Il gioco sociale non è altro che una declinazione del gioco. Tutto sta nel capire i contesti e le regole di questo gioco. Ha dei limiti di spazio e di tempo dettati dalle situazioni. Queste cornici sono indice di come noi dobbiamo agire e comportarci in un insieme di atti verbali e non.
Il gioco sociale, istruendoci riguardo alla normalità, ci insegna come passare tra questi mondi di senso. Anzi è proprio la capacità di effettuare questo passaggio che traccia una linea di confine tra normalità e anormalità. La normalità nel gioco sociale è quella facoltà che che ci permette di saper entrare e uscire dai diversi universi di significato in cui ci troviamo a vivere. Significa essere in grado di padroneggiare i molteplici confini che ci circondano, dandogli un senso. In maniera dipendente dal contesto cambierà quindi il registro del mio linguaggio, cambieranno i miei comportamenti e perfino i miei abiti.
Come nel teatro, nel cinema, nella poesia, nel gioco sociale noi siamo duplici perché percepiamo e allo stesso tempo non percepiamo, giochiamo e non giochiamo, siamo dentro la cornice e non ci siamo. È proprio quest'ultima a separare e a congiungere i diversi mondi di senso.
Nel gioco mappa e territorio sono sia identificati che distinti: nel primo caso si ha l'entrata nella cornice, quindi il coinvolgimento, mentre nel secondo l'uscita. Si mette in atto dunque,
la sospensione dell'incredulità, che presuppone l'immersione in un mondo, ma non l'esclusione da altri mondi che vengono visti con la coda dell'occhio.
Chi non percepisce i confini mette in pericolo la propria libertà come i prigionieri della caverna di Platone. È in gioco il libero arbitrio stesso, senza la possibilità di comparare due mondi diversi, come quella che possiede il prigioniero liberato, il mondo appare senza alternative. È necessario tirarsi fuori dai contesti, percepire le differenze e rendere esplicita la frase “questo è un gioco”. Al contrario, si rischia di cadere in un duplice pericolo: naturalizzazione e dipendenza.
Lo spettatore è colui che, consapevole dell'illusione e del piacere che ne deriva (trompe-l'œil), resta autonomo e dà un giudizio attraverso il gioco dei sensi. L'illusione, secondo Winnicott, è il passaggio decisivo e necessario per l'apprendimento e per lo sviluppo dell'autonomia del bambino. La realtà è quindi l'insieme delle credenze ed illusioni condivise. Il gioco sociale è fonte dunque di costante allenamento per possedere queste conoscenze comuni e saperle applicare correttamente. Ci addestriamo al principio di realtà. Laddove non c'è possibilità di controllo del coinvolgimento nell'illusione si arriva all'inganno, al delirio e alla follia.
L'illusione, nei termini di terza area di Winnicott e di messaggi del terzo tipo di Bateson, va di pari passo con la definizione di spostatezza, che ho analizzato in questa tesi: gli spostati sono dunque coloro che non riescono a parlare in modo metaforico e di conseguenza non comprendono che la mappa e il territorio possono essere sia uniti sia disgiunti. Per incorniciare il contesto di gioco, usiamo l'azione meta-comunicativa “questo è un gioco”; nella società usiamo la stessa azione, ma declinata in modo diverso: “questo è forma”. Coloro che partecipano allo scambio sociale performano prima di tutto un atto meta-comunicativo, ossia stanno prendendo atto del carattere convenzionale e metaforico della loro conversazione e dei loro atteggiamenti: per un verso si adeguano a queste convenzioni e le sanno seguire, ma per l'altro verso non sono appiattiti su di esse, riuscendo a prenderne la distanza critica necessaria alla corretta comprensione della loro natura ludica.
La tensione tra realtà e irrealtà nel gioco è ben visibile nel contrasto Mimicry-Ilinx, nella dialettica tra recitazione e immedesimazione: recita chi è cosciente di indossare una maschera, ossia colui che è conscio della natura mimetica, irreale, dell'alludere ad altro del gioco, ma allo stesso tempo si immedesima e funziona come il mondo ludico prescrive e ne diventa parte integrante. Abbiamo visto la stessa tensione tra Mimicry e Ilinx in opera nella performance della normalità, con i relativi rischi di degenerazione. Questo implica che anche nella normalità esiste questa tensione tra realtà e irrealtà. Arrivati a questo punto, sorge
spontaneo chiedersi se la normalità ha lo stesso carattere d'irrealtà proprio del gioco. Entrambi si fondano su illusioni e credenze condivise, contengono l'elemento del “fare come se” e della performance. Vi è la possibilità che entrambi possano degenerare con diverse conseguenze nefaste sul reale. Di solito quando i giochi collassano si può iniziarne di nuovi e nella maggior parte dei casi non lasciano conseguenze durature; lo stesso non si può dire per la normalità. Per arginare queste crisi, entrambi creano delle sanzioni e leggi volte a re-includere nel gioco e nella società gli individui-giocatori. La società, a differenza del gioco, spende una quantità tale di energie nella messa in atto di queste strategie tale che non si può più parlare di un qualcosa di puramente ludico e irreale. La società prende molto sul serio la re-inclusione nel gioco sociale dei bari e dei guastafeste. La società reitera queste strategie un numero arbitrario di volte, permettendo così la sua sussistenza in periodi molto lunghi ed evitando che qualcuno possa rimetterla radicalmente in discussione.
