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1.6 Realtà, Finzione, Irrealtà Dopo il cerchio magico

Nel documento I normali e gli altri. Gioco e filosofia (pagine 42-49)

Il cerchio magico, ben lungi dall'essere risolto, si collega ad un altro paradosso che è stato appena abbozzato fin'ora.

“L'attore sul palcoscenico è reale quanto gli spettatori, le quinte, i riflettori, il teatro – ma contemporaneamente è Amleto, il principe di Danimarca, che vuole vendicare la morte del padre e per il troppo pensare non riesce ad agire. Amleto è meno reale dell'attore? E inoltre ha senso parlare qui di un ‘più’ e di un ‘meno’? Se noi chiamiamo l'apparenza teatrale, il mondo del gioco, solo ‘irreale’, l'abbiamo così caratterizzato in modo già sufficiente? […] Che ‘apparenza’ strana e singolare è questa che fa parte del gioco rappresentativo, e anche in certo modo del gioco in generale, che invero è reale ma non mostra nulla di reale? […] Come può mai un'irrealtà essere reale?”46

Attraverso Fink, proviamo a chiarire e a capire il carattere d'irrealtà del gioco. Nell'uso corrente dei termini “realtà” e “irrealtà”, si ha una netta distinzione, anzi possiamo dire che sono l'uno l'opposto dell'altro. Stanno semplicemente in antitesi. Una cosa o è reale o non lo è, sembra prospettarcisi questo davanti. Insomma tertium non datur. Tuttavia ciò decade quando s'inizia ad immaginare qualcosa. L'immaginato è sì nullo, quindi non ha pretesa di essere reale, ma non lo è poi del tutto. Esiste quanto meno come rappresentazione mentale, come le chimere e le creazioni poetiche. Basti pensare al concetto di “nulla” che è la quintessenza di ciò che non esiste. Dunque il rigore assoluto, di cui parlavamo prima, inizia a vacillare. Bisogna accettare almeno un'irrealtà della raffigurazione come momento semantico. L'irrealtà del gioco non è solo una rappresentazione mentale. Gli attori che salgono sul palco sono persone in carne ed ossa, non provengono dalla nostra fantasia. Realtà e irrealtà non esauriscono le alternative. Esse non sono delle proprietà, ma sono una modalità d'essere dell'ente, una modalità ontologica. Il gioco si forma dall'intersezione di questi due universi. Veniamo trasportati nel “regno dell'apparenza” dove tutto è possibile, non si passa nessun Rubicone, dove la nostra forza creatrice può espandersi e l'imperativo diventa “fare come se”.

“Noi siamo ricchi a prezzo della povertà – ricchi, in quanto possiamo ancora tutto, possiamo scivolare da una pelle all'altra, possiamo far sì che i nostri atti siano come non accaduti; siamo poveri, in quanto questa esistenza non si svolge nella vera realtà, ma solo nel paese dell'immaginario”47.

Questo regno intermedio è costantemente tenuto in vita dai giocatori stessi: è un'attitudine, è una performance. Questa apparenza che viene prodotta non è sinonimo di assenza e non ha nemmeno un esistenza puramente mentale, come abbiamo già detto. È un'apparenza esistente, che sta tra le cose eppure non è le cose stesse. È delimitata in modo particolare.

46 Fink, E., Il gioco come simbolo del mondo, Hopefulmonster, p. 56. 47 Ivi, p. 71.

Questo aspetto dell'irrealtà del gioco sembra presentarsi con un taglio ben preciso, ossia sotto la luce della mimesis, dell'imitazione.

