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Una cittadinanza solo europea?

di Tanja Cerruti

2.6. Una cittadinanza solo europea?

Le considerazioni svolte in precedenza dimostrano che, benché la cittadinanza europea sia nata come aggiuntiva a quella nazionale (Besselink 2008, p. 1), a questa vincolata e da questa dipendente e benché si concretizzi prevalentemente nella garanzia giurisprudenziale della libertà di movimento e del principio di non discriminazione, in realtà in talune circostanze essa ha portato ad un ampliamento dell’ambito di ricono-scimento di alcuni diritti e addirittura alla loro estensione anche ad individui che non avevano la cittadinanza di uno Stato membro dell’UE.

Questo induce a domandarsi, secondo quanto anticipato sopra, se sia ipotizzabile l’individuazione di una cittadinanza europea indipendente da quella nazionale o, meglio, se questa si stia, seppur in forma embrionale, già affermando.

A tal fine è necessario prendere in esame tre elementi peculiari della cittadinanza europea: il rapporto fra nazionalità e cittadinanza; lo status di cittadino europeo, per quanto concerne la titolarità delle posizioni giuridiche che comporta; i numerosi denizen europei, cioè coloro che abitano in Europa ma che, non avendo la cittadinanza

33 Secondo tale autore dovrebbe anzi essere ribadito nei trattati che spetta agli Stati decidere chi sono i loro cittadini. Inoltre, dal momento che il conferimento delle competenze all’UE deve rispettare i principi di pro-porzionalità e sussidiarietà, attribuirle il potere di determinare la cittadinanza nazionale li violerebbe entrambi.

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di uno Stato membro, non hanno quella europea.

Sul primo aspetto, occorre richiamare la differenza fra i concetti di nazionalità e cittadinanza, così come il loro diverso ambito di operatività. Nell’ordinamento giu-ridico italiano tale differenza non è particolarmente avvertita, in quanto il legislatore ha scelto di parlare solo di “cittadini” e non anche di “nazionali”, ma in altri sistemi europei la dicotomia fra national e citizen è più marcata.

Storicamente, la nazionalità viene concepita in relazione alla provenienza, alla discendenza e alla collocazione geografica di un gruppo di persone, mentre la citta-dinanza è associata, sin dall’epoca romana, alla titolarità di diritti e alla conseguente distinzione fra individui. Con la Rivoluzione francese, le due nozioni cominciano a convergere intorno alla necessità di stabilire chi può partecipare alla vita politica e chi ne è escluso. L’elemento comune alle due diviene quindi il concetto di esclusione di alcuni dallo status di privilegio di cui godono gli altri. Dal punto di vista dell’ambito di applicazione, la cittadinanza rileva all’interno dei confini nazionali, fondando in capo a chi la detiene una serie di diritti ed obblighi, mentre la nazionalità ha valenza esterna, nei rapporti internazionali, distinguendo i soggetti in base alla loro nazione di appartenenza (Closa 1995, pp. 488-492).

Il rapporto fra cittadinanza e nazionalità si riflette anche sulla legislazione degli Stati europei in materia di acquisto e di perdita della cittadinanza nazionale, che varia da uno all’altro. Nelle modalità di concessione della cittadinanza, alcuni privilegiano il legame con il territorio (tendendo così ad attribuirla prevalentemente in base allo ius soli), altri rimangono più legati all’idea della nazionalità, applicando maggiormente lo ius sanguinis, mentre altri ancora adottano dei sistemi intermedi, che tengono conto di entrambi i criteri. In alcuni Stati, la legislazione è inoltre influenzata dal particolare ruolo che questi hanno o avevano sul piano internazionale (si pensi emblematicamente al Regno Unito) e in molti si è trovata a rispondere, seppur con cautela, ai grandi flussi migratori che stanno interessando negli ultimi decenni il vecchio continente (Gambe-rale 1995, p. 633 ss).

Da quanto detto sopra si ricava innanzitutto che l’acquisto della cittadinanza europea può avvenire secondo regole molto diverse fra loro, a seconda di qual è lo Stato tramite cui “si passa”. Questo elemento, che di per sé costituisce un motivo di ostacolo alla formazione di una cittadinanza embrionale comune, può portare a scelte individuali mirate che, basandosi sulla libertà di movimento, permettono di eludere le regole più restrittive previste in alcuni Paesi per ottenere la cittadinanza europea in altri, come dimostra il caso Chen.

La seconda peculiarità della cittadinanza europea riguarda la titolarità delle posizio-ni giuridiche soggettive che discendono dallo status di cittadino europeo.

