La prima somiglianza che può essere indagata è nella distinzione che intercorre tra game e
play. Il termine game, nella misura in cui è usato per designare l'insieme delle regole che sono
indipendenti dai giocatori e dalle loro azioni piuttosto che un gioco vero e proprio, si riferisce all'aspetto istituzionale, indipendente dai singoli atti che lo riempiono di contenuto. Per questo motivo il game corrisponde alle tipizzazioni istituzionali, ossia il deposito collettivo, a disposizione degli individui facenti parte della società, di regole e comportamenti sociali. Esiste dunque, sia per la normalità che per il gioco, un set di regole, esplicite o implicite. Nel primo caso sono leggi che regolano il vivere civile e regole che spiegano lo sviluppo del gioco; mentre nel secondo caso abbiamo regole non scritte che vengono rispettate anche se sarebbe impossibile enunciarle esaustivamente, alle quali siamo abituati a sottostare e usualmente non sono oggetto di riflessione. Delle regole non scritte che appartengono al gioco, ho già dato ampia spiegazione nel paragrafo 1.4.1. Per quanto riguarda la normalità, oltre alle leggi propriamente dette, esistono regole che stabiliscono l'interazione tra soggetti, come per esempio quelle del galateo, ma ne esistono altrettante non scritte. Eric Berne parla di:
“(La) Programmazione sociale si risolve in scambi reciproci tradizionali, ritualistici o semi-ritualistici. È regolata soprattutto dal criterio di accettabilità locale, ovvero, per usare un linguaggio comune, dalle ‘buone maniere’. […] Tutte assieme, esse costituiscono il tatto. […] Fare un buon rutto dopo i pasti o chiedere a un tizio come sta la moglie sono cose apprezzate o proibite, secondo le ancestrali tradizioni locali. […] Poi, quando ci si conosce meglio, interviene in misura sempre crescente la programmazione individuale, e cominciano gli incidenti. […] Le regole rimangono latenti finché le amicizie o le inimicizie si sviluppano ‘come si deve’ ma alla prima mossa scorretta vengono a galla motivando una protesta simbolica, verbale o legale:‘Vergogna!’. Tali sequenze basate più su una programmazione individuale che sociale, si possono definire
giochi”184.
Dunque, come le regole del gioco, anche quelle della normalità seguono determinati schemi e non tutte sono assolute, in quanto alcune hanno validità locale. Gli “incidenti” perciò nascono dalla programmazione individuale, ossia dove le regole non sono né possono essere completamente esaustive, come per il gioco. Sia per la normalità sia per il gioco, quando la libertà di azione è lasciata al singolo individuo o quando le regole non sono complete, si entra nella sfera dell'opinabile e come tale si possono avere posizioni discordanti. Esistono delle regole di base, che vengono rispettate, ma al contempo esiste un altro set di regole che varia da giocatore a giocatore: quando non esistono regole specifiche per ogni situazione, per supplire a questa mancanza i giocatori possono crearne di nuove a loro discrezione. Ho visto scatenarsi feroci battaglie a questo proposito, quindi anche nel gioco il desiderio idiosincratico non è apprezzato.
La vita familiare, coniugale e in organizzazioni di ogni genere, prosegue Berne, procede su variazioni dello stesso gioco. Dire che il fulcro dell'attività sociale consiste nel gioco non significa, ribadisce Berne, che è necessariamente divertente o che le parti non prendano sul serio i loro rapporti.
“L'aspetto essenziale del gioco umano non è il carattere spurio delle emozioni, ma il fatto che le emozioni obbediscono a determinate regole. Lo dimostra la condanna che pesa su certe manifestazioni emotive illegittime. Il gioco può essere crudelmente, addirittura fatalmente serio, ma la condanna sociale diventa grave solo quando si viene meno alle regole”185.
Per quanto riguarda le regole non scritte della normalità, è interessante parlare dei rituali non formali a cui fa riferimento Berne. Innanzi tutto Berne definisce rituale una serie stereotipata di transazioni complementari semplici, programmate da forze sociali esterne. Un rituale semplice, come quello del saluto, può cambiare di molto nei particolari a seconda della località, senza però che si modifichi la forma fondamentale. Esistono rituali formali, come la messa cattolica, e non formali, e secondo Berne, tra i più istruttivi sono i rituali di saluto americani.
