Capitolo III° : La struttura del patrimonio nel
3. La gestione delle proprietà nel contesto politico e socio economico
L’evidenza del miglioramento dei fondi destinati alla coltura avvenuto nel corso dei 44 anni159, almeno in termini generali, sembra andare in controtendenza con la caratteristica del periodo storico contrassegnato come “Lungo Seicento”, nel quale a causa della diminuzione della domanda di derrate agricole, indotta dal decremento
che doveva tenere il gastaldo e la necessaria equanimità nei diversi e complessi rapporti con i salariati. Risultava al riguardo che il gastaldo “doveva di giorno in giorno registrare distintamente tute le opere de mercenari et a que lavoro impiegati, così che apparisca chiara la sua amministrazione e pagar con pontualità le mercedi”, seguita spesso da raccomandazioni del proprietario, del tenore “siccome il vero gastaldo non deve avere partialità per chi si sia et essere assiduo al suo impiego, non s’ingerisca ne in faccende di comunità, ne di compagnie laiche, ne in compareghi che in tal maniera non avrà di straccioni ne parzialità”. Una figura quella del gastaldo che a capacità operative ed organizzative doveva unire doti morali, attraverso le quali il proprietario poteva riversare la sua piena fiducia. Il suo compito quindi esulava dal lavoro materiale dei campi, mansione che spettava ai boari e ai braccianti, A. Dal Moro, Proprietà e impresa, op. cit., pag. 164
157 Delle figure del boaro e del bracciante tratteremo in modo più approfondito, quando analizzeremo lo sviluppo dell’analisi diacronica, nel Cap VI pag. 450.
158 A tale proposito Werner Sombart nella sua analisi sulle forme fondamentali dell’impresa, dopo averne elencato la tipologia, costituita dalle compagnie di ventura, dalla proprietà terriera, dallo Stato e dalla chiesa, rilevava rispetto a quest’ultima, quanto segue: “Nomino qui la chiesa perché essa rappresenta, accanto allo Stato, la più grande organizzazione creata dall’uomo; perché in essa è specialmente forte il deciso elemento razionale caratteristico di ogni impresa e perché la storia insegna che un vasto spirito d’impresa è emanato dai capi della organizzazione ecclesiastica. Concepire la chiesa in toto quale un’impresa, non sarebbe forse un’idea felice, ma nella sua compagine sono nate numerose imprese nello stretto senso del termine: ogni fondazione di monastero o convento segue in sostanza lo stesso procedimento della fondazione di una filanda di cotone o di una ditta bancaria”, W. Sombart, Il borghese. Lo sviluppo e le fonti dello spirito capitalistico, Longanesi, Milano 1983, pag. 48-49.
159 Si potrà giustamente obiettare che l’incremento dei terreni coltivabili tra i due anni risultava piuttosto contenuto, nello specifico 14 fondi, ma quello che si vuole evidenziare è la valenza di questa crescita, rispetto alla situazione economica complessiva del periodo.
demografico, molti proprietari terrieri si videro costretti a ridurre il terreno coltivabile, a favore di fondi destinati al pascolo, oppure da mantenere esclusivamente a prato. Controtendenza, che contraddistinse in generale tutto il clero come evidenzia Fiorenzo Landi, per il quale seppur in presenza di un periodo di grave crisi, le istituzioni religiose mostrarono una significativa crescita economica, che porta a chiedersi, come e perché, in un simile contesto fatto di straordinarie difficoltà, gli enti religiosi siano riusciti non solo a difendersi, ma, anche a rilanciare le loro fortune. Se si analizzano le denunce dei beni del clero relative a monasteri e conventi dell’Italia Centro Settentrionale alla metà del Seicento emergono, risultati tendenzialmente positivi e questo nonostante l’elenco interminabile di invasioni e spoliazioni militari, incendi, devastazioni, perdite di raccolti, carestie ed epidemie pestilenziali, che si venivano a tradurre in enormi debiti e mancate rendite. A seguito di questi assunti risulta estremamente difficile immaginare il superamento di queste situazioni, senza pensare, che dietro non vi fosse una solida efficienza organizzativa e gestionale, oltre ad un adeguato supporto finanziario160.
A tutto questo si devono aggiungere anche i soprusi a cui il clero è stato sottoposto sia dagli stati che dalla nobiltà, come nel caso della “gestione in commenda”, che rendeva ancora più pesante, la dipendenza delle istituzioni religiose, da interessi estranei alle ragioni e allo spirito ecclesiastico161.
