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Rispondere costruttivamente

E LA PROFEZIA DEI CONSIGLI EVANGELICI OGGI Sabatino M ajorano 1

2. Rispondere costruttivamente

Nella prospettiva pedagogica, che è alla base di questo nostro incon-tro, è opportuno soffermarsi su alcuni aspetti che più da vicino toccano il nostro servizio ai giovani in formazione. Li indico in maniera schema-tica per favorire maggiormente lo scambio.

Occorre innanzitutto prestare attenzione all’effettiva significatività del linguaggio e dell’argomentare. Il sospetto e il rifiuto nei riguardi della morale, che oggi costatiamo, si devono in parte alla maniera in cui viene elaborata la proposta morale, a cominciare dalla prima cate-chesi. Si pensi, ad esempio, a quanto sia ancora forte la presentazione del bene come limite della libertà, dimenticando di porre in luce che

7 beneDetto Xvi, Deus Caritas Est [= DC], Lettera Enciclica, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2006, 1.

il bene è innanzitutto possibilità e autenticità della libertà. Rischiamo allora, soprattutto in contesto giovanile, di causare rifiuto e chiusura.

Tutta la nostra proposta dovrebbe essere fedele al bene come emer-ge dalla croce pasquale del Cristo: Dio (e di conseguenza le parole che egli ci dice sul bene) è amore che non vuole altro che la nostra pienezza e felicità; non è limite ma possibilità, fino a spogliarsi della sua stessa

“gloria”, perché noi lo percepiamo nella sua verità di dono (cf Fil 2,6-11). Non dovremmo mai dimenticare che, fin dall’inizio, è il “tentato-re” che presenta Dio e il bene come limite e non come possibilità (cf gn 3,1-6).

Questo non significa certamente sminuire le esigenze del bene mo-rale, che a volte prende anche la forma del no deciso; significa invece cercare di ridare al bene la sua “bellezza”, la sua “beatitudine”. Non è certamente facile, ma è quanto il Cristo ci ha indicato con la sua vita ed il suo insegnamento.

Analoghe riflessioni vanno fatte anche nei riguardi della maniera in cui argomentiamo la proposta morale. Nella nostra cultura è prevalente l’argomentare delle scienze. Ne deriva che il bene viene visto sempre più nella prospettiva del “possibile”. Sono evidenti i rischi di una tale razionalità: non tutto ciò che è possibile fare è bene. La cronaca ci pone incessantemente dinanzi alle drammatiche conseguenze a cui porta l’assolutizzazione individualistica del possibile: occorre discernimento.

Però, se vogliamo essere compresi, non possiamo continuare a pro-porre il bene basandoci prevalentemente su ragionamenti autoritativi, storici, metafisici. Occorre far nostro anche il ragionare del possibile e del futuro, visto in tutta la sua pienezza umana, arricchendolo e com-pletandolo con le altre forme di razionalità. La prospettiva dovrebbe essere quella del ragionare retto da speranza come emerge dal mistero pasquale del Cristo. Sarà possibile allora far comprendere che il bene è essere di più, è progetto, è futuro.

Parimenti importante è la corretta lettura dell’incomprensione nei riguardi delle norme morali, tanto diffusa oggi anche tra i giovani. Oc-corre evitare quell’approccio moralistico o farisaico che l’attribuisce solo a cattiva volontà o superficialità. È chiaro che queste non man-cano, però è altrettanto vero che l’incomprensione il più delle volte è dovuta al fatto che non vengono più socialmente percepiti i valori che le norme presuppongono.

Si pensi, ad esempio, alle norme etiche riguardanti la sessualità. Se proviamo a riflettere sulla maniera in cui sono proposte dalla catechesi,

ci accorgiamo subito che esse presuppongono una visione della perso-na, del corpo, della sessualità, che nel nostro contesto non è più pre-valente. Non possiamo perciò darla per scontata negli adolescenti e nei giovani. Diventa allora un errore pedagogico limitarsi a proporre le norme, senza sforzarci di far maturare quella visione più profonda e completa dei valori che le norme presuppongono.