1 A: “Olà!” (Hello; buongiorno.)
1 B: “Olà!” (Hello; buongiorno.) 185Ivi, p. 19.
2 A: “Fa caldo, eh?” (Come va?)
2 B: “Altroché! Ma forse pioverà”. (Bene. E lei?)
3 A: “Be', stia bene”. (Okay)
3 B:”Ci vediamo”.
4 A:”A presto”.
4 B: “A presto”186.
È evidente che questo scambio di battute assume il ruolo fàtico descritto nelle pagine precedenti, ossia non veicola informazioni, ma mette in comunione due persone. Anzi aggiunge proprio Berne, se l'informazione c'è, essa è saggiamente taciuta perché non è nell'interesse di nessuno dei due interlocutori conoscere veramente lo status dell'altro. Questa serie di transazioni è definita come “un rituale di otto carezze”, dove la parola “carezza”187
serve come unità fondamentale dell'azione sociale e uno scambio di carezze costituisce una transazione, ossia l'unità del rapporto sociale. Se A e B avessero fretta, si accontenterebbero di scambiarsi un paio di carezze (Salve – Salve). Questo rituale si basa su calcoli intuitivi, dunque su leggi e regole non scritte. Esso dipende dal livello di conoscenza e d'intimità tra i due interlocutori, dagli usi e costumi che variano da paese a paese, dalle contingenze. Per esempio se i due individui dovessero incontrarsi di nuovo mezz'ora dopo, non avendo argomenti di cui conversare, si scambierebbero appena un cenno di saluto, senza dover ripetere il rituale di mezz'ora prima. Questo vale anche per lunghi periodi di tempo: per esempio se C e D s'incontrano in media una volta al giorno, scambiandosi una carezza ciascuno, quando C si prende un mese di vacanza, rincontrandosi la discussione andrà all'incirca nel seguente modo:
186Ivi, p. 42.
187 Con “carezza” s'intende generalmente un contatto fisico intimo, che nella pratica può assumere forme diverse. Tutti questi gesti hanno un corrispondente nella conversazione. Per estensione, con questa parola si indica familiarmente ogni atto che implichi il riconoscimento della presenza di un'altra persona.
1 D: “Salve!”
2 D: È un pezzo che non la si vede”.
3 D: “Davvero! Dov'è stato?”
4 D: “Ah, sì! Interessante! Com'è andata?”
5 D: “Be', effettivamente ha proprio una bella cera. E i suoi stanno bene?”
6 D: “Sono contento di averla rivista”.
7 D: “Arrivederci!”188
Se in questa occasione D si limitasse a dire “Salve!” e nient'altro, C si offenderebbe. Secondo i loro calcoli devono scambiarsi un determinato quantitativo di carezze, magari anche poche transazioni, che però devono essere abbastanza enfatiche. Può, erroneamente, accadere anche il contrario: E e F hanno instaurato un rituale in due battute, ma un giorno, invece di tirare dritto, E si ferma e chiede, per esempio, “come va?”. Finita la conversazione, F allontanandosi si domanderà perché gli sono state date molte più carezze del necessario. Dunque, possiamo dire che E ha disatteso il frame, non è riuscito o non ha voluto capire il contesto, oppure ha scelto di eludere le aspettative, causando questo incidente.
Riprendendo il film già citato La cena dei cretini, possiamo vedere sia l'incapacità di uno degli attori di inquadrare il giusto frame sia come questo particolare concorra a qualificarlo come spostato. Su segnalazione di un amico, l'editore Pierre Brochant, un derisore, individua la vittima-cretino in François Pignon, contabile al Ministero delle Finanze e appassionato costruttore di modellini con i fiammiferi. Non abbiamo nessuna informazione preliminare su chi siano o perché i “cretini” siano ritenuti tali. Ma riusciamo subito a individuare, mentre deriso e derisore sono seduti in un vagone del treno, quale ruolo appartiene a chi. Pignon si
rivela subito essere una persona inopportuna dilungandosi nell'esposizione del suo hobby, non rispettando la misura dello scambio conversazionale e dando fin troppe “carezze” non richieste in un dialogo tra perfetti sconosciuti. Inoltre dimostra di avere un hobby che non rispetta il desiderio mimetico, non essendo condiviso socialmente. Pignon, come gli altri “cretini”, non si rende conto della dimensione idiosincratica del suo desiderio-hobby e come tale disattende il frame della normalità. La differenza derisi-derisori, inoltre, la si nota anche visivamente nel vestiario: nella quale i secondi peccano sia di eleganza sia di gusto. Si riconfermano spostati perché non hanno la capacità di omologarsi e di discernere nell'uso dei codici della normalità. I derisi sono persone che hanno una passione, amano ciò che fanno, ma non si rendono conto che il loro amore dovrebbe rimanere privato e non può dunque essere oggetto di condivisione sociale. La normalità dei ricchi derisori, invece, implica la rinuncia e il sacrificio di una passione individuale. Dunque il gruppo di persone con lo status di membership alla normalità, scatena la sua aggressività sui più deboli-spostati attraverso la comicità, che è un'arma socialmente consentita.
