente intuibile, dello scadere del repertorio tagliato esclusivamente in vista della prima parte.
Egualmente, la proliferazione di sale teatrali in ogni piccolo centro della sconfinata provincia italica, fenomeno innescato sul finire del Settecento, condusse seco il diffuso allestimento delle stagioni e di spettacoli di scadente qualità. Così, all’inizio dell’Ottocento, solo realtà isolate come la Scala di Milano, il Regio di Torino, la Fenice di Venezia o il San Carlo di Napoli disponevano di mezzi economici idonei alla conservazione di un elevato grado di specializzazione, che privilegiava l’allestimento degli spettacoli più prestigiosi (opera lirica, balletto, tragedie) a discapito di quelli di matrice più marcatamente popolare (prosa leggera, teatro comico e dialettale ecc.). Al contrario, le sale di seconda, e ancor più, quelle di terza categoria, strette da esigenze di bilancio, si arrabattavano per ospitare ogni immaginabile occasione di incontro collettivo a pagamento: ai locali adibiti alle manifestazioni della più svariata natura si affiancavano caffetterie, trattorie, emeroteche, profumerie, spazi affittati ad associazioni di vario genere e, naturalmente, sale da gioco.
La rosa delle proposte ludiche e di intrattenimento culturale offerte al pubblico risultava, analogamente, sorprendentemente variegata. Vi si rappresentavano l’opera lirica, l’operetta, l’opera buffa, i balletti e i grandi balli, la prosa (commedie e tragedie), i concerti sinfonici e da camera, le esibizioni di solisti, corali e bande musicali, gli spettacoli marionettistici, equestri e circensi, i numeri di prestigiatori, fachiri, equilibristi, forzuti, giocolieri, le grandi tombole, i veglioni mascherati e le feste da ballo, i tornei di scherma, le esibizioni ginniche e le prove di forza, gli esperimenti scientifici, i dibattiti politici e i comizi.
Tale ricchezza propositiva trovava parziale giustificazione sia nella composizione dell’utenza potenziale, sia nella parallela varietà degli assetti proprietari: vi erano teatri posseduti da privati cittadini, altri da associazioni di palchettisti e di spettatori, altri ancora da enti ecclesiastici o assistenziali, conservatori, collegi, municipi comunali, accademie. In alcuni casi, come per esempio a Parma, i proprietari erano gli stessi sovrani che, se in alcuni casi si limitavano a riscuotere l’affitto, altre volte partecipavano alacremente alla conduzione dell’impresa.
Seguendo l’esempio offerto da alcuni regnanti, anche molti degli esponenti dei ceti più elevati si interessarono in prima persona alla costruzione e gestione di sale teatrali, operando in più direzioni sino a riunire in sé le figure di sovventore, fruitore e talora imprenditore. Gli utenti (aristocratici, notabili e ricchi borghesi) motivati a beneficiare dell’intrattenimento offerto dagli spettacoli si associavano, si tassavano, curavano l’edificazione e/o la conduzione del teatro, per poterne direttamente influenzare le scelte artistiche. Tuttavia, anche quando non figuravano in veste di proprietarie, le associazioni di mecenati e palchettisti detenevano un ruolo di primaria importanza:
prendevano in affitto i palchi e siglavano gli abbonamenti, contribuivano alla raccolta dei fondi di dotazione e alla copertura di eventuali deficit, garantendo un minimo di stabilità finanziaria ed esercitando funzioni assai simili a quelle svolte dagli odierni trustees anglosassoni.
La stretta simbiosi esistente tra proprietà e committenza, pallido retaggio dell’antico mecenatismo cortese, instillava nell’utenza molteplici e stringenti aspettative che si traducevano, nella pratica, in tassi di attività attualmente impensabili. Molti teatri rimanevano aperti dal primo pomeriggio sino a notte inoltrata per un minimo di 230 – 240 giornate l’anno offrendo, come ricordato, una vastissima gamma di servizi, che comprendevano trattorie e ristoranti, caffè ed emeroteche, sale da gioco e da biliardo, profumerie e botteghe di barbieri, servizi di guardaroba e tintoria, noleggio di cappelli, carrozze e ombrelli, e via dicendo, nell’intento di soddisfare una domanda di intrattenimento e socialità in costante crescita.
