• Non ci sono risultati.

Identità sociale, alterità e differenza nei processi socio-cognitivi

La fluidità dei rapporti e l’incontrollabile circolazione di stimoli mediatici che, in una società dinamica e “plurale” come la nostra, sembra cambiare repentinamente anche il modo di intendere il mondo, di percepire se stessi e di spiegare le proprie azioni e intenzioni, si possono ancora riconoscere e isolare con sufficiente chiarezza le variabili affettive e socio-culturali che incidono sui processi evolutivi della persona e del gruppo?

Il diffuso clima di spaesamento e incertezza indotto anche dalla globalizzazione di modelli educativi e schemi di pensiero/azione apre nuovi interrogativi sulle strategie cognitive che consentono di individuare, definire e sostanziare realisticamente il processo di acquisizione dell’identità personale, sociale e collettiva di allievi/e.

Tra atteggiamenti di negazione o affermazione delle diversità socio-culturali che tendono a sfociare in scontri o incontri interculturali più o meno espliciti, oggi pare rafforzarsi, paradossalmente, il pregiudizio secondo cui, per “mettere ordine” nello sviluppo del potenziale individuale e sociale, convenga ridurre la realtà a categorizza-zioni e stereotipi. Eppure

la crisi, l’insicurezza, la problematicità non appartengono soltanto – insieme allo spirito critico – a ciò che definiamo società moderna, come se le società definite tradizionali per convenzione vivessero invece tranquille e quiete all’ombra protettiva delle loro tradizioni e dei loro antenati.

Ogniqualvolta si debba porre mano alla costruzione dell’umanità, i dubbi e le perplessità insorgono, condannati come siamo a pro-gettarci continuamente verso un futuro per il quale il passato ci è solo molto limitatamente d’aiuto e sul quale incombe invece costantemente la domanda che abbiamo trovato in un lontano angolo di mondo: “Omundu, niki?”, (L’uomo che cos’è?) (Remotti, 1998, p. 27).

Nel coltivare una “relazione educativa di qualità” (Casucci, 2002), chi esercita compiti di formazione avverte che una vera comprensione dei presupposti epistemo-logici e culturali che incidono sulla costituzione stessa dell’essere umano può avvenire solo a posteriori, in quel futuro tanto più evocato, quanto più sfuggente, nella sua imprevedibilità.

Se, data la pervasiva influenza dei modelli socio-culturali attuali, non si può fare riferimento a criteri puramente cognitivi per separare la lettura oggettiva della realtà dalle interpretazioni filtrate dal pregiudizio, alla cui tirannia siamo tutti egualmente esposti, il fulcro dell’azione educativa e formativa si ritrova comunque nel riconosci-mento dell’altro e della sua identità sociale e culturale.

A tal proposito è interessante osservare che, etimologicamente, il termine “identità”

1

deriva dalla radice indoeuropea ei, in cui è compresa l’idea di “andare” e anche quella di

“andare insieme” (co-ire). Dalla stessa radice proviene inoltre il pronome dimostrativo id, “questo” che, unito alla particella em, indica la nozione di “identico”, ovvero di qualcosa che si riconosce come simile.

Dal punto di vista psicodinamico, tale concetto pare perciò esprimere un “movi-mento con fasi di cristallizzazione che tentano di auto-riconoscersi” (Peluffo, 1998, p.

31), mentre da quello antropologico l’identità viene definita come “qualcosa che ha a che fare con il tempo, che si sottrae al mutamento, che si salva dal tempo” finendo per coincidere con “un ‘ciò che rimane’ al di là del fluire delle vicende e delle circostanze, degli atteggiamenti e degli avvenimenti” (Remotti, 1996, p. 4).

L’essenza dell’identità soggettiva, che si manifesta nell’integrazione reciproca degli aspetti più profondi e costitutivi della personalità con processi di ordine sociale presenti in contesti culturali specifici, si evidenzia quindi nella prospettiva di Remotti (1996), come una “costruzione per differenza”, poiché si oppone – con flessibilità e recettività variabili e imponderabili – sia all’alterità oggettiva, sia all’intrinseca minaccia di alterazioni strutturali.

Gli strumenti socio-culturali, delineando – per individui e gruppi – la mappa praticabile delle possibili acquisizioni di spazio vitale, possono perciò condizionare notevolmente i processi cognitivi, soprattutto per quanto concerne l’attitudine a pren-dere decisioni e a determinarsi all’azione. Se le differenze culturali di per sé possono costituire distanze insuperabili, infatti, il fatto stesso di entrare in contatto con altre società – “diverse” poiché “sconosciute” –, cioè di inoltrarsi nell’alterità anche solo geografica e comunque in un altrove in cui sono diversi i modelli di vita e di umanità, significa sviluppare il senso delle possibilità. Nel praticarla e nel prenderne coscienza, si comprende quindi che l’alterità esiste e che diventa ricchezza per la propria identità, quando si acquisisce il coraggio di “non distogliere lo sguardo dalle differenze, talvolta abissali, che separano i mondi culturali” (Mantovani, 1998).

