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Il problema del reddito effettivo

1. P REMESSA

2.1. S ULLA FUNZIONE DEL RIPORTO DELLE PERDITE NELL ’ AMBITO DEL REDDITO

2.1.2. Il problema del reddito effettivo

La scelta di basare la tassazione del reddito d’impresa sul reddito prodotto, espresso dal bilancio d’esercizio, pone evidentemente un problema di effettività del reddito sottoposto ad imposizione.

Prima di addentrarci nell’analisi di tale problema, occorre tuttavia «sdrammatizzare» (108) i termini della questione, osservando come la

Riv. It. Dir. Fin., cit., pag. 12; GIUSSANI B., Contributo alla precisazione del concetto di reddito giuridico di reddito mobiliare, in Riv. Ital. Dir. Fin., 1941, anno V, I, pag. 97; GIARDINA E.,Le basi teoriche del principio della capacità contributiva, Milano, 1961; pag. 141; FALSITTA G.,Le plusvalenze nel sistema d’imposta mobiliare, Milano 1966, pag. 65; D’AMATI N.,La teoria del reddito tra dogmatismo e problematicità, in Dir. Prat. Trib., 1969, vol. XL, I, pag. 289; ID., Definizione legislativa del concetto di reddito imponibile, in Arch. Fin., 1964, pag. 21, ID., La progettazione giuridica del reddito, Padova, 1975, serie I, vol. XL; PUOTI G., Riflessioni sulla definizione giuridica di

reddito, in Riv. Dir. Fin. Sc. Fin., 1976, vol. XXXV, I, pag. 271;CICOGNANI A.,Ancora

sulla nozione fiscale di reddito d’impresa, in Riv. Dir. Fin. Sc. Fin., 1980, vol. XXXIX, vol. I, pag. 294; L’imposizione del reddito d’impresa, Padova, 1980, pag. 5; RINALDI R., L’evoluzione del concetto di reddito, in Riv. Dir. Fin. Sc. Fin., 1981, vol. XL, I, pag. 401.

(106) Cfr. FANTOZZI A.,Le valutazioni dei beni delle società ai fini del bilancio e della dichiarazione dei redditi, in Dir. Prat. Trib., 1970, vol. XLI, I, pag. 841.

(107) Così, FANTOZZI A.,Le valutazioni dei beni delle società ai fini del bilancio e della dichiarazione dei redditi, cit., pag. 841.

(108) L’espressione è tratta da BASCIU A.F.,La partecipazione del cittadino alla fase di attuazione della norma tributaria, 1975, ed. provv., pag. 48, il quale, pur essendo ben consapevole della «non univocità della realtà che si vuole esprimere

scelta di prendere a riferimento dell’imposizione il risultato d’esercizio non comporta di per sé l’impossibilità di considerare il reddito come effettivo. Il legislatore tributario, infatti, sebbene sia consapevole che il reddito di esercizio è una pura astrazione in quanto, dal punto di vista economico, l’utile o la perdita di qualsiasi attività imprenditoriale possono essere determinati con esattezza e precisione esclusivamente nel momento in cui l’attività stessa è giunta alla sua conclusione, non si disinteressa del reddito effettivo. Tuttavia, tale effettività deve essere concepita non già come espressione di un dato suscettibile di trovare puntuali riscontri nella realtà materiale, bensì come espressione di un «dato che, secondo un certo sistema normativo, è il reddito che deve

intendersi essere stato prodotto o percepito in un determinato periodo di tempo; in altri termini, per l’operatore del diritto, il reddito effettivo è e non può che essere quel dato che risulta da una corretta applicazione delle regole che, secondo le insindacabili valutazioni del legislatore, sono state dettate per determinarlo» (109) (110).