Ora, il mosaico di iniziative economiche che concorrono a delineare il quadro testé accennato pare comprendere un complesso di elementi che spingerebbero un osservatore esterno a escludere la necessità di massicci e sistematici finanziamenti
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esterni: la varietà degli assetti istituzionali e proprietari, l’appassionato e diretto coinvolgimento di fasce di utenza, l’ampio ventaglio di proposte culturali, gli elevati indici di attività e la ricca gamma di servizi commerciali potrebbero indurre a credere che, almeno all’epoca, i teatri potessero vivere del loro, evitando il cronico ricorso a forme assistenziali. La realtà tuttavia era profondamente differente e ne trasmettono dolente memoria le cronache dei giornali che narrano di sale aperte e subito chiuse, nonché le severe requisitorie e le salaci critiche a cui furono sottoposti vari impresari costretti spesso alla fuga per l’incapacità di onorare gli impegni presi con la direzione del teatro e con gli artisti da loro stessi scritturati. D’altro lato le ragioni di questo fenomeno erano immanenti e inscindibili alla medesima natura e struttura dell’organizzazione, vittime entrambe dell’antinomia che le era propria di essere insieme cosa pubblica e cosa privata: pubblica e dunque aperta a tutti (o percepita come tale) nella sfera della fruizione e privata nella gestione (e annessi risultati economici).
Una prima tentazione sarebbe quella di addossare al sistema salariale la responsabilità dei frequenti deficit, ma dopo una prima analisi tale spiegazione si rivela insufficiente:
finché gli impresari permasero al centro del sistema, in guisa di raccordo tra le direzioni dei teatri e gli artisti, si assunsero la totale responsabilità dell’allestimento delle stagioni e i costi dell’impresa permasero complessivamente rigidi17.
17 Lo comprova l’esistenza di una ricca e affascinante letteratura di carattere tecnico: testi come il Reggimento de’pubblici teatri. Idee economiche applicate praticamente agli IIRR teatri alla Scala e alla Cannobiana (1821) di Petracchi, i Cenni teorico-pratici sulle aziende teatrali (1823) e il Trattato di procedura teatrale (1836) di Valle, i Consigli sull’arte di dirigere gli spettacoli (1825) di Ritorni, il Saggio di economia teatrale (1839) di Rossi-Gallieno, il Mentore teatrale (1845) di Avventi, le Poche idee spontanee in rapporto alli teatri (1850) di Larussa o il Manuale della giurisprudenza dei teatri (1858) di Salucci, esponenti di punta di una nutritissima pubblicistica, o riviste specialistiche quali
“L’Asmodeo”, “Monitore amministrativo dei teatri” (1873-88) o “Diritti d’autore” (1870-71), testimoniano la precoce maturità raggiunta in Italia dal dibattito “giuridico-aziendalistico” incentrato sulla determinazione dei criteri di efficiente gestione delle organizzazioni teatrali.; un dibattito che sarà sepolto nel ‘900 dall’assistenzialismo, peraltro poco munifico, del fascismo, e risorto solo di recente, quando si è diffusa la percezione della necessità di innovazione organizzativa, in senso più privatistico e
“manageriale”.
Attori, compositori, librettisti, cantanti e ballerini erano ingaggiati con contratti assai flessibili, i pittori e gli scenografi impegnati nella realizzazione dei fondali e delle scene erano retribuiti con grande parsimonia, i membri delle orchestre e dei cori protestavano sistematicamente le loro miserrime condizioni, sarti, parrucchieri, truccatori, macchinisti e tecnici delle luci, bigliettai e personale di sala venivano spesso remunerati a giornata. L’esito di tali forzose strategie gestionali risultò, tuttavia, manifestamente insoddisfacente come, del resto, le misure prese da quegli impresari che nel corso dell’Ottocento giunsero a gestire contemporaneamente più teatri, operando in perfetta solitudine o costituendo partnership con altri colleghi, grazie alle quali riuscivano a sfruttare alcune marginali economie di scala, stipulando con gli artisti contratti di lunga durata e facendoli esibire a rotazione nei circuiti sottoposti al loro controllo. E tuttavia, per tutto il secolo, i contributi extra-gestionali, sia pubblici sia privati, finalizzati a garantire un minimo di stabilità ai traballanti equilibri dell’impresa teatrale, dovettero crescere costantemente, pena la fine di qualsiasi attività18.