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Integrare competenze professionali ed esperienze culturali per promuovere l’appartenenza europea

La realtà sociale del mondo contemporaneo, tanto a livello planetario ed europeo, quanto nazionale e regionale, appare oggi così articolata e complessa che, per padro-neggiarne qualche aspetto – soprattutto in funzione di responsabilità educative e/o formative verso le nuove generazioni – occorre affidarsi agli specialisti della conoscenza.

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Se nella società industriale il possesso di beni materiali comprovava la natura e la consistenza del benessere, nell’era postmoderna sono infatti i beni immateriali delle conoscenze a consentire e a fondare il vero progresso, che sembra coincidere, in estrema sintesi, con il perseguimento di obiettivi razionali attraverso la competenza.

La capacità di interpretare, comprendere e governare – con tecniche e strumenti ade-guati – le aree sempre più specializzate e specialistiche degli innumerevoli settori dell’ap-plicazione scientifica e tecnologica, ma anche della produzione industriale e artigianale e del servizio/i alla persona in senso lato, rappresenta quindi la risorsa decisiva per competere con i vorticosi processi di cambiamento socio-economico e culturale in cui siamo immersi.

Secondo tale prospettiva, che tende a coniugare i diversi versanti dello sviluppo a favore dell’in-dividuo e della collettività, il FSE valorizza e incentiva il patrimonio del sapere e dei saperi, mezzo prioritario per produrre e, nello stesso tempo, incrementare il “capitale umano”, ormai universal-mente riconosciuto come bene privilegiato su cui consolidare “la ricchezza delle nazioni”.

L’investimento di natura socio-pedagogica sul complesso di attitudini e abilità, di nozioni apprese da studi ed esperienze, di vissuti emozionali e relazionali che un soggetto ha potuto accumulare nella vita per raggiungere mete individuali e collettive sul piano sociale ed economico, costituisce oggi l’orientamento strategico prioritario per migliorare le condizioni socio-economiche di una comunità nella prospettiva di poter influire in positivo sul suo futuro. Gli studiosi concordano nel sottolineare la stretta interconnes-sione tra formazione e utilizzo del capitale umano e, di conseguenza, la loro reciproca incidenza sul relativo “capitale sociale”, che, destinato a ricadere a sua volta sullo sviluppo economico generale, viene inteso come

La somma delle risorse, materiali o meno, che ciascun individuo o gruppo sociale ottiene grazie alla partecipazione a una rete di relazioni interpersonali basate su principi di reciprocità e mutuo riconoscimento (Bourdieu,1980, p. 119).

Coltivare tali beni intangibili, eppure essenziali per il funzionamento sociale e il benessere individuale, significa quindi incentivare il potenziale soggettivo connesso all’ap-partenenza a gruppi e a reti sociali, favorendo l’interazione formale e informale tra le persone.

Dal punto di vista dell’assetto organizzativo della società – pur tenendo conto dell’intreccio di fattori socio-culturali che influenzano atteggiamenti e comportamenti sociali e delle diverse prospettive di analisi – è interessante osservare come le varie comu-nità umane, siano esse regioni, nazioni o entità sovranazionali come l’UE, provvedano con differenti dispositivi e strumenti a regolare tale materia.

L’interrogativo implicito, sempre aperto, riguarda comunque modalità, tempi, in-tensità e caratteristiche con cui si formano, accrescono e mantengono sia il capitale uma-no, sia quello sociale, ma anche gli effetti che possono produrre, sulla collettività e sugli individui coinvolti, tanto le carenze quanto le eccedenze di tali fattori e come se ne possa favorire od ostacolare la mobilità da un territorio all’altro, dall’uno all’altro gruppo.

A tal proposito si può fare riferimento agli studi antropologico-educativi che indagano la capacità umana di creare, tra le altre opportunità sociali, anche la dimen-sione di “inculturazione”, da tramandare alle generazioni più giovani al di fuori di meccanismi strettamente bio-genetici, conferendole continuità, ampliandola e rinno-vandola come “eredità collettiva”.

La cultura rappresenta infatti il sistema simbolico che sorregge una società, nella duplice disposizione verso gli elementi macroscopici dell’esistenza e le minuzie della vita quotidiana, ovvero le modalità informali di comportamento che vengono appunto trasmesse di padre in figlio e dai gruppi umani per tradizione. Nella sua funzione di mediazione, inoltre, ogni cultura mette in relazione aree diverse della realtà, cogliendone le analogie e attribuendo perciò a ciascun elemento un significato definito, condivisibile e comunicabile.

In quanto complesso di indicatori per la strutturazione cognitiva dell’esperienza e attraverso un repertorio di principi orientativi che tracciano la linea di separazione tra il mondo ideale e le situazioni concrete, il patrimonio culturale insegna ai suoi membri a scegliere i propri scopi tra quelli ritenuti più ambiti dalla collettività.

Se la cultura, insieme ai valori morali e alla politica, costituisce, in ultima analisi, il pre-supposto per l’esistenza, si comprende come sia praticamente impossibile distinguere il sapere empirico dal sapere culturale e i dati oggettivi della conoscenza dalle credenze tradizionali.

La trasmissione socio-culturale di modelli e schemi di riferimento e la loro declinazione in prassi educative e formative rivolte al soggetto e al gruppo convergono quindi in un unico processo socio-cognitivo, veicolato dall’ambiente familiare e sociale, dalla scolarizzazione e dalle esperienze di vita e di lavoro.

In particolare, nei percorsi di Formazione Professionale, l’apprendimento culturale connota quello professionale se entrambi vengono valorizzati a partire dalle spinte socio-emotive che sollecitano e producono la capacità di porsi in relazione e di considerare l’altro, riconoscendolo come portatore di differenze – quindi con schemi di riferi-mento difformi – con cui creare occasioni di confronto e stili di socializzazione che includano la varietà del genere umano.