allorchè si parla di reddito d’esercizio», ritiene che «il reddito netto cui l’ordinamento attribuisce rilevanza è comunque un dato che, sia pure entro certi limiti ed entro certi margini di approssimazione, riflette il più delle volte un incremento patrimoniale effettivo, se non altro perché, nella grande maggioranza delle ipotesi, molti degli elementi sulla cui base lo si determina possono essere rilevati con precisione quasi assoluta». Secondo l’A., dunque, il «reddito prodotto è un dato che può e deve essere determinato con specifico riferimento ad ogni singolo contribuente» e «la sua minore o maggiore aderenza alla realtà non fa in alcun modo venir meno il fatto che, una volta che lo si sia determinato applicando correttamente le regole dettate dal legislatore, il reddito netto è un dato da accertare e non … un dato da stimare o da valutare». In senso contrario sembra esprimersi invece RUSSO P., Diritto e processo nella teoria dell’obbligazione tributaria, Milano, 1969, pag. 300, il quale assume che la determinazione del reddito netto presupporrebbe una «valutazione del risultato finale della gestione» e, quindi, in sostanza, una stima, fondata sulla situazione economica dell’azienda.

(109) Cfr. BASCIU A.F.,Riflessioni in margine alle c.d. questioni di fatto relative a valutazioni estimative, in Riv. Dir. Fin. Sc. Fin., 1978, vol. XXXVII, I, pag. 672. CECCHERELLI A.,Rapporti fra reddito contabile e reddito fiscale, in Archivio Finanziario, 1950, vol. I, pag. 73.

(110) A questo riguardo si ritiene conferente citare l’efficace osservazione di GALLO F., Il dilemma reddito normale o reddito effettivo: il ruolo dell’accertamento induttivo, in Rass. Trib., 1989, anno XXXII, fasc. 10, pag. 462, secondo cui «il reddito non è una realtà ontologica preesistente al dato normativo, ma … un dato costruito secondo scelte (del legislatore) che non considerano sempre nello stesso modo e nella stessa misura le effettive caratteristiche economiche dei fenomeni. Nella trasposizione normativa del fenomeno-reddito l’unica situazione reale ed effettiva è quella descritta dalla norma fiscale e presuppone delle scelte empiriche del legislatore che si pongono volta per volta tra i due estremi della medietà e dell’effettività

Su queste considerazioni si fonda la concezione secondo cui, dal punto di vista tributario, «il reddito di periodo è un dato puramente

convenzionale, elaborato in funzione di particolari esigenze» erariali

(111) (112).

Tale concezione trova, inoltre, un suo fondamento nell’ulteriore considerazione che, nell’ambito di un medesimo sistema positivo, possono coesistere norme che, pur avendo ad oggetto la medesima fattispecie (ad esempio, il reddito d’esercizio), presentano un diverso

(tendenziale), e, perciò, si ispirano ora all’uno ora all’altro principio». Dello stesso A. si veda, GALLO F., Ancora sulla questione reddito normale-reddito effettivo: la funzione degli studi di settore, in Il Fisco, 2000, fasc. 25, pag. 8613. A riguardo si veda anche GLENDI C.,La nozione di reddito fiscale, in AA.VV., Il reddito d’impresa nel nuovo testo unico, Padova, 1988, pag. 127, il quale ritiene che «l’unica nozione di reddito possibile è quella “nominalistica” secondo cui è reddito tutto ciò che viene normativamente qualificato come reddito». A questo proposito appare conferente richiamare l’affermazione di MAZZA G.,Il bilancio di esercizio e la dichiarazione dei redditi, in Il bilancio di esercizio. Problemi attuali, Milano, 1997, pag. 293, secondo cui il prelievo tributario avviene attraverso la tassazione di un reddito «che si conviene per prodotto, non in reddito che si “ritiene” prodotto dalla gestione d’impresa».

