New pedagogical perspectives for an education in democratic and social citizenship
PROSPETTIVE DI WELFARE RELAZIONALE NEL POST-MODERNISMO
L’irriducibile pluralità delle esperienze educative, oggi più che in passato, rappresenta il più realistico punto di partenza per un’analisi nuova circa la figura professionale dell’educatore contemporaneo. Infatti, queste esperienze presentano diversi gradi di formalizzazione, intenzionalità, progettualità, consapevolezza, ma anche capacità adattiva e trasversalità nella pratica educativa; non solo caratteri positivi, però, lì dove spesso intenzioni e obiettivi si presentano tra loro conflittuali o antagonisti, determinando nei soggetti coinvolti una difficile quanto farraginosa ricerca di convivenza e equilibrio. Il peso diverso delle esperienze educative, però, contribuisce in misura assai differente alla formazione dei soggetti, a seconda dell’importanza attribuita ad ogni azione che, spesso, è dichiarata dall’esperienza stessa. Quando un’esperienza si può definire formativa? E quanto, in termini pedagogici, questa può essere ricompresa in termini quantificabili? Tanto la sfera familiare, quanto quella scolastica, ma anche nelle esperienze strutturate, la risposta pratica all’interrogativo rappresenta un punto di svolta nella ridefinizione della figura dell’educatore e nel suo possibile legame – o per meglio dire relazione – con le azioni di pratica educativa all’interno, nella moderna idea di welfare a carattere relazionale. Un tema complesso che, per molti aspetti, rappresenta un problema proprio della pedagogia, lì dove l’educazione e la relazione diventano i due elementi
fondativi dello sviluppo moderno di politiche di benessere orientate sul rapporto interpersonale nel contesto di comunità.
Muovendo l’analisi delle esperienze tradizionali del mondo educativo, dai sistemi classici formali, non formali e informali, il senso dell’analisi proposta mira a individuare possibili nuovi spazi all’interno dei tre macro contesti educativi per eccellenza: la famiglia, la scuola e il gruppo dei pari. Esiste, inoltre, ed è bene quanto meno citarla, una precisa distinzione tra azione educative intenzionali e azioni educative non dichiaratamente intenzionali. L’idea, quindi, di riqualificare un’azione educativa, una esperienza, secondo quanto su indicato rappresenta la vera sfida, la nuova sfida, per ridefinire la figura professionale dell’educatore in quanto attore formato e qualificato, in grado di fronteggiare le diverse sfide della contemporaneità ma, soprattutto, di sfidare in pratica le problematiche educative che la modernità presenta; non solo, quindi, un educatore pronto alle sfide racchiuse nei luoghi principali dell’educazione, come la famiglia e la scuola, ma anche un professionista in grado di fare pratica educativa in contesti complessi e nuovi, tracciando una nuova mappa delle esperienze educative che considera l’insieme delle esperienze collettive la traccia reale dell’esistenza e il riferimento principale per sviluppare e progettare nuovi percorsi educativi. I luoghi e i tempi dell’educazione si presentano come contesti differenziati, “ciascuno dei quali riveste un ruolo specifico e una originale funzione”, e dall’uno all’altro di questi contesti varia il grado di intenzionalità e formalizzazione (Frabboni, Pinto Minerva, 1999, p. 64). Il carattere ermeneutico delle esperienze educative diventa elemento necessario e possibile per riformulare percorsi formativi utili a fronteggiare la crescente crisi dei maggiori contesti e luoghi: famiglia, scuola e gruppo dei pari. A questi si aggiungono, poi, anche delle variabili che mutano spesso l’interpretazione dell’esperienza educativa stessa, come ad esempio il rapporto con i mezzi di comunicazione di massa, spesso etichettati come diseducativi, ma che in realtà rappresentano una variabile imprescindibile per riformulare una nuova idea di educatore. Dalla radio alla televisione, giungendo fino a internet e all’avvento e diffusione dei social network, il mondo dell’educazione oggi deve necessariamente guardare con maggior attenzione all’evoluzione dei modelli propinati dai nuovi sistemi di comunicazione, lì dove il legame tra educazione e comunicazione sta diventando sempre più fitto e complesso. La standardizzazione dei comportamenti diffusi, derivanti da un certo utilizzo della pubblicità in televisione, come ricorda Cambi (1995, p. 527), depaupera o sostituisce l’intelligenza verbale concettuale, logica, con notevoli rischi per la cultura e l’identità psichica dei soggetti, regolando mode, consumi, modelli di comportamento attraverso la visione reiterata e il godimento immediato che essa produce.
