Nel percorso giurisprudenziale che ha portato la buona fede esecutiva ad affermarsi come fonte integrativa del contratto l'Affaire Fiuggi371 riveste un ruolo di
primo rilievo al punto che può ritenersi il leading case che ha aperto il varco alla
369 CASS., sez. un., 19 Dicembre 2007, n. 26724, in Contr. e impr., 2008, 4-5, p. 936: «Richiamando la
distinzione già prima tracciata tra gli obblighi che precedono ed accompagnano la stipulazione del contratto d'intermediazione e quelli che si riferiscono alla successiva fase esecutiva, può subito rilevarsi come la violazione dei primi (ove non si traduca addirittura in situazioni tali da determinare l'annullabilità - mai comunque la nullità - del contratto per vizi del consenso) è naturalmente destinata a produrre una responsabilità di tipo precontrattuale, da cui ovviamente discende l'obbligo per l'intermediario di risarcire gli eventuali danni. Non osta a ciò l'avvenuta stipulazione del contratto. Infatti, per le ragioni già da tempo poste in luce dalla migliore dottrina e puntualmente riprese dalla citata sentenza di questa corte n. 19024 del 2005 - alla quale si intende su questo punto dare continuità - la violazione dell'obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto assume rilievo non soltanto nel caso di rottura ingiustificata delle trattative, ovvero qualora sia stipulato un contratto invalido o inefficace, ma anche se il contratto concluso sia valido e tuttavia risulti pregiudizievole per la parte rimasta vittima del comportamento scorretto; ed in siffatta ipotesi il risarcimento del danno deve essere commisurato al minor vantaggio, ovvero al maggior aggravio economico prodotto dal comportamento tenuto in violazione dell'obbligo di buona fede, salvo che sia dimostrata l'esistenza di ulteriori danni che risultino collegati a detto comportamento da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto».
370 Tra coloro orientati nel senso che dalla violazione della buona fede può scaturire l'invalidità o,
almeno, l'inefficacia del contratto sono: GALGANO, Squilibrio contrattuale e malafede del
contraente forte, cit., p. 423; PIERAZZI, La giustizia del contratto, in Contr. e impr., 2005, 654;
BARALDI, Il governo giudiziario della discrezionalità contrattuale, in Contr. e impr., 2005, p. 519.
371 CASS., 20 Aprile 1994, n. 3775. L'espressione si attribuisce a: CARBONE, L'Affaire Fiuggi, in Corr. giur., 1994, V, p. 570.
Drittwirkung mediata, ossia all'applicazione diretta dell'art. 2 Cost. in combinazione
con la clausola generale della buona fede372.
Orbene, la giurisprudenza ha dimostrato nel corso del tempo di superare la propria "timidezza" nell'applicare la clausola della buona fede in funzione di controllo sull'equilibrio contrattuale. Imbarazzo dovuto al suo attaccamento alla logica deduttiva373 che mal si concilia, però, con il carattere assiologico che connota
la clausola.
La vicenda, come noto, concerne l'affidamento in concessione, nel 1963, da parte del Comune Fiuggi, di sorgenti di acqua minerale denominata "Fiuggi", in favore della Fiuggi s.p.a. e la locazione dei relativi stabilimenti termali, stabilendosi quanto alla misura del canone di locazione che il medesimo sarebbe stato parametrato al prezzo di vendita delle bottiglie in fabbrica.
L'ente Fiuggi s.p.a. venne chiamato in giudizio dal Comune Fiuggi in merito al "blocco" del prezzo di vendita in fabbrica delle bottiglie di acqua minerale praticato dalle società distributrici - facenti parte insieme alla società madre Fiuggi s.p.a. di un gruppo societario - in quanto avevano aumentato nel tempo il prezzo finale dei prodotti destinato ai consumatori, avvantaggiandosi della relativa differenza di prezzo.
In particolare, il prezzo non era stato più modificato dal 1983 e, quindi, non aveva tenuto conto della svalutazione monetaria. Pertanto, il Comune Fiuggi rivendicava il diritto ad un adeguamento del canone.
Apparentemente il comportamento dell'ente Fiuggi s.p.a. era difficilmente
372 La pronuncia, nota per le numerose questioni trattate, tra cui anche quella del valore
dell'avviamento in corrispondenza di un incremento della redditività dell'azienda (se "qualità aziendale" monetizzabile o non monetizzabile) nel caso di usufrutto o di affitto di azienda, rappresenta un'importante tappa del processo evolutivo della buona fede quale strumento di correzione del regolamento contrattuale.
