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La funzione del riporto delle perdite nell’ambito della tassazione sul

1. P REMESSA

2.1. S ULLA FUNZIONE DEL RIPORTO DELLE PERDITE NELL ’ AMBITO DEL REDDITO

2.1.3. La funzione del riporto delle perdite nell’ambito della tassazione sul

Una delle possibili soluzioni al problema dell’effettività, sotto il profilo temporale, del reddito sottoposto ad imposizione, è quella di stabilire una connessione tra il reddito (rectius, risultato positivo), di un periodo di imposta, con la perdita (rectius, risultato negativo) di un altro periodo d’imposta, anteriore o successivo. Tale connessione è attuata proprio per mezzo dell’istituto del riporto delle perdite.

Tale istituto segna decisamente «il superamento della rigida

contrapposizione tra reddito fiscale e realtà economica che consegue al fittizio ed innaturale principio dell’autonomia degli esercizi» (134) (135), e

(133) Cfr. CROVATO F.,L’imputazione a periodo nelle imposte sui redditi, cit., pag. 26,nonché, Il riporto delle perdite, in L’imposta sul reddito delle persone fisiche, a cura di V. Uckmar e F. Tundo, Collana per la didattica coordinata da G. Visentini, 2003, vol. II, pag. 34. Sulla base di tali considerazioni, l’A. afferma che il riporto delle perdite «appare perciò come un “valore” che si giustifica alla luce dello stesso principio di capacità contributiva ed è espressione di un’esigenza sistematica, non di

una “graziosa concessione” del legislatore». In questi termini si esprime anche ZIZZO

G., Profili di incostituzionalità del regime dell’utilizzo delle perdite nelle imposte sul reddito, in Corr. Trib., 2007, fasc. 24, pag. 1987, nonché, Considerazioni sistematiche in tema di utilizzo delle perdite fiscali, in Rass. Trib., 2008, fasc. 4, pag. 931, il quale con riferimento all’IRPEF, afferma che la «segregazione delle perdite mina l’attendibilità» della misurazione del reddito complessivo «perché implica una ricostruzione del reddito complessivo basata sulle sole fonti che manifestano risultati positivi, seguendo una logica da prelievo reale e non da prelievo personale. Una ricostruzione distorta, proiezione di un reddito complessivo in tutto o in parte inesistente, secondo un metro di giudizio che è economico, ma è anche giuridico, perché desumibile dalla stessa legislazione in materia».

(134) Cfr. BACCHILEGA O.,Il reddito fiscale nell’impresa, 1976, Milano, pag. 263. (135) Cfr. GRIZIOTTI B., L’imposizione degli utili di impresa, in Riv. di Polit. Econ., anno XXXIX, serie III, fasc. VII-VIII, 1949, pag. 779. Secondo l’A., «le esigenze pratiche d’accordo con la logica delle imposte, sono favorevoli al ricupero delle imposte pagate sopra i profitti mediante compensazioni con le perdite. Sono, peraltro, da considerare le complicazioni, derivanti da variazioni nel potere d’acquisto della moneta, che non rendono facilmente confrontabili entità d’esercizi molto lontani nel tempo. Quindi l’ambizione di poter portare queste compensazioni fino alla liquidazione di un’impresa deve essere moderata dalle esigenze pratiche dell’amministrazione di evitare eventuali frodi fiscali con moltiplicazione delle perdite, da ripartire e compensare per un tempo indeterminato e calcoli laboriosi per un conguaglio monetario. Periodi di nove o sette anni anteriori o posteriori possono considerarsi praticamente adeguati a coprire il ciclo economico delle imprese». Osservava l’A. che

consente di avvicinare il reddito imponibile a quello (economico) effettivamente espresso dal ciclo produttivo in un arco temporale più ampio del singolo periodo d’imposta e di evitare imposizioni eccessive e sperequate, specie nel caso di sensibili fluttuazioni nell’andamento della società (136).