Anche la tensione verso l'onore, che abbiamo affermato esistere nel gioco, esiste negli altri aspetti della vita sociale: da un lato l'onore è l'aspetto di un atto sincero, del quale quasi non ci rendiamo conto, che proviene dalla nostra interiorità, nel quale ci riconosciamo e ci immedesimiamo; e dall'altro lato questo stesso atto implica la messa in scena di un certo codice morale, a cui permettiamo coscientemente di stabilire la forma della nostra maschera. Essendo questo codice morale strettamente legato al concetto di normalità e al contesto sociale, l'onore può diventare una manifestazione dell'appartenenza ad una certa società. Abbiamo descritto come certe forme di messa in mostra dello spreco di certe risorse, come il potlach o il consumo viscoso, siano pervase dalla nozione ludica di onore e allo stesso tempo siano rituali per dimostrare di possedere la capacità di far parte della normalità.
Possiamo ritrovare una certa tensione, una dialettica tra la maschera e la vertigine, anche nella performazione della propria personalità. In una certa misura ogni individuo recita la propria personalità come se scegliesse una serie di azioni e di aspetti in grado di caratterizzare il personaggio che vuole essere, il modo in cui vuole apparire nel mondo. Dobbiamo chiederci perciò fino a che punto le varie forme di espressione della nostra personalità siano reali e sincere o fino a che punto sono invece messe in scena. Per esempio l'eroe che si sacrifica al fine di salvare un individuo è realmente altruista, ossia crede veramente in quello che fa, oppure vuole restituire una certa immagine di sé? E nel caso il sacrificio fosse segreto sarebbe comunque un atto sincero? Un bambino smette di essere cavaliere una volta che il gioco è finito, la personalità dell'uomo invece è segnata indelebilmente dalla realtà delle singole azioni. Nel gioco l'uomo inventa la sua personalità con un libero atto creativo e attraverso il
gioco la manifesta e la modifica; nel gioco può sperimentare tutti i ruoli che desidera, compresi quelli che gli sarebbero preclusi nella serietà della società. Nella società non si tratta più di sperimentare, ma di mettere in atto i propri ruoli ed essere in grado di passare in maniera fluida tra essi, a seconda di quello che gli viene richiesto dalle circostanze.
Noi viviamo in un mondo di rappresentazioni dove, nessuno escluso, recita una o più parti adattandosi al contesto del suo mondo e del suo tempo. Il ruolo di un individuo nella società, come abbiamo visto, è l'insieme strutturato di aspettative e comportamenti attesi collegati ad un determinato status sociale. Il ruolo ha sia una dimensione di aspettativa sia normativa. La parola ruolo viene dal latino “rotulus” che era il rotolo di pergamena sul quale l'attore leggeva in scena la propria parte. Il ruolo è la maschera, è il personaggio che ciascuno impersona nella società, ed è grazie al ruolo che ne entra a far parte. Naturalmente, può anche rifiutarlo, ma allora si espone al rischio di divenire un emarginato. Ovviamente nell'ambito del processo di socializzazione esiste una gamma intermedia che va dall'individuo perfettamente integrato fino all'estremo opposto, l'emarginato. I ruoli servono per creare ordine sociale e per regolarne i rapporti: sono costituiti da costellazioni di comportamenti istituzionalizzati, indirizzati verso una specifica funzione sociale e correlati ad uno scopo sociale. Il gioco, come abbiamo appena detto, ci permette dunque di giocare con i ruoli sociali: di sperimentarli e arricchirli, venendo a formare così la nostra personalità in modo sì artificioso, ma senza che questo implichi nulla di falso o di non spontaneo.
Winnicott dice che giocando si sospende il giudizio di realtà, che nel gioco viene a cadere la distinzione tra ciò che è prodotto da me (soggettività) e ciò che proviene dall'esterno. Il gioco creativo vivifica la realtà esterna, l'oggetto transizionale, e fa sì che la soggettività “s'incarni” e che, in questo prendere forma, diventi bene scambiabile, insieme di di significati condivisibili. Il coinvolgimento del giocatore sta nel partecipare all'illusione che deriva dal mantenere viva l'incertezza (questo mondo lo vedo solo io o anche gli altri? È una mia creazione o un “non me?”). Il gioco creativo e la cultura inaugurano una terza dimensione dell'esperienza, una zona intermedia di esperienza, che può essere condivisa: a patto di tollerare l'incertezza, oltrepassare i confini stabiliti, ridisegnare nuove mappe muovendosi su un terreno fluido e instabile. Occorre, come direbbe Bateson, cavalcare il paradosso della comunicazione che chiede di giocare con le regole e le strutture di significato, abitare il doppio vincolo. Questa zona intermedia, di cui abbiamo già parlato, è il primo momento di contatto che il bambino ha con qualcuno diverso da sé: la madre. Con essa inizia un dialogo ludico, e per la prima volta instaura un sistema di credenze e di valutazioni condivise. Esiste
una continuità fra la il gioco che si svolge in questa terza area e lo spazio del gioco sociale. Abbiamo visto difatti la centralità della condivisione di credenze e valutazioni all'interno delle comunità sociale.
Si può dunque concludere che, sebbene in modalità diverse dal gioco, anche nella società si può parlare di una certa dose d'irrealtà. Così come nel gioco anche nella società si può parlare di recitazione, sebbene sia una recitazione seria. Chi assume dei ruoli sociali, per essere normale, deve essere in grado di mantenere una certa scissione tra il ruolo sociale e la sua personalità: non deve esagerare l'importanza di entrambe, ma dargli il giusto perso a seconda del contesto.