Programmando il cammino pastorale di questo decennio, i vescovi italiani hanno denunciato con particolare preoccupazione «il crescente analfabetismo religioso delle giovani generazioni» che rende proble-matica la comunicazione religiosa.8 Credo sia giusto parlare anche di

“analfabetismo etico” che dobbiamo discernere attentamente per rida-re significatività alla nostra proposta. Più che colpevolizzarli di carida-renze la cui prima responsabilità appartiene al contesto (anche ecclesiale), dobbiamo aiutare i giovani a fare esperienza e maturare i valori che le norme presuppongono. Allora potranno effettivamente riconoscere come bene ciò che è detto dalla norma.

Una terza preoccupazione della nostra opera formativa, soprattutto in prospettiva vocazionale, è aiutare i giovani a sottrarsi alla crescente ipoteca della paura che li porta non solo a cercare sicurezza nel “così fan tutti” e nel “tutto e subito”, ma a legittimare il compromesso come unica via per sopravvivere.

già a metà del secolo scorso, H. Jonas parlava di una nuova euri-stica, quella appunto dettata dalla paura, riferendosi soprattutto allo sviluppo della tecnocrazia.9 In questi ultimi decenni i motivi di allarme a livello sociale si sono moltiplicati: terrorismo, minacce ecologiche, precarietà del lavoro…

Non possiamo però consegnarci alla paura, soprattutto non possia-mo accettare che sia essa a riscrivere i valori. Se lo facessipossia-mo

consegne-8 ConFerenza ePisCoPale italiana [= CEI], Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il primo decennio del 2000, Alba, Paoline 2000, 40.

9 «In una situazione quale ci sembra essere l’attuale, lo sforzo consapevole di ali-mentare la paura altruistica – in cui, insieme al male, si manifesti anche il bene che deve essere salvaguardato, insieme alla sventura, anche la salvezza che non va sovraccaricata di illusioni –, anzi quella stessa paura diventerà il primo dovere preliminare di un’etica della responsabilità storica. Ci si dovrà guardar bene dall’affidare il nostro destino a chi non ritiene abbastanza decorosa per la condizione umana questa fonte dell’etica della responsabilità, “la paura e la trepidazione” – che naturalmente non è mai l’unica fonte, ma talvolta del tutto ragionevolmente quella dominante» (jonas Hans, Il principio di responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Torino, Einaudi 1993, 286).

remmo la nostra società in mano alla violenza; il diverso e perfino il povero diventerebbero un “nemico” da cui è lecito difendersi; il bene perderebbe ogni idealità e si ridurrebbe a calcolo egoistico per la so-pravvivenza.

L’assolutizzazione della libertà costituisce un’ulteriore sfida alla qua-le la nostra opera formatrice deve cercare di dare delqua-le risposte costrut-tive. Sappiamo bene, infatti, quanto essa influisca sui comportamenti dei giovani. Il magistero richiama costantemente a un attento discerni-mento al riguardo. Basta ricordare la denuncia forte di giovanni Paolo II: «In alcune correnti del pensiero moderno si è giunti ad esaltare la libertà al punto da farne un assoluto, che sarebbe la sorgente dei valori.

In questa direzione si muovono le dottrine che perdono il senso della trascendenza o quelle che sono esplicitamente atee».10

Occorre aiutare i giovani a sperimentare la necessità di dare un fon-damento alla libertà attraverso il rapporto costante con la verità. «La libertà si radica nella verità dell’uomo, scriveva ancora giovanni Paolo II, ed è finalizzata alla comunione. Ragione ed esperienza dicono non solo la debolezza della libertà umana, ma anche il suo dramma. L’uomo scopre che la sua libertà è misteriosamente inclinata a tradire questa apertura al Vero e al Bene e che troppo spesso, di fatto, egli preferisce scegliere beni finiti, limitati ed effimeri. Ancor più, dentro gli errori e le scelte negative, l’uomo avverte l’origine di una ribellione radicale, che lo porta a rifiutare la Verità e il Bene per erigersi a principio assoluto di se stesso: “Voi diventerete come Dio” (gn 3,5). La libertà, quindi, ha bisogno di essere liberata. Cristo ne è il liberatore: egli “ci ha liberati perché restassimo liberi” (gal 5,1 )».11