Non è un caso che l’istituto del riporto delle perdite ha fatto ingresso nel nostro ordinamento con la legge 5 gennaio 1956, n. 1 (137), con la quale, alla base dell’imposizione sull’attività delle imprese, è stato posto il reddito effettivo in luogo di quello ordinario continuativo (138) (139). Ed infatti tale legge se, da un lato, al comma 1 dell’art. 20

«le grandi fluttuazioni nei risultati degli esercizi mette in evidenza la assurdità dell’antico sistema … dell’autonomia dei bilanci fiscali, per la possibilità della differenza di condizioni fra due contribuenti che similmente abbiano compiuto tutto il ciclo di un’impresa senza profitti e perdite, ma che si siano trovati in diverse situazioni durante i singoli esercizi. Un contribuente, che in ciascun esercizio abbia chiuso sempre in pareggio il bilancio non avrà mai pagato un’imposta. L’altro contribuente, che abbia realizzato in alcuni esercizi profitti uguali alle perdite patite in altrettanti anni, avrà sopportato un carico fiscale assolutamente non dovuto, e soprattutto grave nel caso di imposta progressiva». Per tale ragione, sarebbe «interessante … consentire il ricupero dei disavanzi di un anno mediante compensi con i profitti di altri anni. In alcuni paesi si consente la detrazione per gli anni anteriori, ma in altri anche per quelli posteriori».

(136) Cfr. FANTOZZI A.,Le valutazioni dei beni delle società ai fini del bilancio e della dichiarazione dei redditi, in Dir. Prat. Trib., 1970, vol. XLI, I, pag. 840.

(137) Un precedente normativo che segnava il superamento del principio di autonomia del periodo d’imposta era rinvenibile anche nella legge 11 gennaio 1951, n. 25, con riguardo alle imprese in liquidazione. A riguardo si veda CARPENTIERI L., Riflessioni sulla mancata estensione del riporto delle perdite ai fini Ilor, cit., pag. 728.

(138) L’osservazione è di TESAURO F., Riporto delle perdite e la incostituzionalità della sua esclusione dall’imponibile Ilor, in Boll. Trib., 1988, fasc. 1, 1988, pag. 7. Come emerge dalla ricostruzione storica compiuta da tale A., la tassazione del reddito effettivo diviene un criterio fondante della tassazione delle imprese solo negli anni ‘50. In particolare, la legge 2 maggio 1907 n. 222, attribuiva rilevanza al reddito medio biennale che veniva assunto per quattro anni dall’anno in cui era stato accertato. Con la legge 7 agosto 1936, n. 1639, l’accertamento quadriennale fu sostituito con la tassazione della media del biennio precedente, ed il reddito imponibile doveva essere determinato tenendo conto solo dei redditi continuativi. Con la legge 17 luglio 1942 fu sospesa la revisione biennale mentre fu mantenuto il concetto di ordinarietà del reddito. Una ricostruzione storica dell’evoluzione del sistema sul reddito delle imprese verso il reddito effettivo è compiuta da GALLO F., Il dilemma reddito normale o reddito effettivo: il ruolo dell’accertamento induttivo, cit., pag. 463.

(139) Cfr. SASSI S., Il progressivo avvicinamento al concetto economico del reddito d’impresa: nella legislazione tributaria italiana, in Incontri con il Banco di

stabiliva che «i maggiori valori delle attività delle imprese, in qualsiasi

forma costituite, concorrono a formare il reddito imponibile nell’esercizio nel quale sono realizzati o distribuiti o iscritti in bilancio», dall’altro lato,

al comma 1 dell’art. 25, stabiliva altresì che «le società e gli enti

tassabili in base al bilancio hanno facoltà di portare l’ammontare della perdita di un esercizio in diminuzione del reddito degli esercizi successivi per non oltre un quinquennio … per la determinazione della perdita si applicano le norme relative all’accertamento dei redditi» (140).