Il lavoro, altra variabile da porre sotto la lente d’ingrandimento, diventa educativo perché è educativa la cultura dell’organizzazione nella quale i soggetti, a diverso titolo, operano, una cultura che spesso dichiara e persegue i propri intenti educativi esplicitando e premiando le caratteristiche del lavoratore ideale, quello dedito all’idea di lavoro buono esplicitata a più riprese da Rossi: “il lavoro buono è preziosa esperienza di soggettivazione, in quanto liberante e realizzativa, creativizzante e valorativa. È vicenda di coinvolgimento, provocazione e pratica delle diverse componenti della personalità», e si differenzia da quello cattivo quando si materializza come «evento di frustrazione, discriminazione, emarginazione” (Rossi, 2014, p. 108).
Il concetto di Welfare State, sempre più attuale nelle ricerche moderne, anche nelle scienze dell’educazione, appartiene a una cultura sociale e politica che muove i suoi passi da molto lontano. In tempi più moderni, il termine, così denso di significati e prospettive, è entrato a far parte del linguaggio comune della politica, tanto da essere utilizzato per definire un Ministero che si occupa di tutto quello che riguarda il sociale, con un’attenzione particolare, ma non esclusiva, all’assistenza per coloro che si trovano in situazioni di difficoltà. Nel tempo, però, il solo studio sociale e politico del
termine e delle sue evoluzioni, ha prodotto una profonda crisi, specialmente nell’aspetto pratico. In molti hanno sostenuto, a ragione, l’importanza del contributo di altre discipline nella strutturazione e programmazione di una politica di welfare in grado di sopperire alle lacune dello Stato sociale della Repubblica.
La crisi del Welfare State1 ripropone in maniera precisa il rapporto tra pedagogia e politica, evidenziando come in ogni epoca storica questo si sia caratterizzato per un momento di riflessione, proprio della pedagogia, intrecciato con la dimensione politica che, diversamente, ha caratterizzato il piano sociale, dando all’educazione quel tassello mancante, ovvero quell’incapacità di situarsi in un preciso progetto (Balzano, 2017, p. 50). Il sistema di welfare relazionale tradizionale, fondato su rapporti interpersonali sempre più forti, ha posto le basi per l’evoluzione della moderna idea di welfare di comunità, lì dove lo spazio educativo, il luogo dove si sviluppa il progetto educativo, diventa terreno fertile per comprendere e interpretare, in chiave pedagogica, i moderni rapporti caratterizzanti la società liquida (Bauman, 2011). Il cosiddetto targeting è divenuto, nell’ultimo decennio, un elemento chiave nell’elaborazione delle politiche sociali e ha attraversato, con differente intensità, tutti i modelli precedentemente esposti. Fanno eccezione i welfare scandinavi che, in virtù di una robusta impalcatura di tipo universalistico storicamente consolidata, riescono a esserne quasi completamente immuni. Essi, di fatto, limitano la presenza di fenomeni di selettività solo in termini di declinazioni comunitarie, tendenti a consolidare il benessere dell’intera popolazione secondo la radicata cultura della ‘casa di tutti’ e non solo dei bisognosi.