Per l’evoluzione della nostra società è quindi fondamentale che i giovani diventino adulti conquistando la propria capacità critica attraverso il confronto, sperimentando e riflettendo sulle possibili alternative poste dall’esistenza e superando consapevolmente le più radicate barriere socio-cognitive. In effetti, la resistenza al cambiamento, connaturata all’essere umano, è un elemento incontrovertibile di natura psico-sociale, tanto che

numerosi dati di ricerca concordemente sottolineano il ruolo delle credenze, degli atteggia-menti, delle cognizioni in generale nel “ritagliare” la realtà sociale e nel dirigere e canalizzare l’interazione sociale in maniera tale che ne derivino conferme e non smentite per gli individui che posseggono tali cognizioni (Arcuri, 1985, 116).

L’azione di “alfabetizzazione culturale”, il più possibile precoce nell’arco evolutivo, riveste quindi un ruolo irrinunciabile nell’integrare, con un accomodamento continuo, le rappresentazioni delle conoscenze o delle idee spontanee sul mondo che il soggetto si è costruito e continua a costruirsi e, al tempo stesso, nell’interpretare i modelli di pensiero che la cultura “consolidata” ha elaborato nel corso dei secoli.

Tra le principali competenze del formatore risulta infatti essenziale la padronanza dei modi della rappresentazione insiti in ogni processo cognitivo.

Gli allievi/e devono essere perciò sollecitati non solo a raffigurarsi il mondo, ma soprattutto a interrogarsi su come riescono a descriverlo in quanto sistema complesso e integrato.

Nell’atto dell’apprendere, la dialettica continuità/cambiamento implica anche quella tra memoria e progetto: acquisire nuove forze, competenze e strutture mentali per guardare meglio il mondo, per conquistare altri spazi, ma anche per interpretare il proprio vissuto significa però, inevitabilmente, incontrare resistenze e ostacoli.

L’atteggiamento di fiducia, presupposto sostanziale per poter fare esperienze con la finalità esplicita di modificare l’assetto in divenire della propria identità, di ampliarlo e migliorarlo, viene a sua volta favorito dal fatto di poter contare su saldi riferimenti interni, relativi al contesto in cui ci si muove, ma anche dalla capacità di saper accettare i limiti che la realtà impone, considerandoli – in positivo – come stimoli per una maggiore specificazione delle proprie attitudini e motivazioni.

Nel percorso di acquisizione dell’identità sociale, elemento portante di ogni processo di crescita individuale e collettiva, si attraversa l’esperienza di costruire sempre nuove appartenenze, ovvero di “sentirsi parte”, ma anche di trovare ambiti di maggiore sicurezza, in cui si possono mettere in comune attività ed esperienze in un reciproco gioco di relazioni. Tale continuo confronto, che costituisce un’articolata occasione di scambio e di intreccio tra le diverse espressioni umane, si estende dai gruppi familiari e sociali elementari ai più vasti orizzonti della società, della formazione culturale e del lavoro.

L’abilità linguistica risulta quindi fondamentale, non soltanto per potersi ambien-tare in un contesto “straniero”, ovvero “estraneo” agli schemi percettivi consolidati in una data comunità, ma anche per definire meglio stati d’animo e competenze, per contrattare aspetti specifici della realtà, per recepire i valori del gruppo e condividerne il pensiero. Educarsi alla convivenza solidale implica, in sostanza, conoscere e formarsi attraverso l’esperienza della diversità socio-culturale.

Se il generico e confuso immaginario relativo a ciò che appare “strano” poiché

“diverso” diventerà oggetto di una continua ridefinizione umana della sua realtà in termini di persone, lingue, storie, cultura, tradizioni, atteggiamenti e abitudini di vita, attraverso un costruttivo confronto e nuove prospettive di apprendimento e di comprensione, avremo aperto un vero spazio al dialogo tra le culture e le sottoculture.

Allargare gli orizzonti culturali a più ampie vedute significa perciò nutrire i propri schemi mentali con stimoli alla flessibilità, intraprendere nuovi percorsi relazionali, aprirsi all’accoglienza di parametri diversi, andare incontro a nuovi modelli di umanità.

E poiché “l’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme”, come recita in epigrafe il monito di Robert Schuman, l’impegno collettivo di estendere le prospettive di vita e di socializzazione dei giovani, attraverso aperture interculturali e scambi transnazionali, può rappresentare oggi l’auspicata “realizzazione concreta” che crea una “solidarietà di fatto”, costituendo il valore-guida per accedere a un più vasto panorama di opportunità per tutti.

1