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L’EVOLUZIONE STORICO-SOCIALE DEL CONCETTO DI CITTADINANZA

Nel documento Democrazia e Nuova Cittadinanza (pagine 82-84)

Democrazia e Nuova Cittadinanza Democracy and New Citizenship

L’EVOLUZIONE STORICO-SOCIALE DEL CONCETTO DI CITTADINANZA

Il termine “cittadinanza” è stato utilizzato, nel corso della storia, per delineare specifici istituti giuridici atti a garantire una sfera di diritti i cui ambiti di riferimento privilegiano, di volta in volta, l’aspetto oggettivo, quello soggettivo o, ancora, il loro rapporto dinamico e reciproco: “[…] da indicatore del modo in cui sono ripartiti i poteri e le risorse nell'ambito di un ordinamento politico- sociale, a rapporto tra individuo e ordine politico, inteso come partecipazione attiva del soggetto alla sfera pubblica o, ancora, intersezione tra individuo e collettività” (Chiosso, 2009, pp. 62-75).

La dimensione poliedrica ed eterogenea che le è propria ne rende, difatti, ardua una decisa riconduzione entro peculiari e ben definiti ambiti. Basti pensare che lo stesso senso semantico attribuito al termine cittadinanza è stato contrassegnato nel corso dei secoli da una ambiguità di base designando, al tempo stesso, la stanzialità del singolo rispetto ad un luogo fisico e la titolarità di una sfera di diritti/doveri: il cittadino è mero residente di una città, così come membro di uno Stato, cioè di una comunità politica che lo obbliga all’osservanza di doveri riconoscendogli, parimenti, una sfera di diritti.

Dal punto di vista etimologico, appare chiara la derivazione stricto sensu “dal latino civitas-atis, che nella sua prima accezione indicava sia l’insieme dei cives, sia la condizione del civis. Lo status civitatis rifletteva la posizione giuridica del soggetto nei confronti dell’ordinamento giuridico dello Stato, sia dal punto di vista dei diritti politici, sia dal punto di vista dei diritti civili” (Romanelli Grimaldi, 1995, pp. 1-5).

Tuttavia, la genesi del concetto è chiaramente rinvenibile già nel V secolo A. C. nelle antiche πόλεις (póleis) greche, dove si qualifica come vero e proprio vincolo sociale di natura giuridica. Infatti, sia pure intrinsecamente correlato al concetto di prossimità spaziale, al diritto di nascita e all’appartenenza ad una classe sociale che possa garantire al soggetto un determinato “censo”, non si qualifica come privilegio perpetuo, ma è direttamente subordinato al mantenimento dello stato di ἐπιτιμία (epitimia) che consente al “cittadino” la partecipazione attiva alla complessa rete di diritti e doveri che costituiscono la società.

“Realizzare sé stessi è ritenuto possibile solo in uno spazio condiviso. La stessa possibilità di eccellere, dando corpo a quelle virtù che fanno della vita (coraggio, generosità, ecc.) un’esistenza umana, non si dà in privato ma presume una sfera pubblica (Mortari, 2008, p.9).

È la partecipazione attiva e responsabile alla vita della πόλις (polis), dunque, a costituire il substrato essenziale affinché possa realizzarsi la trasmutazione della condizione umana: da individuo a cittadino e da singolo a pluralità. “[…] La pluralità è ciò che lega i pochi ai molti e il singolo agli altri […] gli uomini e non l’Uomo, vivono sulla terra e abitano il mondo” (Arendt, 1995, p.49). “Non potrebbe esistere vita umana […] senza un mondo che attesti […] la presenza di altri esseri umani. […] L’azione non può essere nemmeno immaginata fuori della società degli uomini››. (p. 45) Nell'antica Roma, la cittadinanza costituisce la prerogativa ineludibile affinché al singolo venga riconosciuta la piena capacità giuridica: diritto di voto, capacità negoziale, patria potestas, dominium su persone e cose. Nell’età Repubblicana è intrinsecamente correlata allo ius sanguinis e al concetto di prossimità spaziale, dal I secolo viene estesa ai Latini e agli Italici, per giungere nel III secolo, con la Constitutio Antoniniana emanata da Caracalla, a designare tutti i sudditi dell'impero romano di sesso maschile in possesso dello status libertatis.

Con la caduta dell’Impero Romano, si assiste anche al declino del concetto di cittadinanza: il cittadino viene, di fatto, sostituito col suddito cui non sono attribuite situazioni giuridiche attive, ma è soggetto esclusivamente a doveri e obbligazioni.

È con l’Età Moderna e, in particolare, con gli eventi storico-politici successivi alla Rivoluzione Francese che tale concetto acquisisce nuova linfa vitale fino a divenire un vero e proprio dispositivo utile a creare comunità politica condivisa fra i cittadini. L’espansione dei confini territoriali, l’aumento della popolazione, le nuove dinamiche socio-politico-economiche che vengono a configurarsi fanno sì che il singolo si appropri di un ruolo man mano più attivo, possibilità configurabile esclusivamente in virtù del riconoscimento di specifici diritti civili e politici che, di fatto, sanciscono il diritto al mantenimento dei diritti naturali.