(111) Cfr. BASCIU A.F.,Riflessioni in margine alle c.d. questioni di fatto relative a valutazioni estimative,cit., pag. 672. A questo riguardo GIANNINI (A.D.),osservava che il reddito «assume … quelle più precise e specifiche caratteristiche che gli sono impresse dal diritto tributario» e che, quindi, «il fatto economico fornisce soltanto il nucleo sostanziale, ma grezzo, del concetto di reddito imponibile, la cui precisazione e delimitazione non possono essere date se non dall’analisi delle norme tributarie» (così, GIANNINI, A.D., Istituzioni di diritto tributario, Milano, 1968, pag. 361). In proposito si veda anche GALLO F., Il dilemma reddito normale o reddito effettivo: il ruolo dell’accertamento induttivo, cit., pag. 460, secondo cui «anche il reddito contabile è un reddito per cosi dire “convenzionale”» in quanto «esso si fonda su valori in gran parte forfetizzati per ragioni di politica fiscale o su semplificazioni contabili o, comunque, su valutazioni non sempre aderenti pienamente alla realtà economica: è cosa ben risaputa che nel sistema del reddito d’impresa il riferimento alle scritture contabili non può garantire la veridicità in quanto il valore che ne risulta non è né congetturale né reale, bensì un mero valore risultante da “atti” seppure qualificati». Secondo lo stesso A., «paradossalmente, la convenzionalità del reddito è più ridotta nel sistema di determinazione del reddito delle imprese minori, dove le cosiddette valutazioni convenzionali (rimanenze, ammortamenti) sono assai poco significative».

(112) Come osservato da CICOGNANI A.,Il principio di competenza nel T.U. con particolare riguardo all’art. 75., 1°, 2°, 3° comma, in AA.VV., Il reddito d’impresa nel nuovo testo unico, Padova, 1988, pag. 577, il reddito effettivo «non esiste … esso è un’araba fenice (Capaccioli) o un fantasma (Einaudi); esso è però sicuramente un dato convenzionale che dovrebbe tendere … ad un progressivo avvicinamento al reddito economico, cioè a quello determinato secondo le regole aziendalistiche e … nel rispetto delle norme di diritto civile».

contenuto in quanto è differente la funzione che, con riguardo a ciascuna norma, la fattispecie è chiamata ad assolvere. Cosicché, «appare perfettamente naturale che le norme che disciplinano la

determinazione del reddito ai fini della distribuzione degli utili abbiano contenuto diverso da quello delle norme dettate per determinare la base imponibile ai fini dell’applicazione delle imposte sul reddito» (113).

Del resto, già nell’ambito dei lavori preparatori della riforma fiscale degli anni ‘50, COSCIANI ebbe modo di osservare che «il primo

problema che sorge per le imprese e che determina una spinta all’evasione, o quanto meno costituisce una giustificazione di tale fenomeno … è la discordanza tra il concetto di reddito aziendale e quello fiscale» (114).

Secondo l’autorevole studioso, detta discordanza non è imputabile ad una difformità nell’applicazione delle disposizioni di legge da parte del contribuente e dell’Amministrazione Finanziaria, bensì alla stessa legge. Al di fuori dei casi patologici, infatti, il bilancio redatto secondo la più stretta osservanza delle disposizioni del Codice Civile e, quindi, in conformità con i dettami economici, non soddisferebbe le esigenze erariali per quanto attiene al risultato reddituale rappresentato (115). Com’è ben noto, infatti, mentre la norma civilistica si preoccupa di tutelare «il terzo, il creditore, e, quindi, cerca di rafforzare al massimo il

patrimonio dell’azienda», quella tributaria guarda all’«interesse del partecipante ai profitti, e quindi si preoccupa del reddito dell’esercizio»

(113) Così, BASCIU A.F.,Riflessioni in margine alle c.d. questioni di fatto relative a valutazioni estimative, cit., pag. 673, il quale a questo proposito ricorda che «le differenze tra le due categorie di norme», civilistiche e fiscali, «sono da ricondursi, da un lato, all’esigenza di impedire la distribuzione di utili non realmente conseguiti e, dall’altro, all’esigenza – in qualche modo opposta – di non sottrarre utili alla

tassazione». A questo proposito, TINELLI osserva che nella «trasformazione del fatto in

diritto può … presentarsi l’ipotesi in cui il fatto già risulti disciplinato da norme giuridiche, per finalità non necessariamente coincidenti con quelle proprie del diritto tributario» (così, TINELLI G.,Il reddito d’impresa nel diritto tributario, cit., pag. 12).