L’insieme di queste gravi difficoltà del clero erano avvertite, in modo ancora più accentuato nella Repubblica di Venezia, in quanto la stessa svolse un ruolo di indirizzo e condizionamento della vita del clero regolare più pesante di quanto avvenisse negli altri stati italiani, soprattutto a causa della funzione che lo stato esercitava nella difesa dell’Occidente dal pericolo turco162.
Fin dal 1232, quando i monasteri veneziani erano solo poche unità, la città emanò norme per impedire la successione nell’eredità familiare a chiunque fosse entrato in un
160 F. Landi, Storia economica del clero, op. cit., pag. 39.
161 Della commenda abbiamo già evidenziato le caratteristiche nella nota 5 a pag. 20.
Le commende avevano fatto la prima comparsa nel Trecento per poi affermarsi in maniera generalizzata nel Quattrocento. I beneficiari erano per lo più ecclesiastici di alto rango, spesso “dell’entourage” romano della famiglia papale, provenienti dai cadetti della nobiltà.
Le famiglie nobili, talvolta istituivano dei veri e propri patronati, che consentivano di inserire nello stesso monastero i loro rappresentanti in maniera pressoché esclusiva per decenni. La “commenda, vipera che sbrana le viscere di madre chiesa exterminans spiritualia et devorans temporalia”, rappresentava lo strumento di subordinazione più pesante e sistematico dei monasteri, agli interessi delle famiglie commendatarie e in generale dei patriziati161, F. Landi, Il Paradiso, op. cit., pag. 50.
ordine religioso; questi non avrebbe nemmeno potuto essere incluso fra gli esecutori testamentari. Queste norme vennero successivamente integrate da provvedimenti del 1258, 1283 e 1297, che stabilivamo come nessun bene immobiliare potesse, ad alcun titolo, essere trasferito in proprietà ecclesiastica “nisi salva ratione Comunis”, cioè si sarebbe dovuto mantenere intatto, ogni diritto di imposizione fiscale da parte della Repubblica, anche su quei beni di cui fosse, in avvenire concesso l’usufrutto a qualche ente ecclesiastico163.
Il 1459 rappresentò l’anno fondamentale, di quella che alcuni studiosi hanno letto, come una politica di studiata riconduzione, della gestione della spiritualità sotto il controllo della politica; in quell’anno fu infatti emanato il provvedimento del Senato, che sottoponeva alla sua approvazione, ogni attribuzione di benefici ecclesiastici, con l’esplicita motivazione, che ciò avrebbe espresso il gradimento della Repubblica, anche in tema di adeguatezza spirituale e culturale dei soggetti ammessi ai benefici medesimi164.
L’interventismo di Venezia negli affari connessi con i patrimoni e la direzione delle proprietà ecclesiastiche, si estese anche verso l’organizzazione del clero, indebolendone già dal XV secolo i poteri tradizionali all’interno dei confini della Repubblica165.
Ritornando all’ingerenza dello stato più propriamente orientata al piano economico, furono adottate nuove deliberazioni con leggi del 1536, 1561, 1591, 1598, che ordinavano la vendita di beni stabili pervenuti nel frattempo al clero per lasciti pii. Il decreto senatorio del 1602 abolì anche con riferimento alla Terraferma il diritto di prelazione degli ecclesiastici sui beni enfiteutici, a cui seguì una delibera del 1605 che estese alla Terraferma veneta la risoluzione del 1536, che rinnovava il divieto di lasciare, donare o alienare in qualsiasi forma beni stabili laici a favore di enti religiosi, prescrivendo la vendita entro due anni dei beni oggetto di transazioni fraudolente. Per evitare ambiguità fu aggiunto, che gli enti ecclesiastici non potessero compiere acquisti immobiliari, senza aver ottenuto preventiva licenza del Senato, licenza che
163 G. Maifreda, La proprietà ecclesiastica, op. cit., pag. 55. 164 G. Maifreda, La proprietà ecclesiastica, op. cit., pag. 58.
165 Furono diversi gli impedimenti frapposti all’intervento delle autorità romane, in settori chiave della vita ecclesiastica. Fin dalla metà del Quattrocento nella Serenissima fu infatti proibito ai laici ed agli ecclesiastici di ricorrere in appello presso tribunali romani, mentre dal 1483 si impedì ai rettori di accettare o dare esecuzione a lettere o documenti ufficiali papali, senza l’autorizzazione speciale del competente consiglio centrale veneziano; il clero, a sua volta, non poteva inviare documenti di scomunica o interdetto senza il permesso delle autorità lagunari, G. Maifreda, La proprietà ecclesiastica, op. cit., pag. 58-59.