Perché questo si realizzi è necessaria una pedagogia della fiducia, non già del sospetto, nella libertà. Il sospettare della libertà porta sempre al rifiuto del suo fondamentale rapporto con la verità, perché questa fini-sce con l’essere percepita solo come limite. Quando invece la proposta morale viene articolata sulla base della fiducia nella libertà, diventa pos-sibile far sperimentare che la morale vuole dare fondamento, autentici-tà, capacità di futuro alla nostra liberautentici-tà, aprendola all’amore.

È la prospettiva della Gaudium et Spes: «L’uomo può volgersi al bene soltanto nella libertà. I nostri contemporanei stimano grandemen-te e perseguono con ardore tale libertà, e a ragione. Spesso però la

10 VS 32.

11 Ivi 86.

coltivano in modo sbagliato quasi sia lecito tutto quel che piace, com-preso il male. La vera libertà, invece, è nell’uomo un segno privilegiato dell’immagine divina. Dio volle, infatti, lasciare l’uomo “in mano al suo consiglio” che cerchi spontaneamente il suo Creatore e giunga libera-mente, aderendo a lui, alla piena e beata perfezione».12

È necessario aiutare a discernere i “modi sbagliati” in cui la libertà viene oggi proposta, in nome soprattutto del consumo e del profitto. È possibile però farlo attraverso un approfondimento della libertà perché venga sperimentata come “segno privilegiato” della persona in quanto immagine di Dio. È un cammino impegnativo che chiede di considera-re sempconsidera-re la coscienza come il luogo di incontro tra verità e libertà: «La verità va cercata in modo rispondente alla dignità della persona umana e alla sua natura sociale: e cioè con una ricerca condotta liberamen-te, con l’aiuto dell’insegnamento o dell’educazione, per mezzo dello scambio e del dialogo con cui, allo scopo di aiutarsi vicendevolmente nella ricerca, gli uni rivelano agli altri la verità che hanno scoperta o che ritengono di avere scoperta; inoltre, una volta conosciuta la verità, occorre aderirvi fermamente con assenso personale. L’uomo coglie e riconosce gli imperativi della legge divina attraverso la sua coscienza, che è tenuto a seguire fedelmente in ogni sua attività per raggiungere il suo fine che è Dio».13

In questa maniera la libertà potrà essere sperimentata come respon-sabilità: radicandosi nell’amore, sentirà l’urgenza del rispondere, del donarsi, del servire. Anche a questo riguardo dobbiamo prestare atten-zione alle difficoltà e carenze che spesso i giovani presentano a causa soprattutto di un vissuto familiare che non li ha aiutati a sperimentare la gioia della corresponsabilità, del prendersi cura, del servizio reciproco.

Il nostro servizio formativo deve inoltre aiutare i giovani ad affran-carsi dall’esaltazione incondizionata del profitto e del mercato, che porta a chiudere gli occhi dinanzi ai tanti squilibri, emarginazioni, ingiustizie presenti nel nostro mondo sempre più globalizzato. È un clima sociale da cui non è facile affrancarsi. E questo nonostante le tante forme di solidarietà e di servizio volontario presenti tra i giovani.

12 ConCilio vatiCano ii, Gaudium et Spes [= GS] 16, in Enchiridion Vaticanum [=

EV], Documenti del Concilio Vaticano II. Testo ufficiale e traduzione italiana, 7ª edi-zione, Bologna, EDB 1968, 776-965; cf iD., Dignitatis Humanae [= DH], in EV 1968, 587-616, 1-3.

