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Venezia esercitava, come si è visto, un dominio puramente nominale su un coacervo plurisecolare di giurisdizioni e autonomie che aveva mantenuto nelle mani dei rispettivi giusdicenti dai quali si limitava a esigere formali patti di dedizione: caratteri poco dissimili da quelli di altri stati italiani sorti nel Quattrocento come Milano, Firenze e lo stesso Stato pontificio98, tutti territorialmente compositi e caratterizzati dalla coesistenza tra diritti del principe e diritti delle città soggette, diritti o privilegi dei “Corpi”, dunque dalla natura pattizia, contrattata, regolata dell’attività di governo99. Quando nel Settecento giunse a maturazione il pensiero giurisdizionalista, forte di una tradizione secolare, allo stato cinquecentesco100 si sostituì un modello fondato sull’accentramento statale, destinato a divenire il riferimento dei monarchi eredi dell’ancien régime101: ma Venezia, con poche altre eccezioni, restò fedele al paradigma di stato definito “regionale” o “antico”. Già nel Seicento Giovanni Botero aveva osservato «i caratteri fondamentalmente federativi della compagine territoriale veneziana» annoverando tra le caratteristiche della Repubblica quella di aver mantenuto nei suoi domini le «leggi municipali»102.

Ventura e Berengo, a metà Novecento, concordavano nell’osservare la secolare fedeltà veneziana, nei rapporti col dominio, a una concezione di sé quale città-stato che avrebbe poi determinato la sua rinuncia a sviluppare un’azione diretta di governo sulla terraferma. Di qui, lo svuotamento della funzione politica dei corpi provinciali, destinato a divenire motivo di debolezza e divisione per lo stesso stato veneto che aveva sì affidato in buona parte l’amministrazione alla collaborazione tra il proprio patriziato e i ceti emergenti locali soprattutto urbani, ma aveva anche spinto questi ultimi verso la chiusura in senso aristocratico, impedendo ogni loro maggior coinvolgimento politico e

98 G.M.VARANINI, Venezia e la terraferma nel Quattrocento e nel Cinquecento (Cronaca del 'Seminario di ricerche sui rapporti fra Venezia e la terraferma nei secoli XV-XVI', Padova 1979), in "Critica storica", XVII (1980), pp. 153-160. I rapporti centro-periferia nel caso veneto sono stati affrontati anche da G.BENZONI, Tra centro e periferia: il caso veneziano, in Studi veneti offerti a Gaetano

Cozzi, Venezia 1992, pp. 97-108.

99 Florence et La Toscane; les dynamiques d'un Etat Italien, XIV-XIX Siecles, a cura di J.BOUTIER,S.LANDI,O.ROUCHON, Rennes 2004, pp. 9-10.

100 Il significato del termine “Stato”, oscilla tuttora tra “dominio”, “popolo” e “territorio” come già tra il ‘400 e il ‘500 nelle trattazioni dei teorici della politica. Per A.TENENTI, La nozione di "stato" nell’Italia del Rinascimento, in ID., Stato: un'idea, una

logica. Dal comune italiano all'assolutismo francese, Bologna 1987, pp. 53-97, se l’accezione territoriale del termine s’impone

piuttosto precocemente, solo nel primo ‘400 assume il senso di “reggimento” cioè governo, e ricorre in varie deliberazioni della Repubblica Veneta come riferimento più alto dell’azione politica. Su quest’ultimo aspetto si era già soffermato F.CHABOD, op. cit., p. 163: “… l’espressione Stato Veneto, più frequente che non quella di Stato di Firenze, con il suo insistente ripetersi, finisce con l’infondere, negli scrittori veneziani, una nota - o meglio sfumatura - di maggior modernità nell’uso del termine”.

101

“il giurisdizionalismo, il regalismo, il razionalismo, l’illuminismo, il giansenismo stesso, le forze cioè ereditate dalle generazioni precedenti, trovarono un punto di convergenza nella volontà di trasformare i costumi e le leggi” F.VENTURI, Riformatori lombardi

piemontesi toscani in Illuministi italiani, t. 3, Milano - Napoli, 1958, p. XII.