Un’efficace progettazione educativa dovrebbe perciò mettere in campo proposte formative contestualizzate e tuttavia aperte all’innovazione relazionale, in risposta ai nuovi bisogni umani di crescita.

Nei vari documenti internazionali ed europei, le risorse interne da attivare di fronte alle sfide culturali e professionali comprendono sia conoscenze, o saperi, adeguatamente comprese nel loro apporto concettuale, sia abilità, intese come capacità di utilizzare le proprie conoscenze in modo relativamen-te agevole per l’esecuzione di compiti semplici. Spesso si è usata la formula “sapere e saper fare”, o conoscenze di natura dichiarativa e procedurale. A queste spesso si collegano altre qualità individuali che caratterizzano l’autonomia e responsabilità personale sviluppate come il “saper essere” e il “saper stare con gli altri”.

Queste qualità possono essere designate come “disposizioni interne stabili”, in quanto si tratta di caratteristiche personali non occasionali che orientano, dispongono, sostengono la persona nell’agire in una certa maniera. Tali disposizioni, che vengono anche denominate “abiti”, possono essere di natura cognitiva o intellettuale, ma anche di natura morale o valoriale, motivazionale e affettiva, fisica e motoria (Pellerey, 2013, p. 76).

Nell’ottica dello sviluppo di profili di apprendimento permanente prospettato dai dispositivi europei, soprattutto nell’ambito della Formazione Professionale iniziale si dovrebbe consentire agli allievi/e di rielaborare sul piano metacognitivo, quindi con apporti teorici e confronti operativi, l’esperienza professionale vissuta in laboratori o stage, per esempio all’estero. Si tratta di concettualizzare le acquisizioni ottenute

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tramite l’esercizio, organizzandole in cornici scientifico-tecnologiche in grado di facili-tare il trasferimento delle conoscenze e delle competenze in altre situazioni e/o contesti reali, per accrescere la capacità di risposta alle sfide globali della nostra società.

L’abitudine a comparare condizioni differenti in cui ci si trova ad agire e/o a deci-dere in maniera autonoma, responsabile e coerente alle richieste, in virtù del ripetersi di esperienze e dell’accumulo dei loro risvolti emotivi e cognitivi, aiuta infatti a incre-mentare il “sapere pratico”, ovvero la capacità di destreggiarsi tra le difficoltà concrete.

Per i giovani di oggi, perciò, l’imperativo pedagogico tradizionale “impara ad impa-rare” per “imparare a vivere” si attualizza anche nello sviluppo delle cosiddette “compe-tenze di cittadinanza”. La partecipazione consapevole e attiva alla vita civile, sociale e professionale del proprio Paese, oltre a facilitare la transizione tra ambiente formativo e inserimento lavorativo, favorisce anche il superamento delle barriere socio-cognitive in funzione di possibili opzioni di mobilità transnazionale.

Un ambiente di formazione, in grado di coniugare il versante cognitivo con quello pratico-esperienziale dell’insegnamento/apprendimento attraverso una buona relazione educativa, può offrire inoltre infinite opportunità per dotare gli allievi/e degli strumenti culturali indispensabili per crescere da veri cittadini, quali il senso critico, la capacità di dialogo, di confronto e comprensione reciproca, la consapevolezza delle acquisizioni morali e la coerenza nei comportamenti.

Nella società postmoderna, che tende a relegare l’individuo a dinamiche frammen-tarie, costringendolo a misurarsi con la trasformazione continua dei bisogni soggettivi e collettivi, tale intento pedagogico si configura come l’acquisizione di uno stile conoscitivo orientato alla vera alfabetizzazione culturale, ovvero a un processo di cono-scenza che si concretizza in una maggiore cognizione della realtà.

Formare a una professione significa quindi, contemporaneamente, “fare cultura”

confrontando nell’esperienza le culture diverse e le varie stratificazioni di quella in cui gli allievi/e sono inseriti, pur nel complesso di una situazione sociale in trasformazione.

L’approccio socio-antropologico che si può applicare a ogni offerta formativa com-pleta presuppone quindi, in primis, di aderire al concetto e al senso dell’appartenenza al proprio contesto di vita, che può poi estendersi a quello europeo e al mondo intero.

L’assunto di “cittadinanza” viene perciò inteso dagli allievi/e come “un sentimento collettivo che può accomunare le persone più diverse tra loro al di sopra di barriere territoriali, culturali o religiose” e introiettato per ancorarsi a un sistema ideale di valori, che vengono poi tradotti in “atteggiamenti concreti di pratica quotidiana” (Vecchiola, 2010, p. 405).

A chi svolge una funzione formativa viene implicitamente chiesto di affrontare i vari aspetti del contesto di vita insiti in un radicato sistema di valori (o disvalori) con modelli di comportamento, credenze e pregiudizi culturalmente determinati, sovente senza adeguati strumenti concettuali per riconoscerli e padroneggiarli.

L’esperienza dell’alterità, soprattutto di natura socio-culturale, contribuisce a relativizzare stili di pensiero e orientamenti ideologico-culturali di cui gli allievi/e sono portatori per lo più ignari, e diventare quindi una sfida allargata, in quanto impegna le famiglie e i formatori stessi nella revisione critica delle proprie mappe concettuali e/o comportamentali.

Demistificare le false conoscenze e gli stereotipi che hanno la funzione di masche-rare la realtà, a partire da quella dei rapporti sociali, per approdare a condizioni di vita più feconde, in ultima analisi significa anche aiutare i soggetti e i gruppi a riscoprire la propria cultura d’origine e ad appropriarsene in modo consapevole (Grimaldi, 2010).

1.3. Identità sociale, alterità e differenza nei processi