avrebbe dovuto essere concessa a maggioranza assoluta, sotto pena non solo di nullità per ogni alienazione diversamente compiuta, ma, anche della confisca di ogni bene stabile alienato. I notai inadempienti sarebbero stati privati della carica166. Con una legge del 1620 emanata dal Maggior Consiglio, venne disciplinato l’importo massimo delle doti monacali e fu disposta una stretta vigilanza sui contratti dei livelli affrancabili, che spesso falsificavano la situazione finanziaria degli enti religiosi. Fu così prescritto che nel caso di consolidamento dei censi ecclesiastici nei beni dati in ipoteca, per garantirli, i beni medesimi dovessero essere venduti. Un decreto del 1627 confermò ed approvò i livelli fino ad allora accesi, ma prescrisse che fosse necessaria una speciale licenza per l’accensione di nuovi contratti simili. Il XVIII secolo veneziano non vide una revisione sostanziale di questi principi; tra 1709 e 1765 un susseguirsi di provvedimenti ribadì la validità delle leggi anteriori167. Da questi interventi statali, sembra che gli obiettivi specifici della politica veneziana nei confronti del clero regolare fossero orientati, oltre e forse più che a una strategia egemonica, a uno sfruttamento di opportunità contingenti, funzionali agli equilibri del gruppo dirigente168.
Emergeva un quadro particolarmente gravoso per il clero, che comunque non fu mai in grado di pregiudicare gli eccellenti risultati degli istituti religiosi, in ambito economico. Un successo nella gestione dei patrimoni e delle rendite che indurrebbe ad ipotizzare un sistema peculiare di gestione economica, differente rispetto a quello laico dei nobili e dei non nobili; invece in tutte le realtà economiche segnate dalla presenza di monasteri e conventi studiate, è stato verificato169, che i metodi di coltivazione delle terre, di allevamento del bestiame, di affitto delle case, di impiego finanziario del denaro, di utilizzazione di mulini o frantoi, i rapporti con i lavoratori, i tipi di contratti utilizzati, sono analoghi a quelli degli altri proprietari e percettori di rendite laici. Dovunque monasteri e conventi venivano fondati, tendenzialmente si adattavano alle forme di gestione peculiari di quei territori.
Nelle indagini sviluppate sulle proprietà di singoli monasteri, non è stata riscontrata nessuna peculiarità significativa delle forme gestionali dei beni del clero regolare; esse si adattavano al sistema di relazioni economiche e sociali esistenti e riproducevano
166
G. Maifreda, La proprietà ecclesiastica, op. cit., pag. 61. 167 G. Maifreda, La proprietà ecclesiastica, op. cit., pag. 62. 168 F. Landi, Il Paradiso, op. cit., pag. 61.
risultati simili ed anzi molto spesso migliori, a quelli ottenuti dalla conduzione di analoghi possedimenti di appartenenza nobiliare o non nobiliare170.
Le caratteristiche delle vicende economiche del clero non sembrano quindi legate al modo di gestione dei patrimoni e delle rendite, semmai lo sono ai risultati, che dipendevano prioritariamente dal contesto all’interno del quale gli ordini religiosi operavano; se l’area era arretrata e di scarso dinamismo economico anche la loro gestione rifletteva la medesima situazione, al contrario se il contesto ambientale era contraddistinto da una condizione particolarmente attiva, la conduzione diventava più intraprendente con risultati particolarmente significativi.
Quello che invece dal punto di vista economico contraddistingueva il clero e ne rappresentava un punto di forza, era il rapporto di solidarietà e di mutuo sostegno operante fra i conventi e i monasteri appartenenti ad uno stesso ordine. Il principale obiettivo perseguito era quello del sostentamento della “famiglia del monastero”; per ogni membro del convento era necessaria una quota di rendita annua e solo se questa rimaneva costante, il numero dei religiosi risultava garantito. Viceversa nel caso fosse venuta a mancare una parte delle entrate, il monastero o il convento non sarebbe più riuscito a mantenere il proprio organico, con la conseguenza, che l’obiettivo gestionale era necessariamente quello della stabilità, infatti solo attraverso di essa si poteva mantenere la famiglia religiosa171.
A tale riguardo e per avvalorare quanto appena attestato, nelle polizze di estimo veniva chiaramente evidenziato il numero di padri presenti nel convento, nel 1680,
Nel detto monastero vi sono di stanza frati in tutti n.vinti, oltre li forestieri che giornalmente vengono di passaggio172.
e nel 1724,
Siamo ordinariamente di famiglia ventiuno in ventidue oltre li forestieri che ricapitano di quando in quando173.