Non è neppure un caso che in occasione della riforma degli anni ‘70, che avrebbe dovuto assumere quale principio fondante dell’imposizione sul reddito d’impresa quello della tassazione del «reddito effettivamente prodotto» (141), fu proposto di eliminare il vincolo

Roma. Il reddito d’impresa, Convegno di studi 10-12 dicembre 1973, Caserta, 1974, tomo III, pag. 195.

(140) La medesima facoltà era «concessa anche ai contribuenti non tassabili in base al bilancio, a condizione che gli accertamenti per i tre anni anteriori a quello in cui la perdita si è verificata siano stati eseguiti sulla scorta delle scritture contabili …. E che il medesimo sistema di accertamento venga seguito anche per gli anni per i quali è consentita la detrazione». Tale disposizione è poi stata trasfusa nell’art. 112 del Testo Unico di Ricchezza Mobile 29 gennaio 1958, n. 645, il quale prevedeva al comma 1 che «la perdita di un esercizio, determinata con le stesse norme valevoli per la determinazione del reddito, può essere portata in diminuzione dai redditi degli esercizi successivi, ma non oltre il quinto esercizio». Al comma 2 era poi previsto che «per i soggetti che si avvalgono della facoltà prevista dall’art. 104», e cioè quella di essere tassati in base al bilancio, «la disposizione del comma precedente si applica a condizione che si sia proceduto a tassazione in base al bilancio per i tre anni anteriori a quello in cui si è verificata la perdita e vi si proceda anche negli anni per i quali è consentita la compensazione».

(141) Com’è ben noto, per quanto attiene alla quantificazione del reddito d’impresa, l’art. 2, n. 13, del disegno di legge 1° luglio 1969, poi trasfuso al n. 16 dell’art. 2 della legge 9 ottobre 1971, n. 825, stabiliva che la «determinazione dei redditi derivanti dall’esercizio di imprese commerciali» doveva essere disciplinata «secondo criteri idonei al maggior possibile adeguamento del reddito imponibile a quello effettivamente prodotto e al soddisfacimento delle esigenze di efficienza, rafforzamento e razionalizzazione dell’apparato produttivo». In particolare, nella relazione illustrativa di tale disegno di legge, veniva specificato che «per le imprese commerciali (art. 2195 Cod. Civ.) viene stabilito anzitutto il principio che la determinazione dei redditi debba avvenire secondo criteri idonei al maggior possibile adeguamento del reddito imponibile a quello ‘effettivamente prodotto’ e al soddisfacimento delle esigenze di efficienza, rafforzamento e razionalizzazione dell’apparato produttivo. Si fa implicito rinvio, in tal modo, ai criteri e metodi indicati dalla economia aziendale nella determinazione del reddito d’impresa già rispecchiati, di massima, dagli artt. 91-113 del vigente Testo Unico delle Imposte Dirette e, insieme, alle direttive di sviluppo produttivo fissate dal programma economico

quinquennale al riporto delle perdite stabilito nel Testo Unico del 1958, «nell’ottica di avvicinare il reddito fiscale a quello economico, atteso che

il risultato emergente al termine di ciascun esercizio rappresenta solo la stima di un frammento della vita dell’impresa» (142).

Tuttavia, non può farsi a meno di rilevare la circostanza che il legislatore, accordando il riporto delle perdite, sembra guardare al reddito in una prospettiva temporale non più limitata al singolo periodo d’imposta, ma estesa ad un arco di tempo più ampio. Detta circostanza assume particolare significato sul piano sistematico, in quanto essa consente non solo di individuare nel concetto del possesso del reddito un attributo legato all’aspetto temporale, ma anche di affermare che, sotto tale aspetto, rileva un concetto di possesso allargato, e cioè non limitato al singolo periodo d’imposta (143). Tale conclusione appare