102

G.BOTERO, La Republica di Venezia,1605, cit. in E.FASANO GUARINI, Stato e città in Italia nella prima età moderna, «Acta

determinando una barriera tra aristocrazia veneziana e di terraferma103. Così il dibattito sulle cause del declino si ampliava di molto rispetto a quello otto-novecentesco, oscillante tra l’idealizzazione di quel mondo e la condanna senza appello104.

La natura di antico stato che serbò Venezia non poteva non esercitare effetti sul suo sistema scolastico. Vediamone alcuni aspetti rilevanti a cominciare dalla città lagunare dove, sin dalla fine del Cinquecento, esistevano scuole con migliaia di allievi e, tra il 1587 e il 1588, ben 256 maestri: cifre che le avvicinano a quelle di altre grandi città italiane del tempo105. Molto più tardi il Senato promulgò leggi che coinvolsero l’intero sistema dell’istruzione pubblica e privata: nel 1770 il Magistrato dei Riformatori incaricò Gaspare Gozzi di redigere un “Piano generale d’istruzione” rivolto a tutte le classi sociali e nel 1774 furono approvati e quindi pubblicati i primi Statuti delle scuole pubbliche di Venezia106. Si trattava in sostanza di colmare il vuoto lasciato nel 1773 dalla soppressione dei Gesuiti, non tanto con altre congregazioni insegnanti quanto con un sistema di scuole pubbliche guidato “dall’alto” dai Riformatori dello Studio di Padova.

Il corso di studi previsto negli Statuti, previa la conoscenza del leggere e dello scrivere dei frequentanti che in genere s’istruivano nelle scuole dei sestieri, prevedeva 8 classi ripartite in 2 cicli ed esami finali a settembre con frequenza il mattino e il pomeriggio, esclusi il giovedì e la domenica. Il ciclo inferiore di 5 classi includeva, accanto alle tradizionali materie umanistiche, geometria, disegno ed economia, ma le prime tre classi costituivano di fatto un corso elementare pur intendendo anche, attraverso gli insegnamenti di geometria e disegno, a qualificare futuri artigiani. Il ciclo superiore con le sue 3 classi - eloquenza, filosofia, teologia per la formazione del clero - apriva le porte agli studi universitari e offriva pure un titolo subito spendibile in un impiego burocratico. Il decreto 28 gennaio 1775 affidò le scuole ai Riformatori dello Studio di Padova107. Ma quelle carte, prodotte quasi alla vigilia dell’invasione, erano destinate a restare largamente inevase: a fine decennio prevalse ancora l’elemento conservatore e la riforma, malgrado il potenziale innovativo e il dibattito maturato nel clima illuminista che ne costituiva il background culturale, si fermò a metà strada anche perché, sebbene si fosse promossa da tempo una capillare

103

M.KNAPTON in “Nobiltà e popolo” e un trentennio di storiografia veneta, in “Nuova Rivista Storica”, LXXXII (1998), fasc. 1,

pp. 167-169, analizza le convergenze tra Angelo Ventura (Nobiltà e popolo nella società veneta del ‘400 e ‘500, Bari 1964) e Marino Berengo (La società veneta alla fine del ‘700. Ricerche storiche, Firenze 1956) su Venezia nei suoi rapporti con la terraferma.

104 Sotto il profilo dell’istruzione G. Gullino ricorda che nella storiografia passata “si può ritrovare, di volta in volta, l’orgoglioso compiacimento di chi può documentare l’esistere di una folta presenza di accademie, scuole e seminari, di vario ordine e grado […] oppure la severa condanna, talvolta in nome di un giudizio che la storia immediatamente successiva avrebbe facilmente motivato, di un mondo ancorato a strumenti di cultura incapaci di rinnovamento ed irrimediabilmente chiusi ai soffi innovatori delle ideologie d’oltralpe…”. G.GULLINO, op. cit., pp. 6-7.

