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Il Friuli presenta una fascia settentrionale di catene montuose e collinari delimitata a sud da una pianura di terre magre, magredi o grave, che l’alta permeabilità del suolo mantiene aride nonostante le piogge. Più a sud, la pianura irrigua è percorsa da un reticolo di risorgive che, scendendo verso l’Adriatico, generava un tempo facili acquitrini e paludi. Alla varietà di ambienti che la rende “…un piccolo compendio dell'universo, alpestre piano e lagunoso in sessanta miglia da tramontana a mezzodì”63 si aggiungeva il valore strategico che aveva attirato gli eserciti romani fino alle pendici dei suoi monti. I valichi più accessibili delle Alpi Orientali hanno determinato infatti il loro impiego frequente in guerra come base di presidi militari, in pace come nodo cruciale per i commerci transalpini64. Di qui anche le periodiche infiltrazioni di genti straniere, l’isolamento dei borghi alpini, le varietà linguistiche e culturali che, pur ritardandone lo sviluppo economico, hanno concorso a costituire l’identità di frontiera di questa regione.

A lungo contese nel Cinquecento tra Venezia e l’Austria, a fine XVIII secolo le pianure friulane sarebbero divenute terreno di scontro tra Francesi e Austriaci, sotto lo sguardo impotente del luogotenente veneziano: ma non furono i frequenti conflitti il solo problema di questa terra. Un altro era dato dall’incuria cronica nella gestione del territorio, dovuta in gran parte alla frammentarietà dell’amministrazione locale. Tra le conseguenze, l’assenza di un razionale sistema di canalizzazione delle acque che sottometteva così vaste terre al dominio delle paludi, mentre la mancanza di protezione degli alvei lasciava fluire liberi i fiumi sui terreni coltivati, abbandonando i contadini a una cronica povertà o, in alternativa, all’emigrazione65.

Per secoli Udine, posta al centro della pianura friulana orientale, null’altro rappresentò che uno dei tanti castelli con borgo murato: ma nel XIII secolo il patriarca Bertoldo di Andechs-Merania cominciò a privilegiare quella sede rispetto ad Aquileia, Cormons e Cividale. Di qui, nel 1233, la concessione di un mercato “franco” da qualsiasi imposizione fiscale e il graduale appropriarsi, da parte della città, del ruolo centrale già occupato da Cividale, antica Civitas Austriae, e del titolo di metropoli del Friuli quando nel 1238 divenne sede del patriarcato. Da allora assumerà sempre maggior peso istituzionale nel Friuli prenapoleonico sulle cui vicende do qui dei cenni.

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I.NIEVO, Le confessioni di un italiano, cap. I.

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Sulla funzione dello spazio alpino come luogo di transito e non solo come barriera. Cfr F. BRAUDEL Civiltà e imperi del

Mediterraneo nell’età di Filippo II, I, Torino 2002. Inoltre L.GAMBI, Critica ai concetti geografici di paesaggio umano, Faenza 1961, sottolinea la permeabilità dei confini e la rilevanza delle vie di comunicazione fra stati per la circolazione delle idee e A.

PASTORE,Nella Valtellina del tardo Cinquecento: fede, cultura, società, Milano 1975, si sofferma su mercanti, contrabbandieri,

militari, spie, missionari e dissidenti, per i quali le frontiere degli stati rappresentano più vie di passaggio che invalicabili barriere.