Platone prende come modello lo specchio, per un'interpretazione del gioco inteso come mimesis. Ora prendiamo per esempio l'immagine di un albero che si riflette nell'acqua. Esistono tre dimensioni: l'albero in se, l'acqua e l'immagine riflessa. In quest'ultima riconosciamo una copia fedele, ma pur sempre una copia. Ha una realtà del tutto diversa sia dall'albero sia dall'acqua: è un'apparenza, non sta sull'acqua come del colore su una tela, non “copre” la riva. Distinguiamo perfettamente queste tre dimensioni, non le confondiamo. È come quando noi vediamo attraverso il vetro di una finestra. Guardiamo il vetro e allo stesso tempo quello che sta al di là di esso, il paesaggio. L'immagine riflessa sull'acqua però non è come il vetro trasparente. Qui non c'è differenza alcuna fra realtà ed irrealtà. È tutto parimenti reale; mentre l'immagine riflessa dell'albero è un'irrealtà che si poggia su qualcosa di reale (l'acqua) ed è contemporaneo. Il riflesso inoltre, dipende totalmente dall'originale. Non crea nulla di nuovo e non esiste nemmeno di per se, ha bisogno di qualcuno che lo colga per poter essere visto nel suo momento irreale.

“L'immagine riflessa copia. Ma pur copiando, pur rimanendo dipendente dall'originale, essa apre per prima la sfera di un ‘essere’ singolare: il nostro sguardo penetra per così dire in un regno irreale. L'immagine riflessa è per noi come una ‘finestra’ aperta su un paese irreale e pur visibile”48.

Illusione ed inganno sono fortemente correlati al mondo dell'irrealtà. Per Platone ogni atto al di fuori della verità pura è un inganno, che a sua volta è sinonimo di illusione. Già Rousseau, entro certi limiti, aveva distinto i due termini dal punto di vista morale, ponendo l'accento su chi inganna/illude. Kant viceversa, su un piano cognitivo, sposta il focus su colui che subisce la “finzione”. Su quale principio si basano le invenzioni dei poeti? Questa è la domanda a cui Kant tenta di dare risposta, introducendo un altro genere di apparenza.

“Vi sono alcune apparenze delle cose con le quali la mente gioca, ma dalle quali non è ingannata. Colui che le suscita non vuole, tramite loro, produrre errori negli incauti, ma verità; e una verità rivestita da una veste di apparenza, la quale non nasconde la sua stesse, più intima natura, ma la sottopone, abbellita, davanti agli occhi. Essa non inganna gli inesperti e i creduloni con ornamenti e illusioni, […] dovrà piuttosto essere chiamata illusione”49.

48 Ivi, p. 77.

Esiste dunque qualcosa che, pur essendo basata sui sensi e sull'apparenza, non inganna. È l'illusione. La differenza tra quest'ultima e l'inganno sta nella permanenza. Kant continua dicendo che l'inganno svelato svanisce, mentre l'illusione, essendo basata sulla verità, rimane.

“L'apparenza che inganna è sgradita; quella che illude piace molto e diletta. Così il prestigiatore, che si dice giochi per denaro, per il fatto che tenta di raggirarmi con la frode, in un primo momento mi attrae, […]; però, della frode, una volta scopertala, mi sdegno e, se ripetuta, m'infastidisco”50.

L'illusione è dunque verità, perché porta con sé un momento di consapevolezza51. Essa

quando è presente nell'inganno, lo porta alla luce come tale; nell'illusione invece, fa apparire la verità dietro l'apparenza. L'illusione “muove piacevolmente l'animo”, è un atto consapevole, è un “fluttuare tra errore e verità”, dove già la consapevolezza stessa dell'errore è verità.

Dunque l'illusione ha un'accezione positiva, mentre l'inganno negativa. Illusione implica la consapevolezza52, mentre l'inganno comporta che il sostituto venga scambiato per l'originale.

Il latino illusio deriva da Ludus, quindi già nel termine stesso c'è una forte correlazione con il gioco.

