3.1. Modelli classici di cittadinanza in prospettiva storica
La cittadinanza è un concetto tuttora controverso. La pluralità di piani su cui si decli-na e la molteplicità di approcci possibili lo rendono, inoltre, particolarmente complesso.
Turner (1993), ad esempio, sottolinea proprio l’aspetto della sua sostanziale pluri-refe-renzialità:
Cittadinanza si può definire quell’insieme di pratiche giuridiche, politiche, economiche e culturali che caratterizza una persona come membro competente della società e che conseguentemente modella il flusso di risorse diretto verso persone e gruppi sociali (p. 2).
Inoltre, la cittadinanza riflette la storicità come “colore” dei diversi contesti di vita.
Essa si storicizza, in particolare, nelle grandi categorie della modernità e della postmo-dernità. Nel primo caso come configurazione realmente esistente con tutti i suoi limiti, nel secondo come possibilità in atto, da costruire, secondo Donati (1993), in una pro-spettiva relazionale della società e seguendo un’idea sostanziale e non solo formale o giuridica di democrazia. Il discorso sulla cittadinanza è inoltre oggi condizionato da nuovi elementi come: (1) la concezione dell’universalismo, (2) dei diritti umani, da non confondere con quelli civili o sociali, oltre all’accento posto sul bisogno di (3) reciprocità tra diritti e doveri.
L’universalismo muove dall’interpretazione di un cittadino i cui legami comunitari e i particolarismi identitari sono subordinati agli ideali di giustizia sociale. Si afferma così
“l’idea che l’universalismo possa e debba essere differenziato”, come “generalizzazione di valori fondamentali” che vada di pari passo con la “specificazione di tali valori ad ogni con-testo particolare” (p. 31). Un discorso educativo imperniato sul concetto di universalismo così definito, che non elude la questione delle appartenenze – essenzialmente quelle reli-giose ed etniche – ma le trasforma in cardini di ogni progettualità educativa, si distanzie-rebbe dalla corrente prassi educativa di cittadinanza neutrale e pertanto assimilazionista.
In secondo luogo, alla contrapposizione Stato/società civile, nella postmodernità emerge l’antitesi società dell’umano/società tecnica. L’enfasi sull’umano e sui diritti umani non rappresenta un ritorno a forme antiche, bensì il ricupero di una dimensione
non immediatamente umana, ma che deve essere prodotta – cioè mediata – intenzio-nalmente come umana. Si completa in tal modo il cammino che va dalla cittadinan-za del bourgeois (premoderna) a quella del lavoratore (moderna) con il passaggio da quest’ultima a quella dell’uomo come uomo (postmoderna). In terzo luogo, appiattire la cittadinanza sulla mera rivendicazione di diritti, per quanto ciò abbia contribuito al progresso delle forme moderne di cittadinanza, presenta tuttavia il limite di sottovaluta-re la dimensione sottovaluta-relazionale tra diritti e doveri.
Il tipo di democrazia sostanziale tracciata da Donati (1993) scorge, non a caso, il bene comune nelle relazioni tra persone. Nell’ottica di MacIntyre (1993), la storicità della cittadinanza si basa, invece, sul ricupero della categoria di storicità in senso lato.
Egli critica la tesi dell’emotivismo, come ipotesi etico-sociale che “informa gran parte dell’espressione e della prassi morale contemporanea” (p. 94), per la ragione che si presenta con il falso abito di un modello morale oggettivo e impersonale, velando così le radici culturali. Il ricupero della categoria delle virtù compiuto da MacIntyre avviene con riferimento ai modelli culturali e di cittadinanza corrispondenti di vari periodi storici e alle differenti culture e dunque in forme peculiarmente opposte a quelle della cittadinanza universalistica.
Chi, come Donati o MacIntyre, ricupera la dimensione dell’appartenenza culturale e della tradizione, sottolinea il fatto che il modello di cittadinanza relazionale o comu-nitaria non è equivalente a quello della solidarietà di tipo premoderno. Esso, cioè, non implica il significato di un ritorno anacronistico a modelli superati e improponibili nell’attuale complessità sociale. Le comunità e le tradizioni sono, in altri termini, da intendersi come orizzonte valoriale critico:
Il fatto che l’io debba trovare la propria identità morale in e attraverso l’appartenenza a co-costruire la cittadinanza in comunità quali la famiglia, il vicinato, la città e la tribù, non implica che egli debba accettare le limitazioni morali dovute alla natura particolare di tali forme di comunità (MacIntyre, 1993, p. 264).
Tutto ciò chiama in causa la definizione del tipo di comunità sottostante, la sua natura politica o morale, l’essere definita in termini sostanziali o procedurali (Mincu, 2007).