Restringendo il campo di analisi del welfare di comunità, utilizzando l’esperienza storica dei diversi approcci, da quello societario al welfare mix, o il secondo welfare, quello plurale radicale e, infine, quello generativo, ci troviamo a dover affrontare un campo sicuramente ricco di esperienze ma, specialmente in campo educativo, si tratta di approcci che aprono comunque all’esterno, con tutti i rischi del caso. L’apertura del welfare a soggetti esterni al perimetro pubblico e provenienti dalla sfera del mercato, delle associazioni intermedie e della famiglia, comporta necessariamente il ripensamento dell’intero rapporto, della relazione, che intercorre tra gli attori specializzati, gli educatori, e tutti gli altri interpreti (genitori, insegnanti, ecc.). Le esperienze di welfare di comunità, infatti, risultano essere molto eterogenee e oscillano dalla semplice aggregazione della domanda a vere e proprie forme di mutuo aiuto, fino a forme di collaborazione attiva. Quello che vi è alla base di questo approccio è che facendo leva sulle risorse delle famiglie e delle comunità, e mettendole in dialogo tra loro, si produca qualcosa in più della somma dei singoli addendi. Tutto ruota, perciò, intorno a beni relazionali, cioè a cose che hanno un valore che consiste, sostanzialmente, nell’essere in grado di modificare la relazione tra i soggetti coinvolti, dando vita a forme interpersonali basate sulla fiducia, sulla reciprocità, e sulla condivisione di responsabilità. Nasce così l’idea di beni di comunità, collaterale al welfare di comunità, che divengono parte integrante ed essenziale per lo sviluppo della nuova idea di benessere, essendo la logica del welfare definita proprio nell’offrire supporto a condizioni di fragilità individuale attraverso una mediazione collettiva (Gherardi, Magatti, 2014).
Dalle premesse di un welfare relazionale, incardinato dei costrutti propri della pedagogia sociale, secondo cui “tutti i soggetti del privato sociale collaborano e coordinano i propri sforzi per la costruzione di nuove legature, di nuove trame tra gli attori coinvolti” (Balzano, 2017, p. 108), nasce una idea di comunità nuova e altra rispetto alla visione classica ma che, da questa stessa, recupera un punto di partenza fondamentale: siamo di fronte a un agire pratico, intenzionale e, non di meno,
1 Tema ampiamente dibattuto all’interno del LIII Convegno di Scholè, L’educazione nella crisi del Welfare State, La
responsabile, che presuppone un donarsi non solo in chiave materiale ma, soprattutto, da un punto di vista etico. Partecipare attivamente alla comunità di appartenenza, quindi, secondo una pratica che presuppone un agire responsabile dotato di senso (Flores d’Arcais, 1987).
Nella società contemporanea, però, la domanda educativa in seno alla pratica relazionale verte proprio sulla possibilità, in verità urgente, di comprendere quale tipo di rapporto possa insistere tra una evoluzione culturale e sociale della persona e, di contro, lo sviluppo autentico del soggetto stesso quando è impegnato in rapporti d’amore e di amicizia, autentici, liberi, profondi. Il saper dare e il saper ricevere, in questa sede, si inseguono nell’umano di ogni soggetto in termini d’amore o di amicizia. È la mancanza di disponibilità del singolo a ricreare delle situazioni differenti nei rapporti tra soggetti: sembra, infatti, che la modernità, con la sua carica di razionalità e certezza, allontani la persona dalla ricerca dell’incontro e del legame, carichi d’affettività, soggettività, incertezza. L’uomo ha difficoltà a volersi bene, ancor prima del voler bene ad altri: rischia di non riuscire a sprofondare dentro sé stesso, sfondando invece il proprio fondamento. Il nodo è la relazione interpersonale che, per dirla con Bertolini, “è una delle prospettive sulle quali si fonda l’atto educativo: la persona dell’educatore è uno strumento pedagogico (vivere con, fare con), il rapporto è continuativo, la quotidianità è usata in modo consapevole e programmato” (2015, p. 247).
La progettualità rappresenta la dimensione più vicina al senso di pratica educativa, perché si fa linguaggio di traduzione dell’azione dell’educatore. L’educazione ha sempre un nesso - dal quale difficilmente si può trascendere - con le domande sul valore e sul senso, in quanto per la sua specificità si pone con la pretesa di essere opera e/o azione di umanizzazione di un soggetto: nasce sempre come proposta di un certo ideale etico di umanità, anche quando si volessero proporre delle mete all’azione di un soggetto, che escludessero per principio l’esistenza di ideali ragionevolmente sostenibili di umanità. La pedagogia, di conseguenza, dovrà assumere, per comprendere la realtà dell’educazione, tali questioni sui valori e sul senso per l’esistenza umana; e la riflessione sul suo specifico codice epistemologico dovrà giustificare la struttura propria di una scienza umanisticamente intesa. Da qui la traduzione in pratica delle teorie educative, non già come terreno fertile di nuove teorie, ma come humus di verifica, di validazione, della dottrina in azione.