373 In tal senso, MORELLI, La buona fede come limite all'autonomia negoziale e fonte di integrazione del contratto nel quadro dei congegni di conformazione delle situazioni soggettive alle esigenza di tutela degli interessi sottostanti, in Giust. civ., 1994, I, p. 2172. Secondo altra dottrina, «tale
pronuncia segna un passo decisivo verso la definitiva accettazione della buona fede oggettiva (art. 1375 c. c.) tra le fonti di integrazione del contratto, qui in particolare tra le fonti che consentono di inserire nel contratto un margine all'esercizio di quelle scelte discrezionali dei contraenti che sembrerebbero invece del tutto libere, o per lo meno non delimitate da alcuna regola interna al rapporto»: Cfr. NANNI, Scelte discrezionali dei contraenti e dovere di buona fede, in Contr. e
impr., 1994, p. 475. In particolare, una dottrina sottolinea la «natura ambivalente della buona
fede», rivolgendosi sia alle parti - in relazione alle regole di comportamento in essa comprese - sia al giudice - in relazioni ai modelli di decisione che applica per la sua concretizzazione: PICARDI,
Tutela dell'avviamento, discrezionalità e buona fede contrattuale, in una vicenda complessa di affitto d'azienda, in Giur. it, 1995, p. 852.
contestabile in forza del principio della libertà contrattuale e del principio dell'intangibilità del contratto. Infatti, nel contratto le parti avevano stabilito di attribuire una discrezionalità al gruppo societario per quanto concerneva la determinazione del prezzo mentre, di contro, non era stato affatto richiamato alcun diritto del Comune Fiuggi ad un adeguamento del canone correlato ad un indice esterno quale quello della svalutazione monetaria. Dunque, rientrava nella libertà contrattuale della controparte il diritto di stabilire un qualsivoglia prezzo, finanche di lasciarlo immutato. Ne conseguiva che il giudice di merito, sulla scorta di tali considerazioni rigettava la domanda di adeguamento del canone avanzata dal Comune.
La vicenda giungeva di fronte alla Suprema Corte di Cassazione alla quale venne posta la seguente questione. É coerente con la clausola della buona fede il sopradescritto comportamento della Fiuggi s.p.a., anche se il medesimo non si ponga in contrasto con alcuna specifica clausola contrattuale (difettando nel contratto specifici ed espressi obblighi di adeguamento del canone all'inflazione monetaria ovvero divieti di tenere comportamenti quale, ad esempio, il comportamento descritto)?
La risposta della Suprema Corte non avrebbe potuto che essere negativa in base alle ragioni di seguito indicate374. È vero, infatti, che il contratto attribuisce alla
Fiuggi s.p.a. il potere di determinare discrezionalmente il prezzo di vendita delle bottiglie di fabbrica in base a parametri che garantiscano il più possibile il
374 Di seguito un passo della motivazione della sentenza, particolarmente indicativo, ai fini del nostro
discorso: «la legge pattizia non può comunque ritenersi svincolata dal dovere di correttezza» il quale «si porge nel sistema come limite interno di ogni situazione giuridica soggettiva, attiva o passiva, contrattualmente attribuita, concorrendo quindi alla relativa conformazione in senso ampliativo o restrittivo rispetto alla fisionomia apparente» affinchè «non risulti disatteso quel dovere inderogabile di solidarietà che applicato ai contratti ne determina integrativamente il contenuto o gli effetti... (omissis)....Se questo è il ruolo della buona fede (in senso oggettivo) e se essa, quindi, concorre a creare la "regula iuris" del caso concreto, in forza del valore cogente che le norme citate le assegnano e che, quale "principio cardine" dell'ordinamento, induttivamente estraibile dal sistema, le deve essere, in generale, riconosciuto, appare per lo meno sorprendente relegare nel "metagiuridico" (come la denunciata sentenza ha fatto, sotto l'influsso, evidente, di persistenti differenze verso il principio in esame, ancorché denunciate dalla dottrina con particolare vigore a partire dai primi anni sessanta e in parte rimosse dalla giurisprudenza più recente) l'aspettativa del Comune all'aumento del prezzo sol perché demandato a scelte pretesamente discrezionali dell'altra parte, ignorando, oltre a tutto, che la correttezza costituisce proprio regola di governo della discrezionalità e ne vieta, quindi, l'abuso, sì che non avrebbe potuto la Corte del merito esimersi dal dovere di accertare la necessaria compiutezza e logicità se la delusione di codesta aspettativa fosse o meno giustificata da un interesse antitetico - meritevole di tutela - dell'Ente Fiuggi a mantenere fermo il prezzo (in fabbrica), malgrado la sopravvenuta svalutazione monetaria e il conseguente svilimento del canone a quel prezzo commisurato».