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F. BIANCO, Nobili, castellani, comunità, sottani. Accumulazione ed espropriazione contadina in Friuli dalla caduta della

Il Friuli veneto costituiva l’estrema propaggine orientale dello Stato de Tera, dopo che nel 1420 le armate vittoriose di Filippo Arcelli erano entrate a Udine. Da tempo dissolto quel mosaico di territori uniti dai primi secoli dell’era cristiana sotto il dominio spirituale e poi anche temporale dei patriarchi, al tempo della conquista veneziana i confini della “Patria del Friuli”66 ormai racchiudevano poco più delle terre pressappoco equivalenti alle attuali province di Udine e Pordenone, e dei centri di Portogruaro e Concordia con le loro adiacenze. Dal 1500 infatti il Friuli orientale, pur conservando una certa autonomia, era passato all’Austria dopo che un precedente patto di successione aveva stabilito, scomparso l’ultimo erede Leonardo, il passaggio della contea di Gorizia agli Asburgo, inaugurando un lungo periodo di guerre con la Dominante. Per quest’ultima, che mai più riuscì a riavere Gorizia, conservare la parte di Patria rimasta significava, davanti al potente vicino, tutelare i suoi traffici con l’Europa centrale, garantire i rifornimenti del legname alla flotta e, più tardi, investire in beni fondiari a vantaggio del suo patriziato67.

Il trattato di Noyon del 1516, sancito nel 1521 a Worms a tutto favore dell’Austria, tolse a Venezia l'alta valle dell’Isonzo lasciandole il Friuli occidentale e Pordenone, entrata nei suoi domini nel 1508; disegnò inoltre tra i due stati un’accidentata frontiera, ricca di enclavi dell’una e dell’altra parte. Dopo il vano tentativo veneziano di riconquistare Gradisca, la pace di Madrid (1617) ristabilì il confine preesistente con in più a nord la divisione di Pontebba a metà tra i contendenti: ma anche la speranza di riprendere Aquileia si fece per Venezia sempre più fragile fino a dissolversi nel 1626, quando Ferdinando II incorporò la contea goriziana, quale feudo diretto, al Sacro Romano Impero68.

A minacciare la Repubblica sin dal Quattrocento c’era anche l'Impero ottomano, in espansione nei Balcani e nel Mediterraneo orientale. Dopo che la sua cavalleria ebbe devastato il Friuli in quattro successive incursioni, dal 1472 al 1499, Venezia, impegnata nelle guerre per serbare l’egemonia sul nord della Penisola, nel 1503 stipulò con esso una sfavorevole pace. Quando settant’anni dopo Cipro cadde in mano turca, strinse col papato e la Spagna quella Lega cristiana che vinse a Lepanto (7 ottobre 1571), ma la stentata vittoria servì solo a gravarla delle ingenti spese sostenute nel conflitto e la indusse a stringere con la Mezzaluna un’altra pace che pagò a caro prezzo, con Cipro e altre terre in Morea. Seguì il conflitto di Candia (Creta) che si protrasse dal 1645 al 1669 e segnò per Venezia la perdita dell’isola e del resto della Morea, ripresa per un breve periodo e poi tornata in mano turca nel 1718 con la pace di Passarowitz. Quella guerra diede il colpo di grazia allo Stato veneto che negli ultimi due secoli di vita si ritrovò gravato da un crescente debito pubblico e, in politica estera, ridotto a subire il sempre più difficile rapporto di vicinato da una parte con i Turchi

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Sulle origini dell’antica definizione Il Friuli. Una Patria, a cura di G.ELLERO,G.BERGAMINI, Udine 2008, pp. 61-62.

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Questo paragrafo si basa principalmente sul testo di G.TREBBI, Il Friuli dal 1420 al 1797. La storia politica e sociale, Udine 1998.

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ancora minacciosi, dall’altra con gli Asburgo cui la pace di Carlowitz del 1699, confermando il declino ottomano, aveva aperto feconde prospettive di conquista nell’area danubiana e balcanica. Quanto al governo della Patria in età veneziana e alla sua disordinata congerie di comunità, borghi, ville giurisdizioni e castelli, su di essa vigilavano i tre organi di governo descritti nel 1781 dal luogotenente Sebastiano Giulio Giustinian echeggiando le seicentesche Leggi per la Patria e Contadinanza del Friuli: il Parlamento in cui sedevano prelati, castellani e rappresentanti di comunità; il Consiglio dei nobili e dei popolari della città di Udine; otto sindaci “distrettuali” della Contadinanza. Inoltre 107 giurisdizioni di feudatari e comunità che per privilegio esercitavano il giudizio civile e criminale in prima e talvolta seconda istanza69. Vediamoli nel dettaglio.