Touraine (1998), a sua volta, preferisce parlare di solidarietà piuttosto che di cittadinanza, rimproverando alla concezione comunitaria l’esaltazione dei doveri a sca-pito dei diritti. Lo spirito comunitario, secondo Touraine (1998), sarebbe a rischio di
“ossessione di omogeneità e purezza” (p. 154). La “bassa” modernità richiederebbe un principio d’integrazione debole, definito Soggetto. Egli contesta le accuse di individua-lismo che gli vengono mosse e, come prova in tal senso, concepisce il Soggetto come
“inseparabile dalle scelte sociali e politiche in favore della solidarietà e della comuni-cazione interculturale” (p.157). Si può notare che da MacIntyre a Touraine – e cioè studiosi con letture molto diverse della post-modernità – si concorda sull’ineluttabi-lità di un principio di solidarietà, pur se variamente collocato, come istanza interna all’individuo (Soggetto) oppure, al contrario, derivato dall’esterno, dalla società stessa, come perseguimento del bene comune.
Sulla base di queste rapide puntualizzazioni sulla nozione di cittadinanza occorre considerare anche la relazione con la democrazia. La distinzione tra modelli ideal-tipici,
1
autoritario (cittadini come sudditi) e democratico (cittadini some soggetti), conserva il suo potenziale esplicativo principalmente in contesti autoritari, mentre nelle società occidentali “la distinzione non è più fra dittatura e democrazia, ma fra tipi alternativi di democrazia, e fra tipi possibili di cittadinanza” (Donati, 1993, p. 11).
In prospettiva storica, il concetto di cittadinanza mostra varie sfaccettature se rife-rito alle identità collettive e alla nascita delle nazioni moderne. Le radici dei moderni Stati-nazione sono eterogenee, con ricadute notevoli sulle odierne politiche di citta-dinanza. Munch (2001) è dell’opinione che la Gran Bretagna è emersa come nazione dalla società civile, che la Francia si è costruita attorno allo Stato moderno, che gli Stati Uniti sono stati organizzati come nazione grazie alle associazioni volontarie, mentre la Germania ha come basi le radici etniche e culturali. Il modello di integrazione politica è altrettanto disomogeneo: basato sulla comunità civica nel caso britannico, statalista in Francia, di mercato negli Stati Uniti e legalista nel caso tedesco. Questi paesi non a caso perseguono, argomenta Munch, politiche in materia migratoria e di integrazione europea o nel mondo alquanto dissimili tra loro.
Non si può pensare, dunque, alla cittadinanza occidentale in un’unica versione.
Si può affermare che in Europa se ne sono affermate almeno quattro forme piuttosto differenti, come cittadinanza che si amplia dall’alto o dal basso (attiva vs. passiva), come espressione nello spazio privato piuttosto che in quello pubblico. Ne consegue che le diversità dei contesti di vita determinano svariate forme di partecipazione dei cittadini. Anche le riforme dello Stato attuate negli ultimi anni nei contesti culturali più vari si svolgono in genere nella prospettiva della creazione di un modello societario, per superare l’eccessivo statalismo, tipicamente moderno, mediante la promozione di autonomie locali. Ovviamente, l’eccessivo statalismo ha connotato di più alcuni contesti, tradizionalmente quelli latini. In paesi come l’Inghilterra in cui esistono da sempre ampie autonomie locali, il ruolo dello Stato viene rafforzato rispetto al passato, pur preservando la logica dell’autogoverno sul piano locale. La diversità costitutiva dei “mondi-di-vita” fa sì che il modello istituzionale e teorico delle riforme da attuare (dette “ristrutturazioni “, sia dello Stato, sia del sistema educativo) si compia in forme eterogenee nei vari contesti.
La dinamica per così dire globalizzante non appare sempre destinata, comunque, a sfociare in monopoli omologanti transculturali. Anzi, sembra che si possa svolgere in forme interattive con le risposte dal basso, talora anche in forme contraddittorie, che possono persino avversare le aspettative di miglioramento espresse dall’alto. La spiega-zione risiede nel fatto che all’internazionalizzaspiega-zione dei processi economici e politici corrisponde un processo contrario, detto “indigenizzazione”. Le logiche di appropria-zione di tipo culturale, con cui i prodotti globalizzati o internazionalizzati vengono recepiti, sono in realtà modi di assimilazione molto diversificati sul piano locale, gui-dati dagli interessi presenti, dai discorsi e dalle tradizioni che caratterizzano ogni realtà in parte, e perfino dalla rinascita o dall’attualizzazione di tradizioni molto più antiche, lette anche come eredità sotterranee.