nazionale. La determinazione del reddito deve avvenire in base alle scritture contabili». Sul punto si veda MICHELI G.A.,Lineamenti della riforma tributaria, Torino, 1972, pag. 44, secondo cui il principio contenuto al n. 16 dell’art. 2 della legge 9 ottobre 1971, n. 825, recante la “Delega legislativa al Governo della Repubblica per la riforma tributaria”, dovrebbe «spingere il legislatore delegato all’adeguamento della legislazione tributaria alla legislazione civile ed al concetto di reddito elaborato dall’economia aziendale. Inoltre, gli emendamenti apportati all’originario testo del progetto governativo, dovrebbero indurre lo stesso legislatore ad andare molto più avanti di quanto disposto dagli artt. 91-113 del vigente T.U. ... oltre che nel senso dell’avvicinamento del reddito imponibile a quello economico … verso un effettivo accostamento dei concetti economici e civilistici a quelli tributari circa la competenza». Si veda a riguardo, DE ANGELIS F.,Il concetto di reddito d’impresa: suoi lineamenti, in Incontri con il Banco di Roma. Il reddito d’impresa, Convegno di studi 10-12 dicembre 1973, Caserta, 1974, tomo III, pag. 59.

(142) Fu questa la proposta avanzata dall’On. Usellini nell’ambito dei lavori della c.d. Commissione dei Trenta, il quale rilevava, inoltre, come fosse «difficilmente giustificabile l’apposizione di qualsiasi termine al riporto delle perdite, quanto invece detto riporto è sempre obbligatorio ai fini civilistici»., in Il Fisco, 1988, fasc. 10, pag. 1625.

(143) Cfr. CROVATO F., Riporto delle perdite ed operazioni straordinarie, in AA.VV., La fiscalità delle operazioni straordinarie d’impresa, a cura di R. Lupi e D. Stevanato, Milano, 2002, pag. 611, il quale ritiene che «la perdita attiene … alla determinazione del presupposto d’imposta, anche se non al presupposto del singolo periodo, ma ad un presupposto complessivo considerando un arco pluriennale di vita

dell’impresa». Tale concezione è rinvenibile anche in MICHELI G.A.,TREMONTI G.,voce

Obbligazioni (dir. trib.), in Enciclopedia del diritto, XXIX, Milano, 1979, pag. 418, i quali ritengono che i fatti che hanno incidenza sulla quantificazione dell’an e del quantum debeatur vanno riformulati «per includervene altri che non si collocano nello stesso àmbito temporale». Ad esempio, gli stessi AA. osservano come, allo scopo «di fare oggetto d’imposizione i redditi effettivi ... i sistemi tributari portano sempre più spesso temperamenti cospicui, permettendo il riporto delle perdite di un esercizio verso

coerente con quella concezione di possesso, generalmente accettata in dottrina, intesa come disponibilità di un reddito residuale netto (144). In

esercizi successivi … Ne consegue … il corollario che … il quantum e l’an debeatur non vengono definitivi con criterio di sufficienza dal presupposto, quale storicamente si è verificato nel periodo d’imposta, dovendosi piuttosto fare riferimento ad una fattispecie dalle più complesse componenti strutturali, e distribuita in uno spazio temporale più esteso».

(144) Cfr. POTITO E., Il sistema della imposte dirette, Milano, 1989, pag. 34 e pag. 283, secondo cui «la legge non intende colpire il reddito o l’insieme dei redditi disponibili in quanto tali, ma, come si desume dai criteri di determinazione della base imponibile … la capacità contributiva globale del soggetto che emerge da una più articolata valutazione, nell’ambito della quale le entrate costituiscono soltanto una componente. … Da tali considerazioni emerge che l’insieme dei redditi posseduti … costituisce soltanto l’oggetto della tassazione e che presupposto del tributo non è propriamente il possesso dei redditi, come si esprime l’art. 1, ma la disponibilità dell’insieme dei redditi del soggetto al netto delle perdite … cioè la disponibilità d’un reddito residuale netto».