Il Parlamento, sorto nel XIII secolo così come analoghe istituzioni europee, rappresentava buona parte del territorio e i suoi membri avevano sempre difeso con tenacia privilegi e prerogative fino a provocare al suo interno, tra il Trecento e il Quattrocento, contrasti che ne paralizzarono l’efficacia. Quando poi subentrarono i Veneziani il suo ordinamento giuridico, dal 1366 codificato nelle Constitutiones Patriae Foriiuli, conobbe nel 1429 una profonda revisione. Formalmente resistette per altri due secoli ma rimase da allora esautorato delle funzioni di governo, passate al luogotenente veneto. Venezia garantì tuttavia alla Patria e a Udine, eletta a sede della luogotenenza, un’autonomia più ampia rispetto a quelle già concesse alle altre comunità della terraferma in cui usualmente nominava Capitani, Podestà o Provveditori. Accanto alle “Ville Communi” direttamente subordinate al luogotenente veneto, in altre comunità il governo inviava patrizi col titolo di Rettori. Altre ancora beneficiavano di uno status particolare: come la fortezza di Palma, edificata nel 1593 a presidio antiturco e antiasburgico, e la Carnia, da sempre orgogliosamente isolata tra le sue montagne, che mantenne quasi inalterata l’autonomia amministrativa.

Il Senato riconosceva anche il consiglio cittadino di Udine, retta da un Maggior Consiglio di nobili e di popolari e da un Minor Consiglio in cui sedevano il luogotenente, i sette deputati in carica e altri membri. In essi il potere era passato, nel corso di un’evoluzione secolare, da un’élite di feudatari a un’oligarchia mista di cittadini e castellani. La popolazione era divenuta sempre più cosmopolita, data la crescente affluenza di mercanti lombardi e da altre terre di recente conquista che si erano aggiunti ai Toscani, numerosi fin dal Duecento. In periferia, negli organi di rappresentanza dei borghi era emerso un ceto medio di artigiani, bottegai e agricoltori, questi ultimi attivi negli orti adiacenti il centro urbano. Venezia concesse a Udine, come ad altre città, di serbare in vigore gli antichi statuti anche nel suo circondario70, ma mai volle assegnarle un ruolo, pur rivendicato dal consiglio cittadino, che andasse oltre la sua ordinaria sfera giurisdizionale. Temeva

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Cit. in G.TREBBI, op. cit., p. 375.

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Aquileia, Cividale e Udine furono le prime città del Friuli a ottenere il privilegio di reggersi con magistrati e statuti municipali. Cfr. P.ANTONINI, Il Friuli Orientale, Milano 1865, p. 147, e sugli statuti friulani E.ZORATTI, Gli statuti comunali friulani. Saggio

infatti di compromettere l’equilibrio tra le forze rivali nei suoi domini, in questo caso col Parlamento la cui feudalità mal sopportava le ambizioni di Udine. Il contrasto era maturato sin dal Cinquecento quando, di fronte ai privilegi mantenuti da Venezia nelle mani dei feudatari, la città, la cui giurisdizione si limitava a meno di una decina di ville, aveva reagito chiedendo un riordino dei poteri e un accertamento di eventuali abusi. Nel secondo Settecento il governo era intervenuto solo parzialmente, ridefinendo i doveri dei giusdicenti specie negli ambiti giudiziario e fiscale, ma la questione restò insoluta sino alla caduta della Repubblica71.