Platone accomuna poeta e pittore poiché essi imitando, discostano dalla verità. Copiando il vero, ce ne allontanano. Nel X libro della Repubblica Platone mette al terzo posto il pittore nella scala di verità:

1. L'idea di tavolo,

2. Il tavolo creato dal falegname, 3. Il dipinto del tavolo fatto dal pittore.

Nel primo caso abbiamo l'originale, nel secondo la copia ed infine la copia della copia. Il pittore usando l'espediente della prospettiva e la tecnica del trompe-l'œil, ci fa credere che il tavolo sia veramente presente e non solo disegnato. Come lo specchio d'acqua che ci restituisce un immagine riflessa, un'immagine apparente. Per Platone ogni sostituzione che pretende di essere vera e non esibita come tale è un inganno, sia cognitivo sia morale. I pittori

50 Ibidem.

51 Qui Kant anticipa quello che dirà poi Coleridge con la nota formula: sospensione dell'incredulità.

52 È la consapevolezza di essere ingannati e volersi ingannare in modo attivo. Lo spettatore, il giocatore accetta di farsi ingannare dall'attore, dal gioco. Così facendo entra nel mondo dell'irreale volontariamente e consciamente e non in quello dell'inganno. Questo accade pur essendo contraddittorio perché, per chi lo subisce, se vi fosse consapevolezza, non ci sarebbe inganno.

e i poeti che imitano il vero rischiano di non distinguere l'originale dalla copia, di sostituirli in maniera erronea. Qui l'illusione ha qualcosa di malizioso, di capzioso al contrario di quello che sostenevamo prima l'entrata nel mondo irreale del trompe-l'œil ci porterebbe solo a smarrirci, a perdere noi stessi. Il fare dell'artista, per Platone, è un “fare debole” perché è di pura apparenza, dunque le sue opere saranno necessariamente inferiori. Nel discorso platonico vi è un'istanza deformatrice per cui poeti, pittori, fabbricatori di specchi sono tutti etichettati come “fabbricatori di cose apparenti”.

Un'immagine riflessa però, mostra le cose che sono presenti nella realtà e noi siamo consapevoli di questo. Non la scambiamo per l'originale. È dunque un'apparenza sì, ma riconosciuta. Non confondiamo la copia con l'originale. Indiscutibilmente il gioco ha un carattere mimetico, ma si esaurisce in esso? Platone isola il gioco nel momento della mimesis. Come un artigiano che imita un modello, allo stesso modo si comporta l'uomo sia nella pratica che nella tecnica. Dunque il gioco viene bollato, assieme alla poesia, pittura ecc, come imitazione di imitazione. “L'intero fenomeno del gioco è nello sguardo, ma è lo sguardo di uno spettatore disincantato”, dice Fink. Il disincantantamento della filosofia platonica è essenzialmente negativo. È come un velo che trasforma le cose, senza che mutino realmente. Lo spettatore è come rapito e quando si rompe l'incantesimo, si scopre l'illusione si vedono gli uomini “troppo umani”e il sogno finisce.

Quando l'attore indossa la maschera, scompare dentro essa. Al termine del gioco, riemergono dai ruoli gli uomini, l'attore si strucca e subentra il disincantamento. Tuttavia questo ci fa vedere le cose in modo diverso, ma non è esatto dire che le vediamo in modo più vero. L'essenziale è ciò che traspare attraverso l'uomo finito e fragile. Se il gioco è una mimesis non è però della stessa natura del riflesso. È possibile che nel gioco si imiti la vita e le attività serie dell'uomo, basti pensare ai giochi dei bambini che imitano gli adulti, ma nel gioco non si riflettono situazioni contemporanee della sfera del quotidiano. Dunque non è una servile imitazione. Per Fink il trucco sta tutto qua, nella differenza tra specchio artificiale e naturale. Platone omette il carattere di contemporaneità tra l'originale e la copia, per screditare il poeta e il pittore. Se non l'avesse fatto non sarebbe stata possibile una svalutazione. Il suo tentativo è quello di smascherare nel gioco un'impotenza simile a quella dello specchio. Certo esistono varie analogie tra immagine e gioco, ma altrettante differenze:

“Nel gioco produciamo un'immagine della vita, ‘parafrasiamo’ l'esistenza seria, perfezioniamo dei comportamenti ‘come se’[...]. In questo senso appartiene ad ogni gioco, […], un elemento fittizio. Ma la grande maggioranza dei giochi

rappresenta qualcosa. […] Gli attori, che sono riuniti in un gioco comune articolato secondo un senso e che in esso hanno le loro parti regolate le une sulle altre, vivono in un mondo ludico comune e suddiviso comunitariamente. Questo mondo ludico è esso stesso un irreale, per quanto comprenda in sé uomini reali. […] ha un suo particolare ‘carattere d'apparenza’ – non è niente di reale e tuttavia non è il nulla. […] Il mondo ludico è un'apparenza irreale che ‘abbraccia’ gli attori, li copre e tuttavia non li nasconde. Così come attraverso l'immagine riflessa dell'albero sulla riva noi vediamo sempre l'acqua”53.

Inoltre è differente anche dall'immagine artificiale, in quanto questa è un prodotto che ha lasciato la fabbricazione dietro di sé. Questo nel gioco non è possibile, perché il giocare non è separabile dall'attività produttrice e non arriva ad alcun risultato finale.

Dunque dal fatto che Platone stabilisca una gerarchia ontologica precisa, si può comprendere la sua critica verso l'arte: l'arte è imitazione, come lo specchio l'artista produce un'illusione nella quale si rispecchia un qualcosa di esistente, in quanto irreale il prodotto artistico si allontana dal vero essere delle cose. Tutto il mondo deve essere proteso verso il sommo ente, e così come le cose sono uno sbiadito riflesso delle idee, l'arte è uno sbiadito riflesso delle cose, le produzioni sono più lontane dall'essere e hanno quindi un rango ontologico inferiore. La critica di Platone è una critica al gioco, un tentativo di risolvere il paradosso tra verità e falsità, realtà e irrealtà, trovando un metodo per discernere essere e non essere. La filosofia platonica fa uso del linguaggio metaforico e di miti, ma questi sono legittimi solo quando si pongono come similitudini che aiutano a comprendere la verità. Sono solo un mezzo per raggiungere uno scopo più alto (valore euristico) e andranno abbandonati prima che diventino seduzione sensibile e lo spirito rimanga così intrappolato.

L'individuo produce “un'apparenza esistente”, che non si determina come l'immagine riflessa platonica, e il giocare diventa “una creazione, con caratteri di finitezza, nella magica dimensione dell'apparenza”54. Per usare ancora le parole di Fink, “l'irrealtà non è meno, ma

piuttosto di più della semplice realtà delle cose”. Non è semplicemente una parvenza. Il termine “irrealtà”, insieme a quello di “gioco”, è stato svalutato dalla razionalità della civiltà fino a diventare qualcosa di inautentico e a tratti negativo. Ma non è sempre stato così. Basti pensare ai giochi dei bambini o al cerchio magico (citato prima) del primitivo. Qui l'irreale non è qualcosa di poco conto rispetto alla vita seria. Qui ha un carattere fortemente positivo, ha un modo d'essere ontologicamente più forte. Ciò non significa che il bambino e il primitivo

53 Fink, E., Il gioco come simbolo del mondo, Hopefulmonster, pp. 93-94. 54 Fink, E., L'oasi del gioco, Raffaello Cortina, p. 12.

non riescano a distinguere l'immaginato dalla realtà. L'irrealtà come l'illusione non è una degradazione, anzi l'opposto.

Il mondo del gioco allora si basa su questa specifica tipologia di apparenza. Il gioco è un'oasi, ma può anche assumere il ruolo di rappresentare in modo esaustivo il mondo, perché ne è metafora in quanto frammento e non come copia sbiadita. È alla luce della comprensione del gioco che noi comprendiamo la collocazione dell'uomo nel mondo. L'uomo è per sua natura portato a lasciarsi andare alla leggerezza del gioco perché è consapevole dell'inutilità e dell'insensatezza dell'ordine cosmico. Ogni ente, compreso l'uomo, è un “giocattolo cosmico”, i giocatori sono “essi stessi giocati” e “nulla è dietro (i fenomeni) se non il nulla stesso”. Così per Fink il gioco è un Weltsymbol, un simbolo cosmico.