La stessa asserzione di una presunta “occidentalizzazione” o “americanizzazione”
del mondo trova molte prove contrarie. A tal proposito, Schriewer (1997a) considera i processi di occidentalizzazione come effetti di superficie. In modo analogo, Donati (1993) esprime dei dubbi sulla tesi dell’americanizzazione, sostenendo che la società
civile americana e quella europea evolvono in direzioni opposte: “proprio ora che sembrano in atto processi di avvicinamento, le differenze aumentano” (p. 226). Un altro buon esempio sono le logiche che muovono i cambiamenti dei sistemi educativi odierni. In tal modo, all’idea a prima vista radicale della nascita di un “sistema educativo a livello mondiale” corrispondono “sforzi di integrazione sopranazionale e di diversificazione interna, processi di internazionalizzazione e di indigenizzazione, fenomeni di trasformazione di portata mondiale e configurazioni storico-culturali peculiari” (Schriewer, 1997b, p. 19).
La preferenza per il modello societario riguarda non soltanto le riforme dello Stato, ma anche quelle più specificatamente educative. I fili che legano l’autonomia scola-stica alla cittadinanza sono numerosi. Ma non sempre il presupposto di base è quello della loro interdipendenza reciproca. Ad esempio, una certa autonomia delle scuole, nel modo in cui è stata intesa e realizzata in Inghilterra prima della legge educativa del 1988, come autonomia promossa dalle autorità locali (LA), si è periodicamente accompagnata al tema della cittadinanza in modo piuttosto contrastante. L’educazione del cittadino è stata tradizionalmente vista come rimedio ad alcuni difetti della scuola inglese: vuoi per reagire a un approccio conservatore in educazione, che richiama l’at-tenzione al cosiddetto nocciolo duro (back to basics), scrivere, leggere e far di conto, e rende prioritari i compiti dell’istruzione in senso stretto, mentre tralascia le compo-nenti più intangibili dell’educazione in senso lato, vuoi per contrastare il consumismo (consumerism) educativo o la mercatizzazione (marketization) dell’insegnamento.
In seguito alla svolta educativa del 1988 e dopo le riforme degli anni ’90, con il rin-forzo dell’autonomia (self-management) rispetto al 1979, si è aperto l’interrogativo se le scuole autonome possano risultare più o meno adatte per coltivare i valori di citta-dinanza e lo spirito di comunità rispetto alle scuole controllate dalle autorità locali.
La ragione per cui nel caso inglese si tende a dissociare autonomia scolastica e valori di cittadinanza risiede nella lettura che si fa dell’autonomia, tradizionalmente intesa come causa di effetti negativi come, ad esempio, l’eccesso di individualismo. Tuttavia Demain e Entwistle (1996) considerano che consumismo, cittadinanza e ideologie co-munitarie non sono necessariamente incompatibili e le politiche educative dimostrano come questi concetti siano stati accolti e impiegati dai differenti gruppi d’interesse e dai partiti politici.
Nella tradizionale distinzione tra un’educazione “forte”, di tipo intellettuale e ac-cademico, e una “debole”, orientata ai valori, la cittadinanza e, più generalmente, gli obiettivi sociali dell’educazione sono stati spesso considerati appartenenti a quest’ulti-ma e perciò poco valorizzati dalle politiche scolastiche. Gutquest’ulti-mann (1997) riferisce a tal proposito il caso americano dell’orientamento back to basics degli anni ’80. Dato che le strategie educative ispirate ai fondamenti morali erano ritenute dalle definizioni al radicamento storico dei modelli di cittadinanza potenzialmente controproducenti e poco adatte a ottenere il consenso degli attori coinvolti, il movimento del back to basics fu ritenuto “il minimo denominatore comune per concordare una agenda educativa a livello nazionale” (p. 4). L’autrice scorge i difetti insiti nella politica back to basics.
Ad esempio, l’assenza di consenso si può manifestare anche nel campo delle discipline ritenute «basi» dell’insegnamento, così come l’educazione alla democrazia non significa semplicemente la trasposizione nelle politiche pubbliche di un ventaglio di ideali morali.
1
“Una teoria democratica dell’educazione fornisce princìpi che, di fronte ai disaccor-di sociali, ci aiuta a giudisaccor-dicare (a) chi deve avere l’autorità disaccor-di prendere le decisioni sull’educazione, e (b) quali sono i limiti morali di quella autorità” (Gutman, 1997, p. 11).
Una simile impostazione antinomica tra discipline fondamentali e l’educazione del cittadino è da segnalare anche in Polonia, nei primi anni ’90. L’educazione civica fu vista infatti inizialmente come disciplina compromessa durante il socialismo a causa delle sue connotazioni ideologiche. Si pensò così di puntare sulle “conoscenze reali come la matematica e la fisica” (Janowski, 1999, p. 468) trascurando il potenziale formativo insito nell’educazione civica, soprattutto in un contesto alquanto povero di esperienze significative.