105

Nel 1587 a Venezia il tasso stimato di alfabetismo si aggirava sul 23%: 33% per i maschi, 12% o 13% per le femmine. Il 26% degli scolari proveniva da scuole regolari, il 6% da scuole di dottrina cristiana che però incideva sul 7% delle femmine, l’1% da istruzione domestica. InP.GRENDLER, La scuola nel Rinascimento…, cit., pp. 57.

106

Gli Statuti erano opera, su delega del Senato, dei deputati ad pias causas, o Aggiunti al Collegio dei 10 savi sopra le decime in Rialto. L’edizione del 13 gennaio 1775 si trova pubblicata in G.GULLINO, La politica scolastica veneziana nell’età delle riforme, Venezia 1973, pp. 133-151 e alle pp. 52-58 se ne delineano le caratteristiche.

107

diffusione di scuole primarie nei sestieri, a Venezia la coscienza di un’istruzione dovuta a tutti non fu mai avvertita108. Eppure “Non v’è principe alcuno in Europa, che a proporzione impieghi tanto del suo erario in Università, Collegj, Scuole, ed Accademie, quanto la Repubblica di Venezia”, sosteneva nel 1785 con altri Cristoforo Tentori109, rammentandoci che l’offerta d’istruzione “alta” entro quei confini mai era venuta meno.

E all’estrema periferia della Terraferma? Per comprendere, nel contesto del fecondo scambio culturale che in epoca settecentesca caratterizzò i rapporti tra Udine e la Dominante110, quelli riguardanti più da vicino le istituzioni scolastiche, va tenuto presente che le accademie di scienze, lettere e arti e tutte le scuole pubbliche e private dello Stato - eccetto i seminari soggetti alle autorità ecclesiastiche e il Collegio militare di Verona, sottoposto al Savio alla Scrittura - dipendevano dai Riformatori dello Studio di Padova ma che ampie libertà erano lasciate alle municipalità locali. Al riguardo, Francesco di Manzano a metà Ottocento scagionava dalle accuse dei detrattori il sistema scolastico del Friuli veneziano ricordando “… le scuole pubbliche e private generalmente (e numerosissime erano quest'ultime) i cui maestri erano riconosciuti ed approvati, e la massima parte erano ecclesiastici. Eguali sollecitudini si estendevano per parte del governo anche agli altri luoghi dello stato e fino ne' secondarli e più piccoli […] Dal che si vede quanto sia lungi dal vero che mancassero sotto il Veneto governo le scuole primarie od elementari. Neppur l’educazione delle fanciulle era dal governo trascurata, esistendo negli ultimi anni in ogni parrocchia una scuola anche per esse, ove apprendevano a leggere, scrivere e cucire”111. Pochi anni prima il patriota e futuro senatore Prospero Antonini, echeggiando Tiraboschi112, aveva osservato che “il Friuli si può vantare a ragione di non essere stato a niuna delle altre provincie d’Italia inferiore nell’impegno, cure e sollecitudini di promovere anche fra mille difficoltà il coltivamento de’ buoni studii”113. Così anche il patrizio veneto Girolamo Dandolo che nel difendere il sistema scolastico veneziano114 aveva lodato l’istruzione udinese nelle scuole pubbliche mantenute dalla città, nel Seminario arcivescovile particolarmente curato dal Patriarca Dionigi Dolfin e dall'Arcivescovo Gian Girolamo Gradenigo; e al Mutinelli che accusava Venezia di “aver abbandonato in balia della sorte il pubblico

108

G.GULLINO, La politica scolastica veneziana..., cit., pp. 8, 66-93, 121.

109 C.TENTORI, Saggio Sulla Storia Civile, Politica, Ecclesiastica E Sulla Corografia E Topografia Degli Stati Della Repubblica Di

Venezia: Ad Uso Della Nobile E Civile Gioventù, Venezia 1785, IX, p. 324.

110 Cfr. Storia della cultura veneta: dalla Controriforma alla fine della Repubblica, a cura di G.ARNALDI e M.PASTORE STOCCHI

Voll. 4/I e 4/II. Sui rapporti tra Udine e Venezia anche E.MIRMINA,Esplorazioni nel Settecento letterario italiano: Venezia e la Patria del Friuli, Roma 1984 e Varietà settecentesche: saggi di cultura veneta tra rivoluzione e restaurazione, Padova 1992.