Chi invece disattende volutamente il contesto è la Duchessa Oriane di Guermantes, nella famosa “scena delle scarpette rosse”, contenuta alla fine del terzo libro Alla ricerca del tempo
perduto di Marcel Proust. I protagonisti di quest'episodio sono una coppia di coniugi
aristocratici, il duca e la duchessa di Guermantes, e il loro amico Charles Swann, il quale socialmente era in una posizione intermedia poiché amico di gente elitaria, ma non nobile a sua volta perché appartenente ad una famiglia ebrea. Nel racconto la Duchessa invita Charles ad andare in viaggio con loro in Italia fra dieci mesi, ma lui rifiuta gentilmente ogni offerta adducendo scuse per non rivelare le vere motivazioni che stanno dietro al declino della proposta. In realtà Charles è gravemente malato e gli rimangono solo tre o quattro mesi di vita. Alla fine convinto dalla Duchessa, le rivela questo insostenibile segreto proprio mentre arriva la carrozza che porterà i duchi ad una cena di gala.
“‘Ma cosa dite?’, esclamò la duchessa interrompendo un'istante il suo cammino verso la carrozza e alzando i suoi begli occhi azzurri e malinconici, ma pieni d'incertezza. Posta per la prima volta tra due doveri così diversi come salire in carrozza per andare a cena fuori, e testimoniare pietà a un uomo che sta per morire, nel codice delle convenienze non trovava nulla che indicasse la procedura da seguire e, non sapendo a quale dare la preferenza, […] e pensò che il miglior modo per risolvere il conflitto era negarlo. ‘Volete scherzare?’ disse a Swann”189.
La Duchessa non sa che comportamento attuare e che frame adottare, come dice perfettamente Proust. È combattuta tra i suoi obblighi sociali e quelli di amicizia. Lei, non sapendo quali dei due frame usare, decide di fare finta di “non credere” alle parole di Swann, potendo così comodamente obbedire al primo frame (cena) che “richiedeva meno sforzi”. Adotta sapientemente la strategia umoristica per neutralizzare la scelta del contesto: l'umorismo difatti può essere usato per negare, sospendere, distruggere il frame, si può ridere senza dire nulla e come in questo caso far finta di non credere. Charles, invece, conoscendo l'importanza che gli obblighi mondani rivestono per l'amica e per cortesia, decide di risolvere l'incidente dicendo:
“‘Ma soprattutto non voglio che ritardiate, siete a cena fuori’, aggiunse perché sapeva che, per gli altri, i propri obblighi mondani vengono prima della morte di un amico, e si metteva nei loro panni per cortesia. […]Ma quelle parole misero di cattivo umore il duca che esclamò:‘Suvvia, Oriane, non state lì a chiaccherare […], sapete bene che la signora si Saint-Euverte tiene moltissimo a che ci si metta a tavola alle otto in punto’. […] La signora Guermantes si avviò risolutamente alla carrozza e rivolse un ultimo addio a Swann. ‘Ne riparleremo, non credo ad una parola di quello che dite, ma bisogna parlarne insieme’”190.
Il duca, frettoloso e pragmatico, incalza la moglie a salire dunque sulla carrozza incurante del male che affligge l'amico. La signora di Guermantes allora, apprestandosi a salire in carrozza, viene fermata dal marito che le chiede di andarsi a cambiare le scarpe nere perché non intonate con il vestito rosso.