Reale e simulato sono perni su cui il gioco ruota, e l'incapacità di esporre con chiarezza cosa sia effettivamente reale e cosa simulato derivano dalla natura della maschera che di volta in volta il gioco assume. Difatti anche Fink pone come premessa l'idea che il concetto di gioco sia qualcosa che non si lascia cogliere facilmente in maniera ontologica.

“Lo stare dentro e fuori dal ruolo, il tenere i piedi – per dir così – tanto nell'irrealtà quanto nella realtà, senza cancellare né l'una né l'altra, apre un problema che la filosofia stessa non ha ancora esplorato e che è una vera provocazione per il nostro intelletto. Eppure, se togliamo di mezzo questo paradosso, cercando di riportare il gioco alle nostre abitudini di pensiero, perdiamo il gioco stesso con tutti gli effetti virtuosi che esso promette alla filosofia”55.

Il concetto del gioco va dunque considerato sia in autonomia rispetto al pensiero filosofico tradizionale, sia profondamente integrato ad esso. Da un lato è una possibile attitudine con cui affrontare l'esistenza, dall'altro una lente ermeneutica su di esso, una chiave di lettura filosofica per il mondo.

Pur sapendo che il pensiero platonico è molto più complesso e articolato, per quanto riguarda la mimesi, la pittura e la poesia (nel III e X Libro già citati) sembra voler ridurre la realtà alla dicotomia inganno-verità. In questo caso particolare addirittura, i due significati sembrano coincidere. Kant invece, separa illusione e inganno e afferma che l'illusione stessa è interna alla verità. Illusione e apparenza, così descritte, sono un momento e fanno parte della verità. Dunque non ogni apparenza/illusione inganna. Hanno dentro sé l'elemento giocoso del “fare come se”. Questa componente, come si può evincere da queste pagine, ci fa capire che il

gioco non è un passatempo o qualcosa di caotico, ma qualcosa di più. È nella libertà del gioco che l'uomo può dispiegare le ali e rincominciare ogni volta da zero, autodeterminandosi in maniera nuova. Come recita una famosa canzone dei Queen:

“You can be anything you want to be.

Just turn yourself into anything you think that you could ever be. Be free with your tempo, be free, be free.

Surrender your ego be free, be free to yourself”56.

Libertà nel trasgredire e nell'imporci regole, per creare rapporti, contesti e non da ultimi noi stessi, la nostra identità. Donald Winnicott, psicoanalista britannico, afferma che il concetto d'illusione è un passo decisivo per l'apprendimento del bambino. Nel 1970 pubblicò il libro

“Gioco e realtà”, dove prende in esame il gioco e il ruolo della madre nello sviluppo emotivo

del bambino. Qui espone la teoria degli oggetti transizionali (come la coperta di Linus, delle famose strisce a fumetti Peanuts), i quali attestano un'esperienza illusoria: la grande importanza è data dal loro “non essere madre”, ma lo “stare per la madre”. Questi oggetti permettono il passaggio dal principio di piacere a quello di realtà, tramite la formazione di un'insieme di illusioni e credenze condivise. Il bambino vuole illudersi di essere autonomo, ma sa che vicino a lui c'è la madre. È in questo spazio (terza area) tra madre e bambino che si trova il gioco, nella separazione/unione dei due. Quest'area intermedia è in diretta continuità con l'area del gioco dello psicoterapeuta:

“La psicoterapia ha luogo là dove si sovrappongono due aree di gioco, quella del paziente e quella del terapeuta; la psicoterapia ha a che fare con due persone che giocano insieme (…) quando il gioco non è possibile, allora il lavoro svolto dal terapeuta ha come fine di portare il paziente a uno stadio in cui ne è capace”57.

Nel documento I normali e gli altri. Gioco e filosofia (pagine 42-49)