Come rilevato da TOSI L.,La nozione di reddito, in AA.VV., Imposta sul reddito delle persone fisiche. Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, diretta da F. Tesauro, Torino, 1994, tomo I, pag. 44, in dottrina si ritiene che la nozione di possesso non deve essere intesa in senso civilistico, secondo il disposto dell’art. 1140 c.c., bensì come materiale e concreta disponibilità del reddito complessivo netto. Tale posizione è stata fatta propria anche dalla Corte Costituzionale laddove ha stabilito che la legge, per essere conforme alla Costituzione, deve stabilire norme «per le quali il possesso dei redditi si sostanzi nella libera disponibilità di essi» (così, Corte Cost., sent. 15 luglio 1979, n. 176). Sul punto si veda, MICHELI G.A.,Corso di diritto tributario, cit., pag. 371, MICCINESI M., L’imposizione su redditi nel fallimento e nelle altre

procedure concorsuali, Milano, 1990, pag. 82; FEDELE A., «Possesso» di redditi,

capacità contributiva ed incostituzionalità del «cumulo», in Giur. Cost., 1976, I, pag. 2163. La medesima posizione è condivisa anche tra gli aziendalisti da BERGAMIN BARBATO M., Reddito imponibile e risultato economico di gestione: sancita la diversità o avvicinate le posizioni?, in Riv. Dott. Comm., 1987, anno XXXVIII, fasc. 5, pag. 835, secondo cui «il possesso … sta ad indicare alcuni requisiti che, sotto il profilo economico, i redditi dovrebbero possedere. Innanzi tutto si dovrebbe trattare di redditi effettivamente conseguiti e non di valori di natura meramente contabile poiché questi ultimi sono finzioni derivanti da tecniche di registrazione. Non è possibile che il “possesso” si applichi a delle “rappresentazioni contabili” prive di contenuto economico».

Nella dottrina tributaria, tuttavia, vi è anche chi ritiene che il possesso deve essere inteso nell’accezione civilistica desumibile dall’art. 1140 c.c., e cioè come potere sulla cosa corrispondente all’esercizio della proprietà o di un altro diritto reale. In questo senso, il possesso, consistente nel diritto di godere e/o di disporre, dovrebbe essere riferito, a seconda dei casi, ad una somma di denaro, ad un complesso dei beni organizzati per l’esercizio dell’impresa, ad un immobile (propendono per la valenza civilistica del possesso, GALEOTTI FLORI M.A.,ACCIAI S., FAZZINI E.,TANINI F.,I tributi in Italia, Padova, 1988, pag. 145. In particolare, secondo

particolare, se il reddito costituisce l’indice di capacità contributiva, la nozione di possesso da assumere è quella che consente di sottoporre all’imposta il soggetto che risulta essere l’effettivo titolare di tale capacità di concorrere alle spese pubbliche (145). In tale prospettiva, deve ritenersi che il possessore del reddito è colui che non solo è in grado «di contribuire, mediante una propria manifestazione di volontà,

all’esistenza materiale o giuridica del reddito» (146), ma altresì abbia l’effettiva disponibilità di tale reddito che, ove mancante, non entra nel patrimonio del soggetto e non rappresenta ricchezza nuova (147).

Inoltre, assumere una prospettiva più ampia del singolo periodo d’imposta nella valutazione del presupposto consente di poter assecondare la causalità con cui si manifesta il reddito e, di conseguenza, di prevenire situazioni potenzialmente inique e discriminatorie sotto il profilo non solo tributario ma anche economico (148). Invero, l’attività di impresa si caratterizza per ricavi e costi che non sono univocamente e definitivamente attribuibili ai singoli periodi d’imposta, ma generano un «flusso continuo di entrate e di uscite che si

GALEOTTI FLORI M.A.,Il possesso di redditi nell’ordinamento dei tributi diretti. Aspetti particolari, Padova, 1983, pag. 106, a proposito di possesso, «il riferimento al reddito netto o al suo momento dinamico non sembra pertinente, perché concerne la quantificazione dell’imponibile e non l’oggetto del possesso».