Tale processo di emancipazione del cittadino “fu l’effetto, oltre che dell’entusiasmo morale suscitato dalla Rivoluzione francese anche del rovesciamento del rapporto tradizionale tra società civile e Stato e della scoperta della preminenza della società civile sullo Stato […]. Oggi appare sempre più profetica l’idea di Saint-Simon che la vera rivoluzione del tempo non era stata la Rivoluzione Francese, rivoluzione soltanto politica, ma la Rivoluzione industriale, onde soltanto nel pieno sviluppo della società industriale (e non nella sostituzione di un regime politico ad un altro) si può realizzare la vera libertà, cioè quella cui si perviene col massimo sviluppo delle potenze materiali e intellettuali dell’uomo, e consiste nello sviluppare senza catene e con tutta l’estensione possibile una capacità materiale e teorica utile alla vita collettiva” (Bobbio, 2009, pp.81-82).

Consapevolezza, questa, che impone un deciso cambio di ruolo dell’individuo che da bourgeois acquisisce lo status di citoyen: “dal cittadino definito esclusivamente in base a un criterio spaziale (colui che abita un dato territorio) al cittadino attivo in quanto titolare di diritti civili e politici. Quest’ultimo punto in particolare ricorda che il passaggio da sudditi a cittadini, ciò che assegna al popolo la sovranità, crea le premesse sociopolitiche per gli stati moderni e per le democrazie liberali (Tarozzi, 2008, p.122).

Il nascente concetto di “sovranità popolare” dà impulso alla nascita della democrazia intesa, per dirla con Norberto Bobbio, come “società dei cittadini” (Bobbio, 1990, p.7).

Tuttavia è con Rousseau che si delinea più chiaramente il fine che determina la relazione tra Stato e cittadino. Il concetto di cittadinanza elaborato dal filosofo ginevrino si fonda su un assunto di base che, in termini aristotelici, rinviene nell’azione politica il pieno compimento e la completa realizzazione dell’individuo. Per la prima volta lo Stato viene riconosciuto come “un’entità” che permette, a sua volta, l’auto-riconoscimento dei cittadini come uomini uguali detentori di sovranità politica delineando “la cittadinanza” come specifica categoria del pensiero politico-sociale che chiama in causa i concetti fondamentali di identità, riconoscimento, soggettività, comunità, territorio, diritti universali e sociali.

In altri termini, la cittadinanza viene intesa come garanzia del mantenimento di quella eguaglianza proprio “dell’uomo naturale” secondo le mutate forme di un’eguaglianza civile e politica. Concetto che, via via, acquisirà una valenza universalistica decretando definitivamente l’esigenza di uno Stato regolato dal diritto privato e da un governo scelto dai cittadini, garante dei “diritti inviolabili dell’uomo”. Tale visione raggiungerà la sua piena concretizzazione con la proclamazione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino nel 1789.

Tuttavia, la stessa Costituzione francese promulgata nel 1791, subordinando l’espletamento dell’attività politica del cittadino a sterili criteri censitari, ne inficia il naturale fondamento che, al contrario, poggia sull’universalismo dei diritti dell’uomo in quanto tale.

Solo a partire dal XIX secolo i rigidi criteri identificativi dello status civitatis, per come sopra identificati, iniziano a vacillare senza, tuttavia, giungere ad una inclusività che vedrà la luce solo a partiredalla seconda metà del XX secolo.

Nella fase odierna, che ha inizio con la Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1948, vengono superate le barriere economiche, sociali, culturali e di genere che, per secoli, hanno ostacolato l’esercizio di una cittadinanza attiva, intesa come partecipazione ai processi di formazione della volontà politica. Nei tempi attuali le dinamiche inerenti al fenomeno della globalizzazione obbligano il singolo a confrontarsi con specifiche realtà sociali, culturali, etniche, linguistiche, religiose che postulano il loro reciproco riconoscimento. L’idea di cittadino che ne deriva si svincola dalle strette maglie scaturenti dal concetto di nazionalità e ricerca un nuovo e variegato fondamento che includa l’appartenenza alla società e alle molteplici comunità che lo costituiscono. La cittadinanza diventa un mezzo utile al raggiungimento dei fini di inclusione, coesione e sviluppo per il tramite di una partecipazione politica che si nutre dei principi di eguaglianza giuridica e cresce nei valori costituzionali. Ciò richiede alla scuola, in quanto agenzia “intenzionalmente” formativa, di contribuire attivamente a delineare un nuovo concetto di παιδεία (paideia) alla luce di “[…] un fondamentale atteggiamento di problematicità culturale” (Burza, 1999, p. 105).

Nel documento Democrazia e Nuova Cittadinanza (pagine 82-84)

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