13 DH 3.

Che cosa ci guadagno? Questa domanda si pone sempre più alla base delle scelte, anche di quelle più decisive. gli altri criteri, a comin-ciare da quelli ispirati ai valori, vengono sempre più subordinati al pro-fitto. E questo in tutti gli ambiti di vita, non solo in quelli propriamente economici.

Si svela allora fondamentale nell’opera educativa far sperimenta-re che l’avesperimenta-re non può porsi come misura ultima delle nostsperimenta-re scelte.

Questo non significa certo dimenticare l’importanza dei beni per una effettiva qualità di vita, ma far sperimentare che essi, quando sono as-solutizzati, diventano idoli che contrappongono, dividono, chiedono il sacrificio degli altri e di noi stessi.

Le prospettive maturate dalla dottrina sociale al riguardo devono costantemente illuminare l’opera formativa: «L’avere oggetti e beni non perfeziona di per sé il soggetto umano, se non contribuisce alla matu-razione e all’arricchimento del suo essere, cioè alla realizzazione della vocazione umana in quanto tale. Certo, la differenza tra essere e avere, il pericolo inerente a una mera moltiplicazione o sostituzione di cose possedute rispetto al valore dell’essere non deve trasformarsi necessa-riamente in un’antinomia. Una delle più grandi ingiustizie del mon-do contemporaneo consiste proprio in questo: che sono relativamente pochi quelli che possiedono molto, e molti quelli che non possiedono quasi nulla. È l’ingiustizia della cattiva distribuzione dei beni e dei ser-vizi destinati originariamente a tutti […]. Il male non consiste nell’ave-re in quanto tale, ma nel possedenell’ave-re in modo irrispettoso della qualità e dell’ordinata gerarchia dei beni che si hanno. Qualità e gerarchia che scaturiscono dalla subordinazione dei beni e dalla loro disponibilità all’essere».14

Il consumismo, indotto dal profitto, si ripercuote in tutti gli ambiti.

È densa di conseguenze soprattutto la riduzione consumistica del corpo e della sessualità, accentuata dal premere dei modelli accattivanti, pro-posti attraverso i media.

La riscoperta del corpo è uno dei tratti che hanno caratterizzato maggiormente il cammino culturale in questi ultimi decenni. Alla luce dell’unità della persona in corpo e spirito, abbiamo capito i limiti di proposte pedagogiche del passato segnate da un sospetto dualistico nei riguardi del corpo. Occorre però aiutare i giovani a non cadere in

nuo-14 giovanni Paolo II, Sollicitudo Rei Socialis [= SRS], Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana 1987, 28.

ve forme di dualismo, anche se ispirate dall’idolatria del corpo: ridotto a idolo, il corpo non dice più persona e diventa nuovamente oggetto anche se coccolato.

Restano preziose le parole del Vaticano II: «Unità di anima e di cor-po, l’uomo sintetizza in sé, per la stessa sua condizione corporale, gli elementi del mondo materiale, così che questi attraverso di lui toccano il loro vertice e prendono voce per lodare in libertà il Creatore. Non è lecito dunque disprezzare la vita corporale dell’uomo. Al contrario, questi è tenuto a considerare buono e degno di onore il proprio corpo, appunto perché creato da Dio e destinato alla risurrezione nell’ultimo giorno. E tuttavia, ferito dal peccato, l’uomo sperimenta le ribellioni del corpo. Perciò è la dignità stessa dell’uomo che postula che egli glorifichi Dio nel proprio corpo e che non permetta che esso si renda schiavo delle perverse inclinazioni del cuore».15

Sarà allora possibile aprire i giovani a un approccio morale costrut-tivo nei riguardi della sessualità. Occorre far loro sperimentare che non si tratta di norme che vogliono reprimere, ma illuminare con la verità e la dignità della persona la gestualità sessuale, in maniera che ciò che il corpo dice sia effettivamente ciò che la persona vive. Il ‘no’ alla bana-lizzazione consumistica è in nome della dignità del corpo e dell’amore.