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VERSO UNA CURA ECOLOGICA

Nel documento Democrazia e Nuova Cittadinanza (pagine 125-129)

Re-thinking the differences between nature and culture

VERSO UNA CURA ECOLOGICA

Il periodo storico attuale, segnato dagli effetti della pandemia da Covid-19 (cfr. Lingiardi, Giovanardi, 2020), ci impone una riflessione profonda circa la necessità di ri-disegnare, nel “tempo della complessità” e dell’incertezza (cfr. Ceruti, 2017; 2020) nuovi orizzonti di co-noscenza. Lo stesso tema della “cittadinanza” richiede di essere declinato, in un’ottica meta-inter-poli-trans-disciplinare, nei termini di un’educazione sociale che parta dall’assunzione di un principio di eco-sostenibilità delle azioni individuali. Si tratta, in altri termini, di ripensare in chiave ecologica (cfr. Mortari, 2017; 2018; 2020) la sostenibilità (dal lat. sustinere, “aiutare”, “nutrire”, “essere capace di”) del proprio agire e del proprio essere al mondo in qualità di soggetti di cura. Nella logica delle organizzazioni, infatti, l’insegnamento più grande che è possibile trarre dall’esperienza della pandemia è che il corretto svolgimento del mandato individuale da parte di ogni singolo soggetto garantirebbe – consentendo ad ognuno di lavorare nel migliore dei modi – una maggiore efficacia nel raggiungimento di traguardi comuni; ma anche, al contempo, che ogni azione è destinata a provocare, nel bene e nel male, effetti a cascata sull’equilibrio dei singoli e dell’intero sistema sociale. Nell’ottica delineata ritornano dunque in auge le lezioni di A. S. Makarenko (1939) e di A. Gramsci (1967): il fare operoso alla base di ogni forma di col-laborazione, di co-operazione e di com-unione è quanto di più rivoluzionario possa esistere nella prospettiva di una ecologia dell’agire educativo in grado di ri- pensare la formazione dell’uomo a partire dal nesso indissolubile tra cura mundi e cura hominis. In questa sede, in linea con il discorso che si sta qui conducendo, mi sembra quantomai opportuno riproporre il tema della “cittadinanza” così come ripreso da W. Golding nel suo romanzo intitolato Lord of the Flies (1954). In tale opera si narra di un gruppo di bambini e ragazzi precipitati con un aereo su di un’isola sperduta e costretti, dopo essersi ritrovati senza genitori, a riorganizzare la loro vita su un fazzoletto di terra nel bel mezzo dell’oceano. In apertura viene descritto l’incontro tra Ralph e Piggy – due dei protagonisti principali –, i quali, sin da subito, decidono di organizzare delle prime adunate, richiamando bambini e ragazzi attraverso il suono emesso con il guscio di una conchiglia di mare casualmente trovata sulla spiaggia. I presenti sull’isola convengono così, incontrandosi e dibattendo attorno ad un fuoco acceso nel bel mezzo di una radura, sulla necessità di concordare delle prime regole di convivenza: disposti in cerchio, stabiliscono di poter prendere a turno la parola solamente dopo aver chiesto di entrare in possesso della preziosa conchiglia. Si tratta, come si evince da un’attenta lettura, di un romanzo carico di suggestioni. Rispetto all’idea rivoluzionaria di poter ristabilire, in una immaginaria “terra promessa”, nuovi rapporti di forza e di produzione, oltreché una nuova struttura sociale, ritorna l’idea recondita che in assenza di un’adeguata educazione bambini e ragazzi “civilizzati” avrebbero potuto sviluppare spontaneamente una “nuova natura”, trasformandosi in individui accecati dalla brama di potere e adusi ad esercitare la più bieca violenza. In questo senso non si può non considerare, più d’ogni altra cosa, il valore archetipico della Cura concepita, dal punto di vista eco-logico, come pratica “sociale”: mentre l’utilizzo della conchiglia, considerata sin dall’antichità come un simbolo di fertilità e di rinascita, implica il ricorso al “mezzo comune”, la

formazione del cerchio secondo una logica che ricalca, in chiave evolutiva, la prima forma di organizzazione “corale” dello spazio sociale (χώρα), risulta connessa alla ricerca dell’equilibrio. Tuttavia, l’utilizzo della metafora organizzativa del “cerchio” da parte di Golding riflette il fallimento dell’ideale utopico di una società “olo-cratica” che si riteneva avrebbe potuto promuovere il rinnovamento dei rapporti tra i suoi singoli membri a partire da un più equilibrato rapporto con l’intera natura.