soddisfacimento dell'esigenze dell'impresa. Tuttavia, "il più possibile" non deve reputarsi equivalente a "esclusivamente", residuando un limite invalicabile costituito dalla "solidarietà contrattuale", che trova immediata traduzione in un preciso obbligo enucleato nella clausola generale della buona fede, consistente nel salvaguardare
l'interesse dell'altro, se ciò non comporti un apprezzabile sacrificio dell'interesse proprio.
La Suprema Corte riteneva integrato da parte dell'Ente Fiuggi un abuso nell'esercizio del proprio diritto di determinazione del prezzo, non essendo accettabile "svuotare" di tutela l'aspettativa del Comune ad un adeguamento del canone di locazione, motivandolo sulla scorta di una riconosciuta discrezionalità contrattuale della controparte, posto che (e, forse, soprattutto) rientra proprio nel concetto di discrezionalità contrattuale l'idea che la clausola generale della buona fede costituisca regola di (auto)governo della stessa.
In questo senso, la buona fede non è tanto una fonte di norme quanto una fonte
di direttive di norme, come anche sostenuto in dottrina375, atteggiandosi a
inderogabile criterio unitario etico-giuridico che permea tutta la disciplina dei contratti e, quindi, anche la fase esecutiva. Fase esecutiva che può presentare delle zone d'ombra (ossia "zone" non pattiziamente regolamentate) in cui può originarsi una discrezionalità delle parti per il perseguimento di fini in contrasto con la solidarietà sociale ex art. 2 Cost376.
Pertanto, la buona fede esecutiva, sotto la forma di «un patto implicito» necessariamente facente parte del contratto, costituisce un limite interno all'esercizio
del diritto, teso a scongiurare i relativi abusi e, quindi, allo scopo di evitare, per usare
le parole della Suprema Corte nella sentenza richiamata, che «l'ossequio alla legalità formale non si traduca in sacrificio della giustizia sostanziale»377.
In questo modo, la buona fede diviene un generale strumento di controllo dello
375 Cfr. MENGONI, Spunti per una teoria delle clausole generali, cit., p. 13.
376 In tal senso si era espressa la Cassazione anche precedentemente alla pronuncia in esame. V. CASS.,
18 Febbraio 1986, n. 960: «La buona fede, intesa in senso etico come requisito della condotta, costituisce uno dei cardini della disciplina legale delle obbligazioni e forma oggetto di un vero e proprio dovere giuridico, che viene violato non solo nel caso in cui una delle parti abbia agito con il proposito doloso di recare pregiudizio all'altra, ma anche se il comportamento da essa tenuto non sia stato, comunque, improntato alla diligente correttezza e al senso di solidarietà sociale che integrano, appunto, il contenuto della buona fede».
377 Della buona fede come «patto implicito» che governa la discrezionalità dei contraenti parla
statuto negoziale, in relazione al verificarsi di sopravvenienze che possano minare l'equilibrio contrattuale, arginando la discrezionalità di uno dei contraenti quando la stessa influisce sfavorevolmente sulla posizione dell'altra parte. Tuttavia, nel porre un limite alla condotta abusiva del contraente, la buona fede viene applicata seguendo un metodo formalistico, come fonte legale di un obbligo tacito (in quanto può non essere esplicitato nel contratto) ma, in ogni caso, tipizzato: l'obbligo di salvaguardare l'interesse dell'altro, se ciò non comporti un apprezzabile sacrificio dell'interesse proprio. Al riguardo, più in generale appare opportuno richiamare la categoria degli "obblighi di protezione", che discendono dagli artt. 1175, 1337, 1375, 1366 c.c.
Diverso discorso deve farsi con riguardo all'applicazione della buona fede esecutiva in funzione integrativa in un'altra vicenda che ha visto notevolmente impegnata la dottrina nella qualificazione della clausola generale. Si tratta del "caso
Renault" affrontato dalla Suprema Corte con la sentenza del 18 Settembre 2009, n.
20106.