L’autonomia istituzionale, e dunque anche di tipo scolastico, si propone di reagire ad alcune storture della politica sociale, tipiche soprattutto dei paesi latini, come la statalità, l’auto-referenzialità, gli obiettivi malposti, il giuridicismo. Nonostante le sue ambivalenze e debolezze eclatanti, come il fatto che non decolla o che ingenera problemi ancora più gravosi, almeno a breve termine, Donati (1993) ritiene che essa sia una via obbligata se si deve fare il salto verso un nuovo modello di società civile.
Si può tuttavia concordare con Donati (1993) sul fatto che cittadinanza e autonomia, sia in senso educativo, sia in senso lato, si possano considerare reciprocamente inter-dipendenti e auto-rinforzanti, e ciò in contrasto con l’oramai consolidata abitudine alla contrapposizione, presente, come si è visto, sia nei casi inglese e americano, sia in quello polacco.
L’autonomia educativa è quindi parte essenziale di un nuovo progetto di cittadinan-za, il cui obiettivo è quello di connettere micro e macro livelli, i sistemi politico-ammi-nistrativi con le dinamiche delle società civili. E ciò varrebbe non solo nella modernità
“avanzata”, tardiva o “seconda” dei paesi occidentali, ma anche nel contesto della modernità “incompiuta” e “giacobina” erede del totalitarismo di stampo sovietico all’Est. A questo riguardo si possono puntualizzare alcuni argomenti a favore dell’interdipendenza reciproca. Il principio dell’autonomia determina un cambiamento nei rapporti tra cittadino e istituzioni che stimola maggiore iniziativa da parte del singolo individuo, promovendo così un mutamento nella mentalità delle persone. Il paternalismo dello Stato, non solo socialista ma anche di alcuni tipi di welfare state sud-europei, promuove invece, una mentalità di tipo assistenziale, segnata da passività e dipendenza.
L’autonomia istituzionale appare in sostanza una delle prospettive più interessanti per l’esercizio effettivo della cittadinanza attiva e responsabile. Non mancano, però, anche studiosi più critici e cauti:
L’autonomia può essere catalizzatore di creatività, ma essa può anche stimolare pratiche discordanti con le strategie ufficiali. Essendo l’autonomia delle istituzioni scolastiche un aspet-to del decentramenaspet-to dei poteri e dell’influenza sempre più forte delle logiche e dei modi di funzionamento del mercato sulle politiche scolastiche […] occorre riconoscere che l’autono-mia non è che una democrazia fallace. Non saranno le logiche del mercato quelle che facilite-ranno l’impianto di un’educazione integrativa ed inclusiva della pluralità (Allemann-Ghionda, 2001, p. 6).
Questa tesi critica si basa sostanzialmente sull’osservazione che promuovere maggio-re autonomia istituzionale e damaggio-re più spazio alla libertà di insegnamento potmaggio-rebbe far venir meno la motivazione degli insegnanti a scegliere di sviluppare temi trasversali, problematici e complessi come la cittadinanza. Ne conseguirebbe che i temi della morale, della cittadinanza e dell’intercultura sarebbero ritenuti efficaci soltanto in un quadro istituzionale ove il centro mantiene la sua forza di persuasione e di direzione nei confronti delle singole scuole. Fintantoché promuovere la cittadinanza significa soltanto aggiungere nuovi contenuti nei programmi scolastici, questa osservazione può essere va-lida. Nel caso in cui per cittadinanza si intende invece il funzionamento democratico e partecipativo delle scuole, l’ipotesi di un nesso negativo non trova più argomenti a favore.
L’educazione alla cittadinanza dovrebbe perciò costruirsi attorno a pratiche educati-ve congrue con un senso attivo e partecipativo della cittadinanza e sorrette da ethos isti-tuzionali e da culture metodologiche democratiche e aperte all’innovazione. Ciò risulta ben diverso dal semplice arricchimento di contenuti civici dei curricoli limitato nel tempo dalle definizioni al radicamento storico dei modelli di cittadinanza e promosso per iniziativa delle autorità centrali. In questo caso non si potrebbero mai raggiungere effetti profondi e stabili, proprio a causa del diverso significato che l’educare alla cit-tadinanza assume nelle due situazioni. In sostanza si può rilevare che l’approccio alla cittadinanza come ethos scolastico e come cultura democratica rappresenta certamente un mezzo molto più forte della mera trasmissione di conoscenze civiche, a condizione che l’autonomia sia realmente funzionante e non soltanto dichiarata.