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Il momento religioso-culturale attuale, tra crisi e speranza

“PER SEMPRE”

1. Il momento religioso-culturale attuale, tra crisi e speranza

Parlare di fedeltà è diventato in questi ultimi anni quasi una moda, dovuta però ad una necessità. Oggi, infatti, sperimentiamo in un modo

1 José rovira (cmf), docente ordinario di Teologia della Vita Consacrata presso l’Istituto di Teologia della Vita Consacrata “Claretianum” della Pontificia Università Lateranense, di cui è stato anche Preside. È evidente dai suoi scritti una chiara sensi-bilità pedagogica e formativa; difatti è docente invitato in altri Centri romani ed esteri e spesso è chiamato a collaborare in numerose iniziative di formazione da Istituti e Congregazioni religiose.

sicuramente più acuto che in altri tempi la difficoltà ad essere fedeli, soprattutto quando si tratta di un impegno che pretende di essere per sempre, come quello della Vita Consacrata, a cui possiamo aggiungere quello del sacerdozio e della vita matrimoniale. Tutto ciò che voglia essere un impegno “per sempre” è entrato in profonda crisi.2

Da notare subito, dunque, che non è di per sé un problema della Vita religiosa, bensì anche di essa, per il fatto che si tratta di un pro-blema culturale generale del nostro tempo. E se tutti sperimentiamo questa difficoltà, perché inevitabilmente figli del nostro tempo, è ovvio che la vive in modo particolarmente intenso il giovane (nel nostro caso il/la giovane formando/a) anche a motivo della immaturità tipica della sua età.

Riguardo alle motivazioni filosofiche, politiche, economico-sociali ed anche religiose che sono alla base di questa nuova situazione si è scritto molto. Vorrei accennare ad esse e rimandare, per un ulteriore approfondimento, a studi più sviluppati e ad una specifica bibliografia sul tema.3 I motivi sono tanti e tra questi ne individuiamo alcuni.

2 Un’espressione tipica di questa mentalità è il titolo di un film presentato qualche anno fa in Italia: “L’amore è eterno finché dura”.

3 Rimando ad alcune pubblicazioni in cui ho cercato di spiegare e sintetizzare le cause di questa situazione culturale e come affrontare o dare una risposta ad un im-pegno – come quello religioso – che vuol essere totale e per sempre [cf rovira José, Fedeltà, in Aa.Vv., Dizionario Teologico della Vita Consacrata, Milano, Ancora l994, 737-752; iD., La fedeltà nella vita religiosa oggi, in rosanna Enrica - Del Core Pina (a cura di), La vita religiosa alle soglie del duemila, Roma, las 1997, 99-131; iD., Per sempre? La perseveranza nella vita religiosa, Milano, Ancora 2007; iD., I voti come scel-ta del “per sempre”, in Credere Oggi 27 (2007) 1, 103-119. Per una bibliografia più recente si veda: aa.vv., Fedeltà, in Unità e Carismi 12 (2002) 1; iD., Sul relativismo della cultura contemporanea, Acireale (CT), ISB Editore 2003; ID., L’ora di scegliere, in Rogate Ergo 66 (2003) 8-9; iD., La vita consacrata oggi. Sfide e prospettive, in aa.vv., Prevedere e provvedere. La formazione in un mondo che cambia, Milano, Paoline 2004, 36-76; iD., Identidad, arraigo y fidelidad, in Vida Religiosa 100 (2006) 4; garelli Fran-co, Chiamati a scegliere. I giovani italiani di fronte alla vocazione, Milano, Cinisello Balsamo 2006; iD., Fedeltà e abbandoni nella Vita Consacrata oggi, Roma 2006; Del

Core Pina, Atteggiamenti e stili decisionali degli adolescenti e dei giovani, in Rivista di Scienze dell’Educazione XLV (2007) 1, 55-77; iD., La paura di scegliere: dinamica della decisione e scelte di vita, in Rivista di Scienze dell’Educazione 41 (2002) 442-455; billy D.J., Perseverance: The Courage to Persist, in RfR 62 (2003) 72-82; CereDa Francesco, Un problema che interpella la formazione. Fragilità vocazionale, in Testimoni 30 aprile 2004, 23-29; ovieDo Luis, Perché lasciano la vita consacrata. Una indagine empirica, in Antonianum 79 (2004) 79-100; saMMon S.D., Fidelity and Commitment: Letter to a Young Marist Brother, in RfR 63 (2004) 283-304; trabuCCo P., Sobre la fidelidad, in Vida

In primo luogo il fenomeno economico e culturale dell’eccessiva possibilità di scelta, sia a livello di cose, il quale porta alla mentalità consumistica, sia a livello di valori, il quale, a sua volta, porta alla svalu-tazione di qualsiasi valore che voglia essere valido per tutti e sempre. In altre parole, il relativismo assiologico e l’incapacità di giungere a delle certezze indiscutibili hanno portato al cosiddetto “pensiero debole”, al crollo delle cosiddette “grandi narrazioni”, e al rinchiudersi in un mon-do piccolo e soggettivistico. In questa situazione di supermercato delle cose e delle idee, il fatto di cambiare diventa una specie di “valore” in se stesso.