In presenza di una realtà economica molto spesso instabile, specie nel medio e nel breve periodo, non era possibile senza adeguati interventi di sostegno salvaguardare le proprietà del clero, che altrimenti avrebbero conosciuto le stesse difficoltà, che caratterizzavano le gestioni dei proprietari terrieri laici. Questi interventi di sostegno
170 F. Landi, Storia economica del clero,op. cit., pag. 39.
171 Una ridotta disponibilità economica impediva giuridicamente l’osservanza della disciplina regolare, perché gli atti e gli esercizi conventuali presupponevano un numero minimo di religiosi che venne individuato in almeno dodici unità, in F. Landi, Il Paradiso, op. cit., pag. 33.
172 A.S.VR, A.E.P. 1680, registro n. 334, Busta 34, carte non numerate. 173 A.S.VR, A.E.P. 1724, registro n. 343, Busta 28, carte non numerate.
erano appunto contraddistinti da quel legame di solidarietà, che emergeva tra i conventi e i monasteri dello stesso ordine, teso a garantire quel sufficiente margine di stabilità, che permettesse la sopravvivenza e spesso l’allargamento della presenza religiosa nella società.
Fondamentalmente questa forma di solidarietà si esplicava in due modi distinti; si poteva intervenire sulla famiglia con l’assorbimento temporaneo di religiosi in eccedenza rispetto alla disponibilità di risorse esistenti, oppure si potevano erogare aiuti economici a sostegno di monasteri o conventi, che si trovavano in un momento di forte crisi.
Questa situazione potrebbe rinvenirsi anche nella polizza di estimo del 1680, quando nel descrivere gli aggravi, i padri segnalavano la presenza di altri religiosi nel convento,
Per foresteria de padri che quotidianamente capitano di passaggio, comprese
le uscite de frati Superiori, ducati quarantacinque circa; D 45174
Nel primo caso veniva ad essere incentivata quella circolazione di uomini175 e in modo indiretto anche di culture e di esperienze sociali ed economiche diverse, che hanno contrassegnato l’esperienza monastica e conventuale in tutta la sua vicenda più che millenaria.
Dalla fondazione dei conventi la vita di gran parte dei padri era legata più agli ordini, che non al singolo convento176.
Quando gli interventi esterni di altri monasteri non erano possibili, oppure non risultavano sufficienti per sanare la crisi erano, gli stessi istituti religiosi che presentavano gravi problemi economici ad impegnarsi nel mettere in atto iniziative orientate ad implementare la loro rendita, in modo tale, da recuperare una situazione soddisfacente.
Solitamente in questo contesto, la scelta maggiormente utilizzata era quella di allargare l’area produttiva, attraverso opere di bonifica e di disboscamento, che se da una parte
174 A.S.VR, A.E.P. 1680, registro n. 334, Busta 34, carte non numerate.
175 Situazione certamente positiva sul piano culturale, che poteva però portare, a causa della sua disomogeneità con gli altri protagonisti della vita comunitaria, il clero regolare ad essere emarginato e avvertito come un corpo estraneo, fuori dall’intreccio dei rapporti che nascevano e si componevano localmente. Inoltre la caratterizzazione extraterritoriale del clero regolare comportava anche un prezzo nei rapporti con le strutture ecclesiastiche secolari, che facevano riferimento alle parrocchie e alle diocesi, che erano maggiormente favorite nello sviluppare, spesso a proprio vantaggio, i rapporti quotidiani con le popolazioni locali, in F. Landi, Il Paradiso, op. cit., pag. 35.
rappresentavano progetti molto impegnativi, dall’altra consentivano la messa a coltura di aree improduttive e semiproduttive garantendo un aumento del reddito.
Una volta risolta l’emergenza, l’obiettivo tornava ad essere quello della stabilità e il processo di accelerazione dell’accumulazione riprendeva i suoi ritmi lenti e consuetudinari.
In caso di congiuntura positiva, quando il convento non aveva bisogno di aiuti esterni, concorreva a risolvere problemi di altre strutture in crisi e interrompeva la ricerca di nuove fonti di potenziamento della rendita, dimostrando che il sistema di supporto vicendevole funzionava adeguatamente se rapportato al conseguimento della stabilità, ma diventava inefficace dal punto di vista dell’attivazione di processi di accumulazione di tipo capitalistico. Erano le stesse regole che governavano i conventi a raccomandare di spendere bene e di cercare di produrre ricchezza solo secondo le necessità e senza avidità.
L’etica economica che stava alla base della diffusione e dell’affermazione del clero in epoca moderna, si può ben sintetizzare nei due ideali della stabilità e della solidarietà; obiettivi che erano evidentemente all’opposto del dinamismo e della spinta competitiva che caratterizzavano lo spirito capitalistico177.
Evidenziati alcuni aspetti che contraddistinguevano l’operato economico delle istituzioni religiose, si può proseguire con l’analisi della polizza di estimo del 1724.