111

F. DI MANZANO, op. cit., Udine 1868, VI, pp. 449-450.

112

G.TIRABOSCHI Storia della Letteratura italiana, vol. VII, Modena 1772-1782.

113

P.ANTONINI, Il Friuli Orientale, Milano 1865, p. 220.

114

La varietà di scuole e progetti scolastici negli ultimi decenni della Repubblica fu descritta oltre che da Dandolo da Giannantonio Moschini che al Friuli dedica diverse pagine della sua Letteratura veneziana del secolo XVIII, III, Venezia 1806, pp. 49-66, e altri contemporanei. Se ne trova una bibliografia in G.GULLINO, La politica scolastica veneziana nell’età delle riforme, Venezia 1973, p. 6. Sulla cultura veneta in questo periodo cfr. Istituzioni culturali, scienza, insegnamento nel Veneto dall'età delle riforme alla

Restaurazione (1761-1818), atti del Convegno di studi, Padova 28-29 maggio 1998, Trieste 2000; Varietà settecentesche: saggi di cultura veneta tra rivoluzione e restaurazione, Padova 1992, pp. 27-34.

insegnamento nelle altre città dello Stato” rispondeva: “i mezzi d'istruzione proporzionati esser vogliono ai bisogni ed alla varia condizione dei luoghi; per cui nessun'altra città dello Stato poteva, per questo rispetto, venire al paragone colla metropoli della Repubblica. Poi soggiungerò, che un Governo il quale faceva sentir così lieve ai sudditi il peso della propria mano, anteponendo, anche nelle maggiori necessità, di aggravarla di preferenza sugli abitatori della capitale; e che da altra parte pur sorvegliando il pubblico insegnamento, non avvisò mai d'imporgli que' vincoli da' quali, più o meno, il vediamo a' giorni nostri costretto; a premunirsi contro ogni onesta censura, bastava che accorresse in aiuto degli studi in quelle città e provincie, che non avessero potuto per insufficienza di mezzi provvedervi da sé”115. Venezia non era dunque paragonabile ad altre città, né il governo intendeva imporre alle scuole alcun vincolo tipico degli stati moderni facendo così corrispondere, alla limitatezza delle pretese fiscali, una debole iniziativa anche in campo scolastico. Più di trent’anni orsono Pastore Stocchi precisò come la dedizione della terraferma a Venezia avesse posto a confronto “due concezioni antitetiche della scuola”: in terraferma questa era un’istituzione pubblica sostenuta dalle municipalità; a Venezia l’iniziativa restava privata, cioè dei maestri, e solo tardi e a fatica il primo concetto si sarebbe fatto strada. L’affido pressoché esclusivo ai privati derivava, secondo lo studioso, da un sentimento di estraneità a ogni idea di mecenatismo, al contrario assai vivo sin dal Quattrocento nelle più prestigiose corti italiane. Tuttavia, nello stesso mantenimento delle autonomie locali vedeva le cause, nel lungo periodo, di un impoverimento del sistema d’istruzione in terraferma. Venezia infatti, serbando lo statu quo, vigilava anche perché i nuovi centri non proponessero un’alternativa “al ferreo monocentrismo culturale del Dominio” espresso dai Riformatori dello Studio di Padova, costituiti dalla vecchia élite del senato veneto116. L’ampia delega al privato che caratterizzò la scuola veneziana fino al Quattrocento è stata anche attribuita a “un pragmatismo portato a sistema, nella convinzione che la realtà si controlla (fatte salve alcune scelte davvero di fondo) con soluzioni empiriche in grado (esse soltanto) di dare una risposta adeguata a situazioni troppo complesse per essere comprimibili in qualsivoglia rigido schema”. Basti pensare che l’aggettivo “pubblico”, come si vedrà tra poco usato a Udine per indicare le scuole sostenute dal comune, a Venezia poteva indicare semplicemente un servizio aperto al pubblico benché frutto d’iniziativa privata, come fu a Venezia per la famosa scuola di Rialto117. E quando al momento della sua massima espansione territoriale Venezia si rese conto che

115

G.DANDOLO, La caduta della repubblica di Venezia ed i suoi ultimi cinquant’anni, Venezia 1855, pp. 584-585, 587. Nell’opera

replicava alle critiche mosse da Fabio Mutinelli nelle Memorie storiche degli ultimi cinquant’anni della Repubblica Veneta,tratte da

scritti e monumenti contemporanei, Venezia 1854.