Per quanto si riferisce alle radici filosofiche, possiamo vederle, tra l’altro, nella corrente esistenzialista la quale afferma che l’uomo non ha né fondamento né traguardo, è una libertà abbandonata a se stessa, senza che debba render conto a nessuno. Ma possiamo aggiungere an-che la psicologia del profondo an-che, scoprendo il mondo dell’inconscio, ci fa dubitare circa le vere ragioni del nostro agire.

E persino in campo teologico certe affermazioni di questi ultimi decenni hanno in qualche misura indebolito gli impegni in alcuni. Ad esempio, l’immagine di un Dio – il “Dio dell’Esodo” – che cammina con noi lungo la storia (teologia della speranza, teologia politica, teologia della liberazione…), ha dato a certuni la sensazione che la vocazione sia un qualcosa da inventare e da scoprire in continuazione. Altri hanno interpretato la riscoperta dello Spirito Santo ed i suoi carismi come una spinta al soggettivismo (“ognuno ha il suo carisma”) o ad una creatività continua e sradicata; valendosi magari di una certa interpretazione di taluni testi biblici: lo Spirito soffia dove e come vuole, senza che sappia-mo da dove viene e dove va (cf gv 3,8), lo Spirito è libertà (2Cor 3,17).

E, nel campo specifico della Vita religiosa, il fatto che il Concilio abbia ricordato che tutti i cristiani hanno una vocazione e sono chiamati alla perfezione, ha dato l’impressione di svalutare la vocazione dei religiosi,

Religiosa 98 (2005) 244-252; rosanna Enrica, ¿Fidelidad creativa o creatividad fiel?, in Claretianum 45 (2005) 303-323; Dal Molin Nicola, Il mistero di una scelta. Giovani e vita consacrata, Milano, Paoline 2006; Cabra Pier giordano, Tra crisi e crescita. La difficile fedeltà in Testimoni, 30 marzo 2006, 22-28; garelli Franco, La Chiesa in Italia, Bologna, Il Mulino 2007, 88-106; Chávez villanueva Pascual, La fidelidad, fuente de vida plena. La Vida Consagrada: Profecía antropológica en la postmodernidad, in ConFer 46 (2007) 161-182; roDríguez J., Formar a la vida en plenitud para prevenir los aban-donos y reforzar la fidelidad, ib., 183-200; sovernigo giuseppe, Come si fa a sapere se è Dio a chiamare?, in Rogate Ergo 70 (2007) 2, 5-12].

un tempo visti da molti come gli unici che “avevano vocazione” ed erano chiamati alla santità. D’altra parte, il fatto che in questi anni non poche volte i formatori, o non sapevano veramente cosa insegnare ai formandi o erano impegnati in tante altre cose, ha fatto sì che alcune generazioni di candidati siano arrivati alla fine della formazione iniziale senza avere idee veramente chiare e, soprattutto, delle convinzioni solide.

A tutto questo va aggiunto il fatto che la situazione familiare, socia-le e religiosa di non pochi candidati (famiglie divise o eccessivamente conflittuali, situazioni di gravi sommosse e sconvolgimenti sociali – addirittura situazioni di guerra – la povertà di non pochi ambienti, il permissivismo sessuale e il secolarismo) ha fatto sì che giungessero ai centri di formazione con gravi problemi affettivi, fragilità psicologiche e morali varie.

Ciò non vuol dire che ci troviamo in un periodo particolarmente, per non dire totalmente, negativo della storia. Ci troviamo in un mo-mento di crisi profonda, come dicono alcuni, più in un cambiamo-mento di epoca che in un’epoca di cambiamento. Personalmente credo che siamo in mezzo a cambiamenti addirittura più importanti di quanto non abbia significato la Rivoluzione Francese (1789s) per il mondo mo-derno. Si parla, infatti, di società post-moderna; e c’è già chi dice che addirittura quest’ultima sia finita l’11 settembre del 2001, con l’atten-tato alle Torri gemelle di New York e l’ingresso in grande stile nella nostra storia quotidiana del fenomeno internazionale del terrorismo, del fondamentalismo islamico e delle immigrazioni più o meno massive di moltitudini provenienti dai popoli del secondo e terzo mondo.