Nel 1425 era stata riconosciuta la cosiddetta Contadinanza, non presente in Carnia, nel Cividalese e in buona parte del Friuli occidentale. Rappresentava soprattutto le comunità rurali i cui otto sindaci corrispondevano ai quartieri, quattro di qua e quattro di là del Tagliamento, in cui era diviso il Friuli veneto. Toccava loro decidere, d’intesa col Parlamento, sulla ripartizione delle “pubbliche gravezze” fra gli oltre quattrocento villaggi della pianura tenuti a pagarle. Venezia l’aveva voluta non solo a difesa dei ceti rurali di fronte alla feudalità ma anche per garantirsi, se necessario, un alleato politico contro quest’ultima: ma presto si ridusse a mero strumento della politica fiscale veneta che si limitava a tutelare proprietari, affittuari e coloni abbandonando alla loro sorte i contadini senza terra72. Nel Cinquecento le toccò pure il compito di riorganizzare le cernide, sottratte al dominio del potente casato dei Savorgnan dopo la tragica esperienza del Carnevale del 151173. la Patria forniva infatti alla Repubblica circa tremila fanti e armamenti, più una compagnia in Carnia e altre in altri punti strategici con compiti di difesa dei confini.

Negli ultimi secoli si era profondamente modificata anche l’aristocrazia feudale, che Venezia da sempre teneva relegata a una marginale partecipazione al potere politico. La rovina economica aveva decretato la scomparsa di alcuni suoi esponenti dalla scena locale; i filomperiali si riducevano ormai a pochi casati ancora potenti: Colloredo, Strassoldo, Della Torre, mentre i Savorgnan, un tempo quasi padroni del Friuli, si erano omologati alla nobiltà di terraferma. Al nuovo assetto aveva contribuito la guerra di Candia allorché Venezia, stretta dalla necessità di rimpinguare le casse esauste, aveva messo in vendita giurisdizioni, titoli comitali e infine vaste terre comunali al miglior offerente. Di quei beni si erano appropriati molti ricchi di ultima generazione e altri, commercianti a Udine iscritti nei registri cittadini come popolari, avevano ottenuto di essere nobilitati. A quell’imponente traffico di patrimoni che costruì le rapide fortune di Veneziani, Friulani, gente

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L.CARGNELUTTI,Gli uomini e le istituzioni,in L.CARGNELUTTI R.CORBELLINI, Udine Napoleonica. Da metropoli della Patria a

capitale della provincia del Friuli, Udine 1997, pp. 21-24.

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G.TREBBI, op. cit., pp. 318-320.

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A fine ‘400 Venezia, esautorando il resto della nobiltà, lasciò ai Savorgnan spazi sempre più ampi nella difesa territoriale consentendo loro di estendere il potere nelle campagne, già in subbuglio dopo ch’erano state approvate nel Parlamento norme sfavorevoli ai contadini. Il 25 febbraio 1511, durante il conflitto con l’Impero, Antonio Savorgnan fece entrare a Udine 800 armati e, dopo un’apparente riconciliazione con la nobiltà rivale filoimperiale, provocò la strage dei suoi maggiori esponenti. Seguì nelle campagne, dal 28 febbraio al 5 marzo, una violenta sommossa contro quella stessa nobiltà che aveva subito la strage del Giovedì Grasso, col saccheggio di oltre venti castelli. Pochi furono i responsabili giustiziati, tardi, dai Veneziani. Savorgnan, prosciolto da ogni accusa, fu trucidato il 27 maggio 1512 in un agguato presso Gorizia ordito dalle famiglie degli uccisi.

veneta e di altri stati, corrispondeva però un’inerzia politica destinata a durare nel secolo successivo, che vedeva il potere saldamente in mano alla ristretta oligarchia lagunare74. Quel quadro rissoso, seppure politicamente immobile, sarebbe stato violentemente scosso soltanto dalle prime municipalità giacobine75.