116

M.PASTORE STOCCHI, Scuola e cultura umanistica fra due secoli, in Storia della cultura veneta, a cura di G.ARNALDI E M.

PASTORE STOCCHI, Dal primo Quattrocento al concilio di Trento, Vicenza 1980, 3/1, pp. 101-102 e 112.

117

G.ORTALLI, Scuole e maestri … cit, p. 33: “In origine era detta pubblica nel senso di aperta al pubblico, anche se frutto di

un’iniziativa rigorosamente privata”. Sulla scuola, in cui s’insegnò logica, filosofia e poi teologia, fondata presso la chiesa di San Giovanni Elemosinario sul lascito del mercante fiorentino Tommaso Talenti, cfr. B.NARDI, La scuola di Rialto e l'umanesimo

le città aggregate, specie quelle minori, erano abituate da tempo all’intervento pubblico nell’istruzione consentì, come a Portogruaro e a Bassano al momento dell’atto di dedizione, al mantenimento di rendite e dazi finalizzati al suo finanziamento118.

In terraferma l’iniziativa rimase così in mano ai governi locali che al senato veneto chiedevano la licenza di apertura di nuove scuole, dopodiché spettava a loro sobbarcarsene gli oneri nelle contingenze più o meno rosee dei tempi deliberando in consiglio comunale di stipendiare scuole e maestri e individuando le entrate cui si doveva attingere per la copertura finanziaria: dazi, fitti riscossi dalle proprietà comunali o contributi di comunità e privati. Ma le scuole pubbliche coesistevano con una serie di punti di educazione e istruzione: scuole private, seminari, collegi per i ceti abbienti, istituti per indigenti e orfanatrofi, scuole parrocchiali. Quel contesto era frequentemente definito nelle fonti coeve come “pubblico” oppure “privato” in un tempo in cui l’istruzione era ancora ben lungi da poter essere definita una funzione statale119.

È noto che aggettivi come questi sono oggi d’uso comune e appaiono non di rado ambigui, comparendo indifferentemente come sinonimi in un’ormai vasta letteratura120. Una prassi largamente condivisa dagli storici delle istituzioni educative in età moderna è di definire “pubblici” gli istituti che beneficiavano in vari modi dei fondi delle municipalità locali, e privati quelli che si appoggiavano prevalentemente a donazioni, rendite fondiarie e quant’altro provenisse da fonti proprie. Anche a Udine, come indicano le fonti sette-ottocentesche dell’archivio comunale, erano dette “pubbliche” le scuole sostenute dall’amministrazione municipale121: prima le scuole tenute dai maestri laici che si avvicendarono a Udine fino al Seicento, poi quelle dei Barnabiti122. Anche la storiografia otto - novecentesca continuò a indicare le scuole barnabitiche e quelle di base per il

118

Ivi, pp. 158-160.

119

Tra i primi a usare questa espressione BALDO PERONI,La politica scolastica dei principi riformatori in Italia, in “Nuova Rivista

Storica”, anno XII, fasc. III, 1928, pp. 265-298, cit. in R.SANI, op. cit., p. 631.