“‘Ma caro’, rispose dolcemente la duchessa, imbarazzata vedendo che Swann, […] avesse sentito, ‘visto che siamo in ritardo...’, ‘Ma no, abbiamo tutto il tempo. Sono le otto meno dieci, non impiegheremo dieci minuti per arrivare al parc Monceau. E poi insomma, che volete, arriveremo alle otto e mezza, pazienteranno, in ogni caso non potete presentarvi con un abito rosso e delle scarpe nere’”191.
La duchessa scende dalla carrozza e torna in camera per indossare le scarpette rosse. Nel mentre il duca, per niente imbarazzato, continuava a lamentarsi con l'amico moribondo Swann dei malesseri suoi e della moglie. Il romanzo si chiude con il duca che, salutando Charles, gli dice di non credere a ciò che dicono i medici e che li seppellirà tutti. Entrambi i coniugi “non credono” alla malattia terminale dell'amico. In questa breve scena, Proust mette in risalto l'ipocrisia e lo scollamento tra le azioni e i pensieri dei personaggi coinvolti: i protagonisti
190Ivi, p. 449. 191Ibidem.
sono legati da un sentimento di amicizia, ma davanti alla notizia della grave malattia dell'amico i signori di Guermantes preferiscono far finta di non credergli per “salvare la faccia” e non essere costretti a rimandare l'appuntamento galante.
La normalità ha la struttura processuale del gioco: esiste un set di regole base che non è esaustivo e tutto ciò che ricade fuori da esso, è come collocato in una zona grigia che dipende dal contesto, dall'accordo e dalla negoziazione tra i partecipanti.
Mentre game designa dunque la forma di gioco dotata di regole, play designa il gioco in atto: altrimenti detto, il game è ciò con cui si gioca, mentre il play è ciò a cui si gioca. Dunque è qualcosa in atto, qualcosa che si fa; allo stesso modo la normalità, alla quale appartiene una dimensione performativa, poiché “l'essere normali” è un lavoro a tutti gli effetti. A differenza del gioco, la normalità prevede sempre una partecipazione collettiva. Mentre esistono giochi a cui si può giocare da soli, questo non è altresì valido per la normalità.
Autori, come Huizinga e Caillois, hanno visto nel gioco un'attività circoscritta nello spazio e limitata nel tempo. Mentre troviamo nel libro Giochi finiti e infiniti192 di James P. Carse, una
novità che sembra mettere in crisi proprio questo elemento costitutivo e condiviso. Carse introduce una definizione molto particolare di gioco: postula l'esistenza di giochi sia finiti sia infiniti. I primi sono tali perché hanno limiti si spazio, tempo e numero dei partecipanti. Sono le attività che hanno luogo entro i confini del cerchio magico: come i giochi d'aula perché hanno limiti e limitazioni; si isolano dalla vita ordinaria in luogo e durata, hanno uno svolgimento proprio e un senso in sé. Si fissano come forme di cultura, e una volta giocati permangono nel ricordo come una fonte di apprendimento e di risorse acquisite.
La limitazione spazio-tempo, crea ordine, diventa ordine necessario per l'esercizio di questi giochi. Se così non fosse, sarebbe oltremodo impossibile partecipare al gioco “Istituzioni di Filosofia” senza avere nessun orario o luogo a cui attenersi.
Solo nei giochi di questo gruppo ci può essere l'obiettivo di vincere, come: gli sport competitivi, i dibattiti, i giochi di società, i giochi di carte. Nei giochi infiniti, come coltivare amicizie, allevare i figli, essere vivi, la vittoria dei giocatori consiste nel continuare il gioco, e il loro talento sta nel trovare sempre nuovi modi per giocare e continuare a farlo, rinegoziando continuamente ogni confine. I giochi infiniti, osserva Carse, possono definirsi solo internamente al gioco stesso e le loro regole cambiano nel corso del gioco. Anzi devono infinitamente e continuamente cambiare per prolungarne la durata. Carse afferma che le
regole dei giochi infiniti sono come “la grammatica di una lingua viva”. La differenza enorme tra i giochi finiti e infiniti sta nel fatto che: nei primi, i giocatori giocano dentro i confini; nei secondi, i giocatori giocano con i confini e sperimentano continuamente nuove pratiche che hanno per oggetto il limite del gioco. Un gioco finito cominciato in un aula diventa un gioco infinito fuori dall'aula. Se in aula si gioca dentro la realtà imposta dai limiti del gioco e dalle regole poste dal Professore, fuori dall'aula si gioca secondo i condizionamenti e i limiti imposti dalla realtà esterna all'aula, verso però una continuazione del gioco in cui si rinnovano costantemente i confini.