La pratica educativa, però, deve provare a strutturarsi attraverso un percorso di sintesi tra le numerose stimolazioni della società contemporanea, barcamenandosi tra un presente sempre più frammentato, una realtà parcellizzata, che mina non solo i rapporti sociali, ma anche le dinamiche interpersonali all’interno dei principali contesti educativi, come la famiglia, ma anche nelle macro-aree come la comunità di appartenenza. Il problema deriva dalla difficoltà, specie in ambito familiare, di raccontarsi e narrarsi, e questo provoca una distorsione nella costruzione identitaria dei nuovi cittadini che andranno a far parte della comunità nella quale si svilupperanno relazioni e pratiche educative. Bruner, per esempio, assegna un ruolo fondamentale al pensiero narrativo per la sua funzione di attribuzione e costruzione di un ordine significativo al mondo e alle esperienze: noi organizziamo la nostra esperienza e i ricordi principalmente sotto forma di narrazione (Elia, 2017, p. 92). L’educare a raccontare e a raccontarsi, mettendo in atto le modalità dell’ascolto empatico, così come raccontato da Ricoeur, rappresenta una condizione privilegiata da offrire ad ogni persona, per potersi conoscere e comprendere; l’esistenzialismo relazionale di cui parla l’Autore, afferma, infatti, che la persona non può sussistere isolatamente e indipendentemente dall’altro. L’altro da sé diventa il termine di riferimento fondamentale per consentire alla persona stessa di esistere come tale. L’altro costituisce il mezzo di confronto, il luogo entro il quale permettere ad ognuno di scoprirsi, di conoscersi e di agire. In questa sede, quindi, la famiglia costituisce un contesto educativo e relazionale indispensabile per la trasmissione delle eredità e la formazione delle identità. Essere parte di una storia familiare conferisce la sicurezza di non essere soli, di avere dei riferimenti, certamente da elaborare con
atteggiamento critico e da rinnovare, ma comunque incoraggianti. Questa, inoltre, rappresenta il luogo di massima espressione della singolarità ma, anche, il contesto di sviluppo più adatto della personalità relazionale, quell’elemento indispensabile per entrare in rapporto con gli altri all’interno della comunità. Modelli relazionali genitoriali volti alla condivisione e alla complicità, modelli educativi volti a fornire esempi pratici, a stimolare l’analisi critica, a contenere le difficoltà, a differenziare le soggettività e a condividere le esperienze, stili comunicativi centrati sulla trasparenza e sulla condivisione tarati e rivolti alla capacità di comprensione dei figli, dinamiche relazionali centrate sul dialogo empatico, sulla ricerca dell’affetto, hanno rappresentato elementi caratterizzanti le pratiche buone che hanno favorito l’evoluzione positiva di queste famiglie e che hanno reso possibile un cambiamento trasformativo (Ibid., p. 100).
Il convincimento che la famiglia ipermoderna (Rossi, 2017, p. 119), anche nelle condizioni attuali, sia realtà dotata di singolari e insostituibili funzioni, sia titolare di notevoli possibilità circa la maturazione umana e spirituale dei suoi componenti sollecita ad auspicarne la nascita, la promozione, la difesa e il sostegno, affinché sia sempre capace di esercitare i suoi diritti e di assolvere i suoi doveri, in special modo quelli educativi, abbia coscienza della sua funzione nella società, prenda consapevolezza della sua dignità e delle sue potenzialità, dei suoi compiti e dei suoi impegni, dei suoi diritti e dei suoi doveri, delle sue risorse e delle sue ricchezze e le metta a disposizione della società, si renda conto della propria possibilità, capacità e responsabilità evolutiva.
Una nuova idea di pratica educativa, perciò, è il risultato più auspicabile, e quello che la pedagogia prova da tempo a costruire, declinandola all’interno di un modello di welfare di comunità, in forte ascesa nella società contemporanea, che delinea una diversa definizione di azione da compiere: azione che deve essere compiuta ma anche azione inevitabile che, se non viene posta come oggetto di attenzione non per questo non viene compiuta (Elia, 2015, p. 69). Una pratica educativa che sarà, certamente, pratica di dignità poiché fondata sul rispetto, dovuto alla persona non in quanto specie umana avente una particolare dignità tra le altre specie, ma per la titolarità della persona a dare pienezza ai propri atti personali.