Siamo sicuramente in crisi. Ma, “crisi” è una parola che non significa necessariamente tragedia, disastro, catastrofe. Viene dal greco krisis e significa “discernimento”; cioè, una determinata situazione è cambiata, bisogna cercare di capire cosa è successo e come va impostato il nuovo momento storico. Il risultato può essere magari non facile, a volte nega-tivo, ma di per sé è chiamato ad essere positivo.

Basta pensare alle due grandi crisi della vita umana: quella dell’ado-lescenza che apre la strada all’età matura e quella della metà della vita che porta alla maturità e alla saggezza definitive. Nel momento storico ed ecclesiale attuale ci sono tanti aspetti positivi: una maggiore valu-tazione dell’individuo, una più grande libertà in tanti ambienti, una coscienza mondiale dei problemi e delle possibilità di risolverli, quindi, una crescita del senso di responsabilità internazionale e in non poche parti del livello economico e politico; nella Chiesa e nella Vita religiosa,

grazie al Vaticano II, c’è stata una grande crescita del senso di corre-sponsabilità ecclesiale e, quindi, della necessità di dialogo fra tutti, di chiamata alla santità per tutti, ognuno secondo la propria vocazione, una migliore formazione biblica, teologica, una più giusta valutazione dei valori umani, ecc. Una crisi, dunque, che è fonte di tante speranze;

speranze che in parte sono già realtà. Una krisis, insomma, che è chia-mata a diventare kairós.4

Ecco perché non c’è motivo di essere “profeti di calamità”, bensì

“maestri di discernimento” per aiutare a capire e distinguere tra il po-sitivo ed il negativo del nostro momento storico come società, come Chiesa e come membri di un Istituto di Vita religiosa. E, ovviamente, se c’è qualcuno che ha bisogno di imparare a capire, è soprattutto il giovane; e se c’è qualcuno che è chiamato ad essere “maestro di discer-nimento” è in particolare il formatore.

È il momento di discernere quale sia il presente che ci tocca vivere, sapendo che esso è figlio del passato e padre del futuro. In effetti, la storia di tutti noi, come singoli individui e come gruppi, è costituita da tre tempi: passato, presente e futuro. E non possiamo mai dimen-ticare nessuno dei tre tempi visto che tutti, giovani compresi, siamo nel presente ciò che resta del passato protesi verso il futuro. Sebbene sia altrettanto vero che, se qualcuno di questi tre tempi deve prevalere sugli altri due, questo è sicuramente il futuro, in una visione biblico-cri-stiana: è nel futuro, infatti, che speriamo di raggiungere quella pienezza che, ieri nel passato e oggi nel presente, abbiamo già intuito, iniziato e in parte costruito. Ecco perché, se il giovane formando ha bisogno di confrontarsi con l’esperienza e la saggezza dell’adulto e dell’anziano (i formatori),5 è altrettanto vero che adulti e anziani debbono guardare e ascoltare i giovani, sia per capire i nuovi palpiti della vita che va avanti, sia perché saranno loro a portare avanti quanto i formatori hanno cer-cato di capire, vivere ed insegnare e testimoniare.6 Se l’adulto e l’anzia-no sol’anzia-no chiamati ad essere punto di appoggio – padri/madri, fratelli/

sorelle maggiori, amici/amiche – per il giovane, il giovane a sua volta è la speranza di chi è più o meno avanti negli anni, di colui/colei che lo ha “generato” alla Vita Religiosa.

4 Cf RdC 13.

5 Cf VC 44.

6 Si legga l’interessante testo di Ripartire da Cristo (RdC 46a), circa il ruolo dei gio-vani candidati nella loro formazione e nell’adattamento dell’Istituto.

A guardare, capire e costruire man mano il futuro dell’Istituto e, in fin dei conti, del Regno di Dio, si trovano tutti insieme, poggiando, reg-gendosi e dandosi l’un l’altro la mano. Colui/colei che ha fatto già un certo percorso – come è il caso del formatore – conosce meglio come è stato finora il cammino, ma pian piano comincia a sentir vacillare i suoi piedi e a stancarsi la vista; colui/colei, invece, che gli si è appena acco-stato lungo la strada, ha naturalmente i piedi forti e la vista penetrante.

Ecco perché l’uno non può prescindere dall’altro: la via va percorsa insieme e il dialogo diventa imprescindibile perché è chiamato ad arric-chire entrambi, pur mantenendo allo stesso tempo ognuno il proprio ruolo nel cammino da fare (come formatore o come formando).7