Alla concezione civilistica è stato obiettata la sua sola riferibilità a quei redditi che si sostanziano in somme di denaro, posto che essa non è adattabile ai redditi d’impresa e di lavoro autonomo, in larga misura determinati in modo convenzionale, né a quelli fondiari determinati catastalmente (così, TOSI L.,La nozione di reddito, cit., pag. 45).

La Corte Costituzionale sembra invece non condividere la tesi secondo cui l’intento del legislatore costituzionale sarebbe quello di fare sì che ogni cittadino diventi contribuente in relazione non al reddito e quindi alla ricchezza prodotta ma a quello di cui abbia la libera disponibilità (cfr. Corte Cost., sent. 14 luglio 1983, n. 134). A questo riguardo ved. MARONGIU G., Il principio di capacità contributiva nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, cit., pag. 20.

(145) Cfr. TOSI L.,La nozione di reddito, cit., pag. 46.

(146) Così, TINELLI G.,Il reddito d’impresa nel diritto tributario, cit., pag. 57. (147) Cfr. TOSI L., La nozione di reddito, cit., pag. 47, il quale ritiene «in definitiva che la locuzione “possesso di redditi” va interpretata attribuendo al possesso un significato coerente con le norme tributarie, in primo luogo con l’art. 53 Cost., intendendolo come relazione diretta ed immediata con la “causa produttiva” e come disponibilità libera ed effettiva del reddito».

combinano tra loro in modo più complesso dal punto di vista temporale»

(149).

A questo riguardo si ritiene che il riconoscimento delle perdite è, per certi versi, riconducibile anche all’esigenza di tener conto della circostanza che la correlazione tra costi e reddito può avere una manifestazione molto ampia dal punto di vista temporale (150). A ben vedere, infatti, nell’ambito dell’attività di impresa possono aversi costi aventi una stretta relazione di tempo con il reddito prodotto (rectius, con i relativi ricavi lordi) e costi per il quali, invece, tale relazione è molto più ampia o addirittura indefinibile, come nel caso delle spese relative ad atti od operazioni propedeutiche e preliminari all’attività imprenditoriale. Senonché, è evidente che l’imposizione sui redditi non può dare piena rilevanza a tale fenomeno, in quanto, in caso contrario, per stabilire il momento in cui far concorrere un componente di reddito alla formazione dell’imponibile occorrerebbe di volta in volta ricercare il rapporto di causalità fra i costi e ricavi. Di fatto, tale ricerca comporterebbe una rinuncia all’imposizione dei redditi, in quanto, come osservava il QUARTA, «sarebbe una ricerca indefinita; un lavorio senza

norma né termine, e che nel maggior numero dei casi metterebbe le Finanze nell’impossibilità di applicare l’imposta». Tuttavia, è pure vero

che affinché il risultato reddituale sia valutato in maniera obiettiva, è

(149) Così, DE MITA E., Fisco e Costituzione. I 1957-1983, Milano, 1984, pag. 882, il quale ritiene dunque che occorre «temperare la regola della autonomia del debito tributario, discendente dalla periodicità, con delle norme che tengano conto della continuità dell’attività economica. L’esigenza di pervenire facilmente alla determinazione del debito d’imposta deve conciliarsi con l’effettività e la complessità della attività economica».

(150) L’osservazione è ripresa da GIORGETTI A., La tassazione del reddito d’impresa, cit., pag. 243, il quale si sofferma sulla «influenza che il tempo» nell’erogazione e nell’impiego delle spese deducibili. In particolare, l’A. osserva che «le spese e i costi d’impresa, rispetto al tempo del loro verificarsi, necessitano, in sede tributaria, di una preliminare distinzione non assoluta … ma di cui non si può non tener conto, se si desidera pervenire ad un concetto, per quanto possibile, esauriente, dei caratteri fiscali che devono possedere gli oneri deducibili. Nella gestione d’impresa

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