(114) Così, COSCIANI C.,Stato dei lavori della Commissione per lo studio della riforma tributaria, Milano, 1964, pag. 111.

(115) Secondo COSCIANI C.,infatti, «un bilancio redatto secondo le norme fiscali corrisponderebbe al bilancio di esercizio secondo i criteri economici e giuridici generali solo nel caso che tutti i costi siano stati tradotti in ricavi espressi in valori numerari; nel caso quindi che la gestione sia arrivata alla sua definitiva conclusione» (così, COSCIANI C.,Stato dei lavori della Commissione per lo studio della riforma tributaria, cit., pag. 111).

(116). Pertanto se, da un lato, la norma civilistica detta criteri ispirati al principio di prudenza (117) e pone dei limiti massimi alla valutazione dei vari elementi patrimoniali dell’attivo, dall’altro lato, quella tributaria «tende invece ad impedire che l’imprenditore vada al disotto di limiti

minimi, cioè svaluti il proprio patrimonio» (118).

La divergente impostazione tra la prospettiva civilistica e quella tributaria si appalesa per quanto attiene, ad esempio, le riserve.

Dal punto di vista civilistico, e prima ancora economico, la riserva, salvo i casi patologici di occultamento degli utili, è strumentale all’autofinanziamento dell’impresa, costituendo una sorta di risparmio forzato a carico degli azionisti, risparmio che costoro possono comunque realizzare, ad esempio, all’atto di scioglimento della società (119).

Dal punto di vista tributario, invece, la riserva assume rilevanza immediata agli effetti impositivi in quanto lo «scopo principale delle

norme fiscali è quello di evitare lo spostamento di utili da un esercizio all’altro» (120).

(116) Così, COSCIANI C.,Stato dei lavori della Commissione per lo studio della riforma tributaria, cit., pag. 111.

(117) Che infatti viene anteposto al principio di competenza a riguardo si veda, SAVIOLI G.,Verità e falsità nel bilancio d’esercizio, Torino, 1998, pag. 115.

(118) Così, COSCIANI C.,Stato dei lavori della Commissione per lo studio della riforma tributaria, cit., pag. 111. A riguardo si veda anche AMADUZZI A., Struttura e temporalità del reddito di impresa, Bari, 1987, il quale pone in evidenza come la «norma tributaria è più dogmatica, tende ad evitare indeterminazioni che possano prestarsi ad evasioni di imposta», mentre «la norma civilistica, ispirata a criteri di prudente salvaguardia della integrità del capitale dell’impresa, e degli interessi dei vari tipi di finanziatori, propone criteri che evitino sopravvalutazioni consentendo rinvio ad anni successivi di date misure di utili latenti».

(119) In questo senso si esprime, COSCIANI C., Stato dei lavori della Commissione per lo studio della riforma tributaria, cit., pag. 112, secondo cui «con la destinazione degli utili a riserva, l’azionista trasforma il reddito in risparmio». Anche nella dottrina tributaria è stato autorevolmente osservato che l’utilizzo delle riserve «costituisce uno dei criteri fondamentali del bilancio commerciale preoccupandosi gli amministratori di stabilizzare il reddito nonostante le fluttuazioni economiche» (così, FANTOZZI A., Le valutazioni dei beni delle società ai fini del bilancio e della dichiarazione dei redditi, in Dir. Prat. Trib., I, 1970, pag. 841).

(120) Così, FANTOZZI A.,Le valutazioni dei beni delle società ai fini del bilancio e della dichiarazione dei redditi, cit., pag. 840. Peraltro, come osservava COSCIANI «l’esenzione del risparmio non è ammessa in via di principio come base della nostra

tassazione diretta» (così COSCIANI C.,Stato dei lavori della Commissione per lo studio

della riforma tributaria, cit., pag. 112). Con riguardo all’imposta di ricchezza mobile, ZAPPA G. osservava che essa «colpisce i redditi, facendo astrazione dalla

Ancora, la diversità esistente tra la prospettiva civilista e quella fiscale si percepisce anche osservando la disciplina in tema di valutazioni dei cespiti.