Benché l’art. 20 TFUE, riprendendo la versione originaria del TCE, affermi che dalla cittadinanza europea derivano sia diritti sia obblighi, questa sembra invece dare origine solo ai primi. Ogni cittadino europeo può avanzare, in quanto tale, delle pretese sia nei confronti dell’Unione, sia degli Stati membri diversi dal suo sia, infine, dello Stato membro di appartenenza ma non è soggetto a obblighi particolari verso l’Unione.

Nessun cittadino europeo, per fare un paragone con i doveri previsti dalla nostra Carta costituzionale, risulta vincolato dagli obblighi di essere fedele all’UE, di concorrere direttamente alle spese pubbliche o di partecipare alla sua difesa.

L’aspetto più problematico di questa anomalia della cittadinanza europea è quello economico-finanziario. I diritti che la cittadinanza europea implica si traducono praticamente in costi che sono a carico non della sola Unione ma anche e soprattutto degli Stati membri (Lansbergen e Miller 2011, p. 305). Questo varrebbe anche se la cittadinanza europea si estendesse al di là del filtro di quella nazionale, costringendo così gli Stati membri a dare soddisfazione ad aspettative che loro stessi non hanno alimentato, ma che si trovano a dover sostenere.

Risvolti problematici molto simili sono presentati dal terzo elemento peculiare della cittadinanza europea e cioè la presenza, nel vecchio continente, dei cosiddetti “deni-zen”, cioè di individui, distribuiti in misura non omogenea fra gli Stati membri, che pur risiedendo e, talvolta, esercitando un’attività nel territorio dell’Unione, non godo-no dei diritti di cittadinanza europea in quanto sogodo-no privi della cittadinanza nazionale di uno degli Stati membri (Hedemann-Robinson 2001, p. 582). Per tali individui, le condizioni di acquisto della cittadinanza europea possono variare a seconda di qual è lo Stato di cui chiedono di diventare cittadini. È ipotizzabile che la previsione di una cittadinanza europea indipendente da quella nazionale possa arrivare a includere anche questi soggetti.

Di fatto, in diverse occasioni la giurisprudenza comunitaria ha esteso agli deni-zen dei diritti di cittadinanza riconosciuti ai cittadini, come dimostrano i casi Ruiz Zambrano o Chen citati sopra. La previsione di una cittadinanza europea che includa anche coloro che non hanno la cittadinanza di uno Stato membro trasformerebbe però l’estensione giurisprudenziale di tali prerogative in una regola generale, con un impatto non indifferente sul welfare e, soprattutto, sul sistema economico degli Stati membri.

Pur ammettendo che il riconoscimento dei diritti non dovrebbe essere condizionato dal timore del loro impatto finanziario, è inevitabile che, soprattutto in un momento fortemente critico come quello attuale, le considerazioni relative ai costi dei diritti, soprattutto di quelli sociali, affianchino e a volte sovrastino quelle sulla necessità che il processo d’integrazione europea si evolva anche dal punto di vista della “costruzione”

di un demos.

Partendo dall’affermazione che la cittadinanza europea rappresenta lo status in cui i concetti di nazionalità e cittadinanza si discostano maggiormente l’uno dall’altro, si potrebbe pensare di accrescere ulteriormente tale distanza e dare vita ad una cittadinanza europea unica, al cui possesso corrisponda quello di una nazionalità italiana, francese, tedesca ma anche cinese o colombiana.

Allo stato attuale del processo d’integrazione, questa strada non è però percorribile.

Se la cittadinanza europea continuerà a discendere da quella nazionale, gli Stati membri non accetteranno di cedere la prerogativa di disciplinarla e gli denizen conti-nueranno a rimanere esclusi.

L’altra possibilità sarebbe allora il trasferimento della competenza sulla cittadinanza all’Unione, cui spetterebbe la sua disciplina e la garanzia dei relativi diritti.

È evidente però che l’attuale configurazione dell’Unione Europea, con il manteni-mento di determinati poteri e competenze in capo agli Stati membri, non sarebbe com-patibile con una soluzione del genere, che risulterebbe “stonata” sia sul piano interno, sia su quello internazionale.

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Ad oggi, insomma, non si può affermare che la costruzione della cittadinanza europea in senso proprio (Denizeau 2013, p. 7) possa procedere di pari passo a quella dell’identità europea, intesa come insieme di principi e valori in cui, pur nel rispetto dei limiti delle identità nazionali, si riconosce e s’identifica la comunità degli abitanti dell’Europa.