La vicenda giudiziale traeva la mosse dall'esercizio della facoltà di recesso "ad
nutum" da parte della nota casa automobilistica. Tale facoltà di recesso era stato
espressamente pattuita. Tuttavia, le concessionarie automobilistiche convenivano in giudizio la Renault s.p.a., censurando la sua condotta, in quanto ritenuta abusiva e contrastante con le clausole generali della buona fede e del divieto di abuso del diritto.
La Suprema Corte viene chiamata a pronunciarsi sulla legittimità della condotta della casa automobilistica, quand'anche pur non avendo integrato un vero e proprio illecito contrattuale (che si configura in presenza della violazione di un obbligo) abbia realizzato un effetto da cui sia derivato uno "sviamento dall'interesse protetto" sicché la stessa, non essendo più funzionale alla tutela dell'interesse della controparte, appaia immeritevole di tutela in quanto non conforme all'ordinamento giuridico.
Il congegno tecnico utilizzato dalla Suprema Corte per censurare la condotta indicata è costituito dal "connubio" tra la buona fede e il divieto di abuso del diritto378.
378 In materia di abuso del diritto la letteratura è vastissima, esemplificatamente si ricordano:
BARCELLONA, Il divieto di abuso del diritto: dalla funzione sociale alla regolazione
teleologicamente orientata del traffico giuridico, in Riv. dir. civ., 2014, II, p. 467; SCOGNAMIGLIO,
L’abuso del diritto nella disciplina dei contratti, in Libro dell’anno del Diritto 2013, in Enc. giur.,
Roma, 2013, p. 33; RESCIGNO, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1965, I, p. 211 ss.; SALVI, Abuso
Tuttavia, dal tenore letterale della pronuncia non appare chiaro come il divieto di abuso del diritto si ponga in relazione alla clausola generale della buona fede: la Suprema Corte in un punto lo qualifica come «criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva»; in altri parti della sentenza come "principio" (anche se sarebbe stato opportuno parlare di clausola generale) di pari rango della buona fede con la quale si deve integrare per conseguire un maggior livello di specificazione.
Pertanto, dai richiami considerati e dall'inevitabile collegamento con la clausola generale della buona fede sembra evincersi che il divieto di abuso del diritto sia privo di un'autonomia concettuale379.
Del resto, a livello nazionale, la figura è sorta solo a livello dottrinale e non ha mai ricevuto riconoscimento normativo, pur continuando la sua esistenza ad essere avvalorata dalla giurisprudenza.380 Viceversa a livello europeo la figura anzidetta ha
ricevuto dignità normativa, l'art. 54 della Carta di Nizza prevedendo che «Nessuna
comparato e straniero, in Enc. giur., I, Roma, 1988, p. 1.; PINO, L’abuso del diritto tra teoria e
dogmatica (precauzioni per l’uso), in Eguaglianza, ragionevolezza e logica giuridica a cura di
MANIACI, Milano, 2006, p. 115 ss; PIRAINO, Il divieto di abuso del diritto, in Eur. e dir. priv., 2013,
p. 75; GENTILI, Il diritto come discorso, cit., p. 419; VIGLIONE, Il giudice riscrive il contratto per le
parti: l'autonomia negoziale stretta tra giustizia, buona fede e abuso del diritto, in Nuova giur. civ. comm, 2010, II, p. 148; GALGANO, Qui suo iure abutitur neminem laedit?, in Contr. e impr., 2011,
p. 311.
379 Così, essa sembra vallare quella tesi che lo considera come una «clausola generale implicita»: cfr.
RADOCCIA, Abuso del diritto come bilanciamento di interessi, in Giur. merito, 2013, p. 746. Lo
stesso non può dirsi per il diritto europeo, posto che l'art. 54 Carta di Nizza sancisce esplicitamente il divieto di abuso del diritto: «Divieto di abuso del diritto: Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata nel senso di comportare il diritto di esercitare un'attività o compiere un atto che miri a distruggere diritti o libertà riconosciuti nella presente Carta o a imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla presente Carta». Un altro indirizzo dottrinale ritiene preferibile invocare, invece, la categoria della «correttezza economica», quale unico parametro che consente di compiere una valutazione comparativa dei contrapposti interessi contrattuali (la libertà di iniziativa economica privata ex art. 41 Cost., il principio di solidarietà ex art. 2 Cost., il principio di uguaglianza sostanziale ex art. 3, co. 2, Cost.) e di rilevare eventuali situazioni di abuso di potere contrattuale: cfr. SCAGLIONE, Abuso di potere contrattuale e
dipendenza economica, in Giur. it., 2010, p. 5.