È qui di fondamentale importanza la distinzione tra giochi a somma zero e giochi a somma diversa da zero. Fino ad ora questa distinzione non è stata ancora presa in considerazione, ma è il problema da cui parte l'analisi di Carse193 ed è molto rilevante per l'analisi che sto
conducendo.
Dunque dei giochi a somma zero fanno parte tutti quei giochi in cui la perdita di un giocatore significa la vincita dell'altro: vincita e perdita, sommate assieme, ammontano perciò a zero. Mentre per quanto riguarda i giochi a somma diversa da zero invece, come dice il nome stesso, vincita e perdita non si eguagliano, nel senso che la loro somma può risultare inferiore o superiore a zero: ossia dove tutti i giocatori possono vincere o perdere. Per esempio consideriamo uno sciopero: c'è sempre il rischio che perdano entrambi i “giocatori”, ossia la direzione aziendale e i dipendenti. Sebbene dall'andamento della controversia possa scaturire un vantaggio definitivo per l'una o per l'altra parte, non è affatto detto che la somma della perdita e della vincita sia uguale a zero. Possiamo immaginare infatti che i cali di produzione causati dallo sciopero danneggino la dirigenza e gli stipendi dei lavoratori ed entrambi sono quindi perdenti.
La stessa situazione può ovviamente essere considerata gioco a somma zero o a somma non zero a seconda dei giocatori che si prendono in considerazione: possiamo immaginare che tutte le perdite dell'azienda degli scioperanti siano guadagni per la concorrenza. In questo caso
193Carse per introdurre la sua trattazione sul gioco, si rifà alla questione problematizzata da altri autori dei giochi a somma zero e giochi a somma diversa da zero. Per esempio la tassonomia proposta da Caillois sembra funzionare solo all'interno dello schema dei giochi a somma zero, ossia quei giochi in cui se un giocatore vince, l'altro perde e vincita e perdita, sommate, danno come risultante zero. Ogni scommessa su basa su questo schema. Lo stesso Caillois si era già accorto del problema della tenuta del suo schema. Difatti, nel suo celebre libro, davanti al fenomeno crescente del “machine gambling” non riuscendo a classificarlo né fra i giochi di Agon, né in quelli di vertigine o d'azzardo, aggirando il problema, lo aggiunse in una nota d'appendice affermando che la ripetitività ossessiva delle macchinette le avvicinava più alla mania e all'ipnosi che al gioco stesso. Volendo dunque, salvare la sua classificazione eluse il problema. Forse perché, oggi socialmente il fenomeno delle slot machine è così evidente, ci accorgiamo allora che, dentro questo “non-gioco” risiede la dibattuta questione del gioco senza fine. Un gioco a cui, una volta avviato, non si può e non si deve porre fine (giochi infiniti).
considerando solo la dirigenza e i lavoratori come giocatori, il gioco è a somma non zero, ma introducendo la concorrenza come giocatore il gioco diventa a somma zero.
Trasferendo questa problematica a livello dei rapporti umani possiamo chiederci se un rapporto tra partner è un gioco a somma zero. Ovvero se le “perdite” di un partner corrispondono alla “vincita” dell'altro. Per esempio, la vincita consistente nel proprio aver ragione e nell'aver dimostrato l'errore (la perdita) del partner si potrebbe interpretare come un gioco a somma zero. Questa modalità è presente in molti rapporti: è sufficiente che uno dei due veda la vita come un gioco a somma zero, che lasci aperta solo l'alternativa tra vittoria e sconfitta. I giocatori a somma zero a livello relazionale, come accade nell'esempio descritto poc'anzi dello sciopero, persistendo accanitamente nell'idea della vincita e del reciproco superamento, non si accorgono del gioco decisivo: la vita, davanti alla quale essi saranno perdenti insieme ai loro avversari.
Forse ci sarebbe da ricordare che esistono logiche win-win basate sulla cooperazione,