Intanto le condizioni di vita si facevano sempre più difficili per il ceto rurale, prima privato delle terre comuni vendute e poi vessato, per usufruire di quegli stessi pascoli, dai canoni di affitto di padroni vecchi e nuovi. E se tra il Seicento e il Settecento, a rendere più razionale lo sfruttamento delle terre e dunque a migliorare le condizioni di chi le lavorava emerse qualche attivo imprenditore che rilanciò la produzione della seta o apportò migliorie alle proprie tenute76 ciò non bastò a suggerire quegli obiettivi comuni che soli potevano aiutare la regione a uscire dalla sua arretratezza, cui contribuiva sia la discontinuità geografica dei confini di comunità e feudi, sia la conflittualità politica tra città e campagne, tra Udine e Patria. Diversamente quelle questioni furono trattate nel vicino Friuli asburgico, dove il governo promosse o avviò in prima persona consistenti opere di bonifica e prosciugamento degli acquitrini nella bassa pianura, incoraggiando ogni progresso nell’organizzazione produttiva, né quell’azione fu meno energica nella razionalizzazione dei feudi: l’imperatrice Maria Teresa e poi suo figlio Giuseppe II li gravarono infatti di dazi e tributi, rendendoli poco appetibili a chi intendesse acquistarli, cosicché già al tempo di Giuseppe il loro numero totale si era ridotto di un quarto rispetto all’inizio della dominazione austriaca77.

In materia di espropriazioni dei beni della Chiesa la politica veneziana non parve all’inizio discostarsi di molto da quella degli Asburgo anzi, i provvedimenti legislativi in quella direzione si susseguirono dagli anni Sessanta ai Novanta del Settecento con una determinazione che, per Agostini, ebbe il carattere di una vera e propria rivoluzione che non mise in pericolo la religione, ma contribuì a declericalizzare la società veneta78. La questione riveste una certa importanza in questa tesi perché oltre a monasteri e conventi, chiese, oratori, cappelle, abbazie, chiericati, componevano il multiforme mosaico degli enti ecclesiastici mense vescovili, ospizi, missioni,

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In L.CARGNELUTTI, Gli uomini e le istituzioni, in L.CARGNELUTTI,R.CORBELLINI, op. cit., pp. 15-190, si prova che gran parte della nobiltà feudale antica era estranea alle nuove infeudazioni. Inoltre F.BIANCO, op. cit., p. 35, ha osservato una significativa correlazione tra l’acquisto di feudi o titoli nobiliari e la grande vendita di beni comunali, giuridicamente di Venezia ma lasciati in godimento alle comunità rurali fino alla guerra di Candia.

75 L’aggettivo “giacobino”, da Robespierre in poi, indicò una forma di repubblicanesimo caratterizzato da principi e atti intransigenti e perciò usato in Italia a fine ‘700 per definire sia chi nutriva opinioni repubblicane, sia le repubbliche fondate nel triennio 1796-1799 e a Udine, le frange estreme del governo provvisorio durante la prima occupazione francese. Cfr. P. PRETO, Municipalità

democratiche e giacobinismo nella terraferma veneta, in Proclami delle municipalità venete di terraferma 1797, a cura di ID., F.

AGOSTINI, G.SILVANO, Treviso 1997, pp. 11-22.

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Il carnico Jacopo Linussio (1691 - 1747) diede impulso alla tessitura in Friuli creando in pochi anni un’impresa manifatturiera ritenuta all’epoca la più grande d'Europa - le tele prodotte venivano esportate anche in Asia e nelle Americhe - che Venezia agevolò e sostenne. Il conte Fabio Asquini (Udine 1726-1818) curò in particolare la vite del Picolit nella sua tenuta modello a Fagagna.con l’aiuto dell’agronomo Antonio Zanon (Udine 1696 – Venezia 1770), commerciante, promotore nel 1672 della fondazione della

Società di Agricoltura Pratica di Udine e autore di varie opere sull’agricoltura.

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G.TREBBI, op. cit., pp. 380-381.

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ospedali, fraterne e con essi collegi, seminari e scuole in un tempo in cui assistenza ed educazione erano percepite come intimamente connesse, specie se rivolte ai bisognosi.