380 Con riguardo all'excursus storico del divieto di abuso del diritto nell'ordinamento italiano, in
realtà, si ricorda come vi fu un tentativo del legislatore di positivizzare il divieto di abuso del diritto. Infatti, l'art. 7 del Progetto Preliminare del Codice civile prevedeva che «nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto» . Tale disposizione non venne, tuttavia, inserita nel testo definitivo. Si ritiene che tale scelta sia stata dettata da due ordini di ragioni: 1) si riteneva che tale clausola generale non avesse tanto una valenza giuridica, bensì una valenza morale: il comportamento abusivo, in altri termini, era riprorevole ma non rilevante giuridicamente; 2) si temeva (forse, fondatamente) che il carattere indeterminato della clausola generale costituisse un vulnus per la certezza del diritto. Pertanto, si preferì l'inserimento non disposizione generale ma di una serie di disposizioni specifiche quali ad esempio, l'art. 833, 1015, 2793, c.c. Cfr. BONANZIGA, Abuso del diritto e rimedi esperibili, in
disposizione della presente Carta deve essere interpretata nel senso di comportare il diritto di esercitare un'attività o compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Carta o di imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla presente Carta».
Questa ipotesi si presenta, per certi aspetti, diversa dal caso Fiuggi, pur discorrendosi in entrambi i casi di abuso del diritto e di buona fede come strumento di controllo dell'equilibrio contrattuale. Infatti, nel caso Renault la Suprema Corte, non si limita a chiamare in causa la buona fede - sostenendo discutibilmente che la stessa presieda «all'assetto di interessi convenuto»381 - ma decide di ricorrere alla
categoria del divieto di abuso del diritto per risolvere la questione sottopostale. Una categoria, tuttavia, controversa in dottrina, in quanto alcuni, ritenendola priva di una propria autonomia concettuale, preferiscono inglobarla nella clausola generale della buona fede382.
Conseguentemente, ciò che appare evidente è che nel caso Fiuggi la Suprema Corte riteneva integrato l'abuso del diritto ricorrendo all'unico strumento che il Codice Civile le metteva a disposizione, la buona fede oggettiva ex art. 1375 c.c., mentre nel caso Renault la Suprema Corte ha azzardato (forse) nel compiere un passo ulteriore, chiamando in causa oltre alla buona fede oggettiva anche la clausola generale del divieto di abuso del diritto.
Vero è che al tempo della pronuncia della Suprema Corte la Carta di Nizza era già entrata in vigore e probabilmente tale opzione ermeneutica della Suprema Corte deve considerarsi un omaggio all'ingresso della figura nell'ordinamento europeo. Tuttavia, l'art. 54 Carta di Nizza non è stato invocato una sola volta nel corso della motivazione sicché è lecito dubitare che sia stato questo il probabile fine perseguito.
Piuttosto, si potrebbe considerare come la buona fede, in questo caso, sia stata applicata secondo un approccio antiformalistico che valorizza la prospettiva
381 In senso critico alla pronuncia in esame: GENTILI, Il diritto come discorso, cit., p. 407, il quale
rileva che è stata impropriamente chiamata in causa la clausola della buona posto che così i giudici sembrano autolegittimare un potere di «rifare i contratti che a loro non sembrano equi», mentre la buona fede concerne il procedimento negoziale e non il contenuto del negozio; CUFFARO, Giudizio
di buona fede e ruolo del precedente, in Giur. it., 2011, p. 7, il quale in particolare critica la tecnica
argomentativa della decisione e, in particolare, il ragionamento giustificativo della Suprema Corte, considerando sovrabbondanti i numerosi precedenti dalla stessa richiamati.
382 In tal senso PIRAINO, Il divieto di abuso del diritto, cit., p. 75, secondo cui, «il divieto di abuso del
diritto non costituisce un'autonoma clausola generale; il suo fondamento non è di ordine logico; la sua natura è quella di struttura dogmatica deputata a concretizzare la buona fede in funzione valutativa e, dunque, il divieto esprime una delle finalità della buona fede in senso oggettivo».
ideologica dell'interprete, a scapito del rigore formale, e ciò ha implicato una scelta di campo incisiva che vede da tempo la dottrina non solo divisa ma soprattutto assai