Dal punto di vista civilistico, infatti, tali valutazioni devono essere compiute nel rispetto del principio di prudenza, al fine di garantire che il capitale dell’impresa resti immutato, conservando il medesimo stato di efficienza e che esistano sufficienti accantonamenti per far fronte ad oneri e rischi prevedibili o imprevisti.

Dal punto di vista fiscale, invece, esistono principi più restrittivi per i quali la valutazione dei cespiti, il riconoscimento di plus e minusvalenze, le spese, le perdite sono determinate tassativamente sulla base di criteri che rispondono più ad esigenze di certezza e chiarezza che non di aderenza alla realtà economica (121).

La differenza tra le due prospettive in esame è percepibile inoltre per quanto attiene proprio alle perdite d’esercizio.

Da punto di vista civilistico, infatti, la perdita oltre a rappresentare un risultato di esercizio assume rilievo sul piano patrimoniale in quanto esprime la potenziale inidoneità dell’impresa a remunerare adeguatamente il capitale investito il quale, se intaccato dalle perdite oltre una determinata soglia, deve essere reintegrato dai soci.

destinazione loro, nell’atto stesso in essi si producono» (così, ZAPPA G.,Le valutazioni di bilancio, cit., pag. 56). Sul punto si veda anche ROSSI,il qualeosserva come «i giuochi delle riserve rischierebbero infatti di togliere all’imposizione una parte, e sovente la più rilevante, dei profitti, che difficilmente potrebbero poi essere colpiti» (così, ROSSI G.,Utile di bilancio riserve e dividendo, Milano, 1957, pag. 238). A questo proposito si veda anche COBAU O., Aspetti fiscali nella determinazione del reddito d’impresa, in Dir. Prat. Trib., 1974, I, pag. 298, secondo cui «per il diritto commerciale, nulla impedisce all’imprenditore, in conformità al principio di una prudente valutazione, di presentare in bilancio una situazione meno florida di quanto in realtà sia, il fisco ha, invece, un preciso interesse a non ammettere che utili attuali vengano rinviati a esercizi futuri». Si veda a riguardo anche CERIANI V.,Il reddito d’impresa tra bilancio e principi contabili, in AA.VV., Il reddito d’impresa tra norme di bilancio e principi contabili, a cura di R. Rinaldi, collana Quaderni di Giurisprudenza Commerciale, Milano, 2004, pag. 101, secondo cui «esiste una “tensione” fra il bilancio civilistico e il bilancio fiscale: vi è un’ovvia comprensibile inclinazione a rappresentare agli azionisti una certa “verità”, al fisco un’altra, generalmente meno positiva della prima».

(121) Cfr. FANTOZZI A.,Le valutazioni dei beni delle società ai fini del bilancio e della dichiarazione dei redditi, cit., pag. 841. Per un esame delle differenze tra la prospettiva civilistica e quella tributaria in materia di accantonamenti si veda, DELLA VALLE E.,Gli accantonamenti per rischi e oneri, in AA.VV., Il reddito d’impresa, a cura di G. Tabet, Padova, 1997, pag. 279.

Da un punto di vista fiscale, invece, la perdita assume rilievo sul piano reddituale in quanto, come si vedrà, è un elemento necessario di commisurazione del reddito su base pluriennale.

In tale delineato contesto diviene essenziale il momento della «qualificazione giuridica della fonte reddituale», in quanto, in detto momento, occorre valutare la coerenza della definizione di reddito assunta con le esigenze tributarie e, quindi, «collegare ad un fenomeno

della realtà empirica una serie di conseguenze fiscali suscettibili di essere verificate in relazione al più ampio bilanciamento di interessi ruotante attorno al prelievo tributario» (122).

La suddetta qualificazione, ovviamente, assume come dato di partenza «la sostanza economica del reddito di impresa, intesa come

espressione di forza economica periodicamente derivante da un’attività produttiva, determinata quantitativamente secondo le regole dell’esperienza fatte proprie dalle scienze economiche» (123).

