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PERCHÈ INSEGNARE STORIA DELL’ARTE?

Nel documento Democrazia e Nuova Cittadinanza (pagine 155-157)

Heritage education and citizenship School and university design a 4.0 city museum

PERCHÈ INSEGNARE STORIA DELL’ARTE?

Se le mostre richiamano folle disposte ad affrontare lunghe code per partecipare all’epifania di capolavori, spesso esposti in percorsi (criticamente e culturalmente) semplificati ma adatti a strategie di marketing ben congegnate, i musei pubblici (tranne rare eccezioni, come gli Uffizi o i Musei Vaticani) sono pressoché deserti malgrado conservino opere e artisti fondamentali per la storia della cultura. Secondo il rapporto di Federculture (2018), la maggioranza degli italiani diserta i luoghi del patrimonio culturale a meno che non offrano servizi –il caffè o il ristorante, sedute accoglienti e wifi gratuito – o attività che trasportino l’esperienza della visita dalla dimensione del “vedere” (considerata noiosa e passiva) a quella (più attraente e partecipante) del “fare”. In questa prospettiva le istituzioni hanno investito sull’«accessibilità digitale»: informare e divertire con le applicazioni digitali, che consentono di personalizzare i contenuti (per lingua, età, formazione e interessi), di aggiungere informazioni (sulla provenienza degli oggetti, sulla storia del sito e sulla sua fortuna nella letteratura e nel cinema), di arricchire il percorso (rendendo “presenti” oggetti in restauro, in deposito o di solito disponibili solo per le ricerche degli specialisti, perduti per sempre oppure conservati dall’altra parte del mondo) e di monitorare i tempi e i modi della visita per favorire nuove occasioni di “ingresso”, sembrano incoraggiare il pubblico a valutare musei, aree archeologiche e monumenti come un’alternativa credibile per il tempo libero. Inoltre, il nuovo paradigma con cui la rete ha superato il web 2.0, l’espansione dei rimandi incrociati nel flessibile processo di comunicazione dei social network e la possibilità di creare nuove comunità di conoscenza, aperte al contributo di tutti e alla condivisione di informazioni e di esperienze, autorizza modalità ubiquitarie di fruizione che

modificano radicalmente lo statuto tradizionale del pubblico – o, meglio, dei pubblici – dell’arte: da insieme di visitatori a comunità di utenti, la partecipazione si estende (o si confina?) fuori dagli spazi fisici di musei e monumenti. È la dimensione collettiva, sociale, partecipata e cooperativa della rete che, quest’anno, ha trasformato il segno meno determinato dalla chiusura dei luoghi della cultura a causa delle prescrizioni dovute alla pandemia da covid-19 nel segno più dei milioni di “contatti” che,

su Facebook, Instagram, Twitter, YouTube, sui siti web, le web tv e Google Art & Culture hanno premiato gli appuntamenti virtuali del MiBact. Iniziative sincrone, come interviste, lezioni e passeggiate guidate dal personale del sito e laboratori didattici, o asincrone, come l’invito a riprodurre o ricreare un oggetto delle collezioni, caccie al tesoro a distanza e quiz, hanno attivato milioni di visualizzazioni, sollecitato centinaia di migliaia di post e attratto follower ancora più numerosi. Tempi molto brevi di fruizione e scarsa interazione (su Instagram, in particolare), hanno però acceso qualche sospetto sugli effetti nel lungo periodo (e in presenza) di questa eccezionale attrazione per il patrimonio (Pirrelli, 2020).

In attesa delle analisi che senz’altro seguiranno, è utile ricordare che nel 2012 i visitatori italiani dei

nostri musei costituivano poco più della metà del pubblico complessivo, che i visitatori residenti erano in progressiva e drammatica diminuzione (così come quello del pubblico con titoli di studio medio- bassi) e i ragazzi tra i 18 e i 24 anni non frequentavano i musei se non in occasione delle gite scolastiche o delle attività extracurriculari proposte dal loro corso di studi: la sensazione di disagio e «inadeguatezza culturale» era la motivazione ricorrente del «non-pubblico», solo in parte colmata dai dispositivi di accessibilità digitale, mentre anche i visitatori più appagati denunciavano la mancanza di una preparazione di base per godere pienamente dell’esperienza (Solima, 2012). Il pubblico dell’arte, quindi, non sembra oggi troppo diverso da quello che Pierre Bordieu e Alain Darbel descrivevano nella loro inchiesta seminale sull’«amore per l’arte»: confusi dall’equivoco del «privilegio culturale» come diritto naturale, per gli autori i visitatori dei musei europei allora soffrivano della mancanza di una formazione adeguata per appropriarsi del patrimonio che, questo sì per sua stessa natura, è di tutti (Bordieu, Darbel, 1972).

D’altra parte, malgrado la richiesta diffusa di più storia dell’arte nella vita scolastica documentata da studi recenti – da quello promosso dalla Fondazione Marilena Ferrari e pubblicato dalla Scuola di specializzazione per l’insegnamento dell’Università di Bologna (Nicolini, 2010, p. 83), per esempio –, nonostante le opportunità di potenziamento curriculare suggerite dalla riforma scolastica del 2015 (segnalate anche da ANISA, l’Associazione nazionale insegnanti di storia dell’arte) e la convinzione condivisa che la storia dell’arte partecipa alla formazione delle competenze di base ineludibili, l’insegnamento della disciplina nella scuola vive una reale difficoltà. E non solo a causa dell’esiguo numero di ore a fronte della complessità della materia. Come è possibile, infatti, adattare gli obiettivi specifici della disciplina – la consapevolezza della consistenza materiale degli oggetti, la lettura del linguaggio della forma e la comprensione delle sue trasformazioni in una prospettiva storica e culturale sincronica e diacronica – al mondo “gassoso” della smaterializzazione digitale e della globalizzazione, dell’eterno presente, della discontinuità, dell’eccedenza delle informazioni e della dimenticanza, così distante dal contesto in cui la disciplina è nata e si è sviluppata come materia d’insegnamento (Dalai Emilani, 2003;Simoni, 2009, pp. 124-125) ?

Quale storia dell’arte può trasmettere le informazioni cronotopologiche necessarie per orientarsi più o meno agevolmente in un museo, in un’area archeologica o in un centro storico, meglio sarebbe se della propria città, senza perdere di vista i «panorami sconfinati alla coscienza e all’azione dei singoli e delle comunità» del mondo globale (Giardina et al., 2019, p. e Bartolini, 2020, p. 22)?

In gioco non c’è solo una buona formazione di base, ma l’opportunità della «sola, tra le storie speciali, che si faccia in presenza degli oggetti, e quindi non debba evocarli, né ricostruirli, né nominarli, ma

solo interpretarli» (Argan, 1969, p. 9) di mettere al centro del processo educativo temi come la relazione, la differenza, il desiderio, l’identità individuale e collettiva e partecipare alla costruzione di significati. Per incoraggiare gli studenti a definire la propria visione del passato e del futuro a partire dal presente e diventare individui consapevoli e cittadini attivi, in grado di scegliere e agire nella sfera pubblica (Simoni, 2009, p. 125).

Nel documento Democrazia e Nuova Cittadinanza (pagine 155-157)

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