120

L’uso sempre più esteso dell’espressione “scuola pubblica”, imprescindibile dalla categoria di “servizio pubblico”, si deve al passaggio, nel secondo dopoguerra, da un’economia industriale a una fondata su una gamma sempre più vasta di servizi rivolti alla persona, con la conseguente crescita del cosiddetto “Stato sociale”. Causa anche l’aumento esponenziale della spesa, si è poi passati da una gestione prevalentemente statale di quei servizi a una sempre più affidata a privati le cui attività, economiche in quanto fonte di guadagno, generano anche prodotti che soddisfano i bisogni di più persone (A.PICARELLI, Sulla gestione delle imprese di pubblici

servizi, in “Rassegna economica”, n.1/1975, pag. 122). Se quindi un tempo s’intendevano come “pubblici” enti o istituzioni

direttamente amministrati dallo Stato, oggi si possono intendere “pubblici” sulla base della loro funzione. Così, se prima si definivano pubbliche le scuole dello Stato e private le altre oggi, rivendicando il diritto di tutte le scuole aperte a tutti, a ricevere fondi statali, c’è chi propone la dicotomia “statale” e “non statale” definendo “pubbliche” entrambe.

121 R.GIANESINI, Istituti di istruzione a Udine nell’età moderna, in La lavagna nera.. Le fonti per la storia dell'istruzione nel Friuli

Venezia Giulia, Trieste - Udine 1995, p. 126 precisa, quando il 2 gennaio 1676 la municipalità udinese accolse la proposta

dell’ordine: “…la scuola di cui si parla è Scuola Pubblica, e ciò non solo per propria enunciazione, ma realmente, poiché la nascita risulta deliberata da un Organo Pubblico di massima autorità quale il Maggior Consiglio, il finanziamento è pubblico in quanto proveniente dall’erario, e vi è una manus pubblica sugli aspetti gestionali che non riguardano in modo specifico l’insegnamento. A tali requisiti minimi risponde una Scuola Pubblica…”.

122

Il cremonese Sant’Antonio M. Zaccaria (1502-1539) con Bartolomeo Ferrari (1499-1544) e Giacomo Morigia (1497-1546) fondò i Chierici Regolari di S. Paolo detti Barnabiti dal nome della casa madre di San Barnaba a Milano, o Paolini da uno dei loro patroni, San Paolo. All’ordine, approvato da Clemente VII il 18 febbraio 1533 e confermato da Paolo III il 21 luglio 1535, si affiancarono il ramo femminile delle Suore Angeliche di S. Paolo, non soggette a clausura, e i Maritati di S. Paolo o Laici di S. Paolo. Gli stretti contatti con la Contessa Ludovica Torelli di Guastalla, con la Compagnia dell’Eterna Sapienza di Milano e con il domenicano fra Battista da Crema, costò ai Barnabiti prima il bando dalle terre venete nel 1551, poi l’intervento dell’autorità ecclesiastica che soppresse il Terzo Collegio, ridusse in clausura le Angeliche e tramite Carlo Borromeo, con le Costituzioni definitive del 1579, rifondò l’ordine che dal Seicento s’impegnò in particolare nell’educazione della gioventù.

popolo come le sole “pubbliche” esistenti a Udine123. Di qui anche l’assenza, dal suo orizzonte, degli istituti rivolti alle donne e agli indigenti sia perché finanziati con fondi privati, sia perché soprattutto vi era ritenuto predominante il fattore assistenziale: ma già in epoca austriaca, una volta introdotti nella compagine statale, si cominciò a percepire questi istituti come educativi124.

Sugli attriti che derivarono dalla concorrenza che si venne inevitabilmente a creare tra le scuole barnabitiche, il seminario e i numerosi insegnanti privati che contribuivano a rendere più complesso il quadro dell’offerta scolastica cittadina si dirà nel quarto capitolo. Per ora ci si potrebbe limitare a osservare, con Gecchele, che “la controversia sul confronto fra scuola pubblica e privata è antica quanto la scuola stessa”. Si pensi a Quintiliano che nella Institutio oratoria, alla domanda su quale delle due fosse la migliore, replicò che la privata dava solo istruzione, mentre la pubblica offriva la vera e integrale educazione che si otteneva solo abituando il fanciullo alla vita in comune. Ma allora, per scuola privata s’intendeva solo quella retta da un singolo precettore e tale era intesa anche da Ottavio Piceno che in un suo libretto più volte ripubblicato nel Settecento paragonava