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Per risvegliare attenzione e suscitare problemi

E DELL’INTERCULTURALITÀ Bruno s eConDin 1

1. Per risvegliare attenzione e suscitare problemi

In effetti, in particolare per quanto riguarda la vita consacrata, no-nostante una larga e ricca tradizione storica che ci ha sempre visto ca-paci di gettare ponti fra culture e lingue, etnie e sensibilità religiose,

1 Bruno seConDin (ocarm) è docente ordinario di Spiritualità alla Pontificia Uni-versità gregoriana, docente di Storia della Spiritualità moderna, di Teologia della Vita Consacrata e di Ecclesiologia. Da molti anni è impegnato nell’animazione spirituale di gruppi e di comunità e collabora con molte riviste scientifiche su temi di spiritualità, di inculturazione della vita religiosa. Sono numerose e significative le pubblicazioni da lui curate, soprattutto nell’ambito della dimensione profetica della Vita Consacrata.

tradizione e innovazione, oggi nuove sfide inedite si affacciano. Si tratta da un lato di una riscoperta della propria identità carismatica, con una migliore descrizione degli elementi tipici di certe scelte evangeliche ra-dicali e profetiche della fondazione, prima invece soffocate da molte sovrastrutture e accumuli non coerenti. E dall’altro lato di riconoscere il nucleo incandescente trasformatore e transculturale che deve mante-nere nell’unità e nella convivialità le molteplici differenze.

Abbiamo bisogno di “altri” paradigmi e modelli culturali per riu-scire a prendere le distanze dalle nostre prigioni di tradizioni sacre e di abitudini pigramente conservate. Si tratta di una provocazione che una volta avveniva solo per chi cambiava cielo e terra, andando “altrove”.

Erano mondi diversi che solo occasionalmente si lambivano, senza for-se urti, ma anche for-se for-senza un vero feeling, con un certo rispetto e nulla più. Oggi questi “altrove” si sono fatti “prossimi” e coabitano con noi, in molte nostre comunità: panorami glocali (globali+locali) che ancora non sappiamo come trasformare in dimensione strutturale quotidiana feconda. Più che una identità standard con qualche variante colorata, la nostra identità comunitaria sempre più diventa un prisma attraverso il quale tutti gli apporti delle diversità entrano in vorticoso gioco di luci e di ombre.

E allora il problema non è più soltanto quello di fare vita comuni-taria regolare, di ritmi consueti e di gestione di opere più o meno ori-ginali o spesso pesanti. Si tratta di molto di più, per dirla col sociologo Z. Bauman, di riuscire a far germogliare una identità che sappia essere aperta e flessibile, incompleta e progrediente: più che di identità da ac-quisire mi pare che si possa parlare di una identificazione in progresso, che conosce processi e fratture, tensioni e composizioni, unità aperta e flessibile, non monolitica, ma come diversità riconciliata.2

R. Panikkar, riconosciuto maestro di interculturalità, afferma che

«l’apertura all’interculturalità è veramente sovversiva. Ci destabilizza, contesta convinzioni profondamente radicate che diamo per scontate, perché mai messe in discussione. Ci dice che la nostra visione del mon-do, e quindi il nostro stesso monmon-do, non è l’unica».3 Questo significa che, per chi lavora nel campo educativo e formativo, è urgente uscire dalla semplice riproposizione dei valori tradizionali della tolleranza e della convivenza, ma anche dalla prospettiva dell’integrazione e del

ri-2 Cf bauMan Zygmunt, La società individualizzata, Bologna, Il Mulino 2002.

3 Panikkar Raimon, Pace e interculturalità, Milano, Jaca Book 2002, 90.

spetto delle differenze. Si deve andare oltre, esplorando la possibilità di nuovi modelli educativi, diciamo anche di nuovi paradigmi trasversali e transculturali, a partire dall’accoglienza e dall’integrazione. Ma sen-za indugio avansen-zando oltre, verso una convivialità delle differenze che diviene direttrice di orientamento per una nuova maniera di costruire società e cultura, relazioni e corresponsabilità.

Per molti formatori e formatrici, mi sembra di ritrovare san Colom-bano redivivo: di lui si diceva che il suo pellegrinare a scopo missionario era “portare l’Irlanda con sé”. Per questo la sua forma monastica non ha attecchito in Italia (è morto a Bobbio), nonostante l’attività di predi-catore itinerante dalle nostre parti. Seguaci di questo santo ce ne sono tanti, oggi, difatti alcuni formatori e formatrici pensano che la loro cul-tura di origine sia ottima cosa da trasmettere e con la quale di continuo confrontano il nuovo per ridimensionarlo e scartarlo. Ed è pertanto già molto se hanno rispetto delle diversità e le tollerano con pazienza. Ma mai entrano in un processo di inculturazione, di identità multipla e di ibridazione culturale. Restano – vita natural durante – sempre italiani, o spagnoli, o tedeschi, o polacchi, o americani, ecc.

Anche se si trovano costantemente in una situazione di multi-ap-partenenza culturale, cercano di ricondurre la diversità delle culture in gioco ad uno standard (un minimo comune denominatore) che vor-rebbero considerare oggettivo e neutro, e invece è comoda fuga dalla complessità, per stare tranquilli. Ciò che poi passa anche alle stesse persone che vengono formate, perdendo quindi l’occasione di elabora-re insieme con loro la propria multi-appartenenza in maniera celabora-reativa, per rigenerare l’identità comune (in concreto il carisma e la derivata spiritualità) in prospettive originali e integratrici. Non si tratta di una ricerca a tavolino, uno studio teorico, ma di una sapienza pratica nelle vicende del vivere, del soffrire, dell’agire: ci vuole una giusta pedagogia per arrivarci.

Chiediamo ora luce alla Parola di Dio: scelgo alcuni passaggi della Chiesa primitiva – che fa parte delle letture della liturgia di questo tem-po pasquale – per cogliere il processo di sfida e cambiamento in circo-stanze solo all’apparenza fortuite. Seguendo i vari passaggi fattuali, e la linea di congiunzione tra loro, si vede in atto un disegno che viene dallo Spirito Santo e sempre di nuovo rilancia gli orizzonti.