Il conflitto Chiesa - Stato si era acuito sin dal Cinquecento. Dal Concilio di Trento non era scaturita alcuna esplicita definizione dell'autorità del papa, fu tuttavia formulata con pienezza di poteri e di magistero nel catechismo tridentino (1566)79. Seguirono la ferma difesa della giurisdizione ecclesiastica dinnanzi a quella civile e con Paolo V, dotato di profonda cultura giuridica e deciso assertore dei diritti ecclesiastici, si giunse a Venezia a un punto di non ritorno80.

Qui il Senato era intervenuto a più riprese sui patrimoni immobiliari ecclesiastici e dei "luoghi pii" cioè confraternite, chiese e istituzioni caritative81 sino all’Interdetto (1606-1607) provocato dal suo rifiuto di riconoscere al clero diritto e tribunali indipendenti dalla giurisdizione dello Stato. Alla scomunica lanciata da Paolo V nell’aprile 1606 contro il governo veneto seguì quella “guerra delle scritture” che vide scendere nell’agone delle dispute dottrinali i cardinali Roberto Bellarmino e Cesare Baronio a fianco della Santa Sede, il frate servita Paolo Sarpi e il senatore Antonio Querini a fianco della Repubblica, ed esperti e polemisti di tutta Europa. A fianco della Chiesa c’erano anche i Gesuiti, perciò espulsi con altri ordini dal territorio veneto e non più riammessi fino al 1657. La contesa terminò il 21 aprile 1607 con la mediazione francese e con una sostanziale sconfitta del papa che, pur levando l’Interdetto, non ottenne da Venezia alcuna effettiva rinuncia ad affermare la propria giurisdizione sulle proprietà ecclesiastiche82.

La prima causa dell’Interdetto furono le leggi per la riduzione della manomorta, che avevano interessato tutta la terraferma e della quale Paolo V aveva chiesto invano la revoca. Il Senato proseguì in questa direzione a metà Seicento quando, a fronte delle guerre contro i Turchi, non potendo più accontentarsi di prestiti obbligatori e ulteriori imposizioni fiscali, vendette al miglior offerente 75 piccoli conventi in tutta la terraferma, di cui una decina in Friuli83. Confische e riordini conobbero la loro ultima e intensa stagione nel secondo Settecento, pochi anni dopo la bolla

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Sulla somma potestà di giurisdizione del Papa Vicario di Cristo così si esprime il Catechismus Romanus ad parochos, Torino 1830, pars II, n. 28, p 255: “Romanus Pontifex omnium est Episcorum maximus: idque iure divino…”.

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Significativi dissidi erano già esplosi a Milano nelle rivendicazioni avanzate dal cardinale Carlo Borromeo nei confronti delle autorità spagnole, e nella scomunica che inflisse al governatore Requesens y Zúñiga nel 1573.

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Il 17 settembre 1521 si istituirono i Provveditori sopra i monasteri; il 13 dicembre 1586 si attivarono i soprintendenti alle decime del clero per amministrare le imposte sui benefici e sui beni ecclesiastici; il 10 gennaio 1603 si vietò di edificare monasteri, chiese e ospedali senza licenza del senato; il 26 marzo 1605 s’istituì la deputazione alle vendite col compito di disporre l’alienazione dei patrimoni variamente acquisiti dagli enti ecclesiastici i quali, secondo la legge 31 dicembre 1536 che estendeva al Dogado disposizioni risalenti al 1333 per Venezia, non potevano detenere un bene donato oltre due anni, dopodiché veniva nazionalizzato e posto all’incanto. Cfr. F.AGOSTINI, op. cit., pp. 108 e 112-113.

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Sull’Interdetto L. VON PASTOR, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, trad. Mons. Pio Cenci, XII, Storia dei Papi nel periodo

della Restaurazione Cattolica e della guerra dei Trent'anni. Leone XI e Paolo V (1605-1621), Roma 1930 e A.BATTISTELLA, Un'eco