Le coordinate del modello ideale appena delineato richiamano alla mente le regole organizzative che porteranno, nell’Atene del V sec. a. C., alla formazione della cosiddetta assemblea (ἐϰϰλησία) deliberativa, uno dei luoghi educativi per eccellenza della Paideia deputati alla formazione del cittadino (cfr. Finley, 1972). L’etica del dia-logo che ne era alla base, ispirata a principi di solidarietà e di uguaglianza, basata sulla πίστις tra “uguali” – a Sparta definiti oμοιοι –, sembra consolidarsi tra i cosiddetti “migliori” (ἄριστοι), per assumere poi gradualmente un’importanza sempre maggiore nei processi politici che porteranno all’affermarsi della democrazia e al coinvolgimento nei processi decisionali anche degli appartenenti ai ceti meno abbienti del δῆμος. I principi organizzativi alla base dell’assemblea popolare, per molti versi analoghi a quelli che regolavano lo svolgimento di altre pratiche sociali, sembrano infatti derivare da quelli che nell’antichità regolamentavano – oltreché i banchetti, la spartizione dei bottini di guerra e i giochi funebri – le antiche assemblee militari (cfr. Detienne, 1967): la delimitazione di un luogo adeguato che avrebbe dovuto consentire la disposizione “circolare” dei partecipanti (ἀγορά); il mantenimento di un’analoga equidistanza da un “centro” (ἀγών) che avrebbe permesso ad ognuno di recarsi “nel mezzo” per prendere parola in nome del gruppo; la presenza di un araldo preposto a “mettere nelle mani” lo scettro che avrebbe conferito ai singoli la facoltà di esprimersi a turno nell’interesse dell’intera comunità (ϰοινωνία) (cfr. ibidem). Il tentativo di realizzare l’isegoria, l’isonomia e l’isocrazia nell’ambito di quella che sarà la πόλις implicava dunque la ricerca, attraverso il ricorso alla πολιτική τέχνη, della comune “verità” (ἀλήθεια) e del bene comune: il cosmo-politismo congenito della cultura greca, caratterizzato dal rapporto armonico tra l’uomo e il cosmo, veniva a riflettersi, giocoforza, nell’organizzazione del consesso sociale.

La riflessione fino ad ora condotta ci porta dunque a riconsiderare la Cura del mondo, nelle sue molteplici forme, in chiave eco-logica: il fascio di azioni volte a promuovere il benessere di sé e di ogni altro-da-sé sono il riflesso della cura che si ha del mondo. Sebbene le cose, alla stregua di sfingi, siano lì, da sempre, a ricordare all’essere umano il loro limite invalicabile, è proprio l’illusione di poterne modificare “geneticamente” la cifra ontologica ad aver determinato le grandi tragedie dell’Ottocento e del Novecento: la rimozione, attraverso la creazione di “riserve” e “campi di rieducazione”, di ogni forma di diversità dal sistema sociale e produttivo, e la “riduzione” dei corpi deietti (v. Heidegger, 1927) ad una mera “combinazione di numeri” (“Weltlos”). Ciò che si vuole sottolineare in questa sede è la necessità di ridisegnare una nuova “economia” (dal gr. οἶϰος, “casa” e νόμος, “norma”) di rapporti all’interno di una nuova “ecumene” (o ἦθος): di promuovere una cura- del-sé-e-dell’altro che riparta da un principio di responsabilità nella cura dell’intero “creato”. Non si tratta ovviamente di cogliere, di tale “pratica” con(n)ativa, solamente la natura circolare e “a doppia spirale” – nel senso, delineato da M. Foucault, del to di’allēlōn sōzesthai” (Foucault, 1984, tr. it. p. 55) –, ma anche la funzione – per così dire – “a doppia entrata”. Dispiegata secondo la logica dell’eterocronia, l’azione di Cura contiene infatti in sé il doppio sigillo dell’egoismo/altruismo. In una prospettiva “auto-ecologica ed “etero-ecologica” di sviluppo – nei termini di un investimento che va oltre la logica del benessere immediato – la cura che ho dell’altro è infatti traducibile, al contempo, non solo come cura-che-ho-dell’altro-per-l’altro ma anche come cura-che-ho-dell’altro-per-me, così come, per converso, la cura che ho di me è non solo cura-che-ho-di-me-per-me-stesso ma anche cura-

che-ho-di-me-stesso-per-l’altro. Si tratta di un’ecologia di rapporti di reciprocità che affonda le sue radici nel mondo-comune in cui il sé e l’altro-da-sé naturalmente co-abitano e co-esistono; un sistema complesso di relazioni che porta in sé il sigillo di una Cura-per-Noi in cui il “mondo-proprio” e il “mondo-altrui” – Umwelt e Umgebung (cfr. Uexküll J. von, Kriszat G., 1934) – divengono l’uno propaggine dell’altro.

CONCLUSIONI

Educare alla cittadinanza, alla luce di quanto emerso, significa dunque porre, in primo luogo, le condizioni necessarie per la formazione di un essere umano che possa dirsi a tutti gli effetti “cosmo- polita”. I vari percorsi di educazione sociale necessitano quindi di prendere le mosse dal rispetto della nostra “Casa Comune”: l’obiettivo principale dovrebbe consistere nella promozione di una più approfondita conoscenza delle diverse concezioni, susseguitesi nel tempo e nello spazio, dei rapporti intercorrenti tra uomo e natura, al fine di ritrovarne, nel rispetto e nella tutela delle diversità, la sotterranea falda comune.

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Digital citizenship nei contesti educativi. La nuova sfida dell’educazione

Nel documento Democrazia e Nuova Cittadinanza (pagine 125-129)

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