Tuttavia, la forza economica espressa da un’attività produttiva non costituisce solo il punto di partenza su cui costruire la nozione di reddito, ma rappresenta anche il parametro per valutare la coerenza di tale nozione (124). Ed infatti, una nozione di reddito non espressiva del fenomeno economico sarebbe in contrasto con il principio di capacità contributiva, in quanto tale principio se, da un lato, non impone al legislatore di «considerare la capacità contributiva complessiva del ciclo

vitale del contribuente» (125), dall’altro lato, esige che l’imposizione ricada effettivamente sul presupposto assunto dal legislatore come presupposto dell’imposizione stessa. Invero, l’attitudine alla contribuzione emerge dal collegamento effettivo tra la prestazione imposta e il presupposto economico considerato (126), collegamento che presuppone prima di tutto che la somma richiesta a titolo di imposizione sia parte della ricchezza considerata e che vi sia inoltre proporzionalità fra l’una e l’altra. Pertanto, in dottrina si è sostenuto che, nel nome del principio dell’effettività, il predetto collegamento «impone che la

capacità contributiva venga tassata al netto dei costi sostenuti per

(122) Così, TINELLI G.,Il reddito d’impresa nel diritto tributario, 1991, Milano, pag. 12.

(123) Cfr. TINELLI G.,Il reddito d’impresa nel diritto tributario, cit., pag. 14. (124) Cfr. TINELLI G.,Il reddito d’impresa nel diritto tributario, cit., pag. 14. (125) Così, CROVATO F., L’imputazione a periodo nelle imposte sui redditi, cit., pag. 21.

(126) Cfr. BORIA P.,Il bilanciamento di interesse fiscale, in Diritto tributario e Corte Costituzionale, a cura di L. Perrone e C. Berliri, Napoli, 2006, pag. 58.

produrla» (127). Ed infatti, come è stato statuito anche dalla Corte Costituzionale, «allorquando il valore del bene viene calcolato in base

alla differenza fra attivo e passivo si ottiene un imponibile reale, corrispondente cioè alla effettiva consistenza economica; in caso diverso si ha imponibile fittizio» (128).

Senonché, agli effetti della presente indagine, si pone il problema di stabilire se il suddetto collegamento deve sussistere anche sotto il profilo temporale (129) (130). In particolare, occorre capire se e in che

(127) Così, TOSI L.,Il requisito di effettività, in AA.VV., La capacità contributiva, a cura di F. Moschetti, Padova, 1993, pag. 128.

(128) Così, sent. 23 giugno-12 luglio 1965, n. 69. Il rispetto del principio di capacità contributiva impone che il prelievo tributario si applichi su un “imponibile reale, corrispondente cioè alla effettiva capacità economica” e non su un “imponibile fittizio” (così, in materia di imposta di successione Corte Cost. n. 69 del 1965). A tale riguardo, si veda MARONGIU G., Il principio di capacità contributiva nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, in Dir. Prat. Trib., vol. LVI, 1985, I, pag. 6. Di recente la Corte Costituzionale è stata chiamata nuovamente a pronunciarsi della problematica in esame, laddove è stata investita della questione di legittimità costituzionale, con riferimento al principio di ragionevolezza e di capacità contributiva, del divieto di deducibilità dell’IRAP dall’imponibile IRES sancito dal comma 2 dell’art. 1 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446. Tuttavia, la Corte non ha più avuto modo di pronunciarsi nel merito della questione così sollevata, in ragione della sopravvenuta deducibilità, parziale e poi integrale, dell’IRAP dall’imponibile IRES, stabilita, rispettivamente, dal comma 1 dell’art. 6 del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, e dal comma 1 dell’art. 2 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla decreto-legge 22 dicembre 2011, n. 214. Ed infatti, la Corte, quando ha esaminato per la prima volta tale questione, si è limitata a constatare lo ius superveniens recato dall’art. 6 del

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