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3.1 Struttura del vivere sociale

Nel documento I normali e gli altri. Gioco e filosofia (pagine 102-109)

Ogni individuo deve ricevere nozioni per elaborare comportamenti adeguati al sistema culturale in cui vive. Ogni cultura tende ad avere dei meccanismi che agiscano in maniera automatica per generare delle risposte comportamentale. Queste strutture sono progettate come codici, espliciti o impliciti, inseriti nel complesso di regole e comportamenti sociali. La cultura cerca di screditare stimoli e nozioni che ritiene erronei o che vanno contro i dettami che essa impone. Bisogna capire come la cultura e la società cercano di costruire la normalità. Innanzitutto la normalità è presentata come una condizione di vita auspicabile. Questo perché l'uomo è un'animale sociale, desidera e ricerca la vita nella comunità, dunque è portato naturalmente a vivere e a seguire il set di regole imposto dalla cultura per non esserne escluso. Dunque in questo capitolo mostrerò la necessità che tutti si uniformino ad uno stile di vita simile e che abbiano degli obbiettivi di desiderio uguali. Questi desideri agiscono inconsapevolmente in noi e possono essere, per esempio: la ricerca dell'appagamento, della gratificazione di sé, del benessere, della ricchezza, dell'amore. Sono delle linee di tendenza, abbastanza ovvie, verso cui tutti, chi più o chi meno, sono sospinti.

Bisogna ammettere che il concetto di “normalità” è molto ineffabile e quasi dato per scontato. È come uno sfondo invisibile su cui si colloca tutto il resto. In realtà nessuno può essere considerato normale alla nascita, perché la personalità di ognuno deve essere rimodellata per poter rientrare nel mondo dei normali. Senza il meccanismo della cultura, che ci omologa e ci dice cosa dobbiamo fare e quando, l'uomo non avrebbe nessuna personalità. Il mito del fanciullo selvaggio: nel 1797 la leggenda diventa realtà, Victor (o il ragazzo selvaggio) dell'Aveyron155 era un trovatello che aveva vissuto l'infanzia da solo nei boschi in Francia. Fu

catturato verso l'inizio del 800 e si scoprì che non era in grado né di parlare né di capire il linguaggio umano. Il lungo tentativo di rieducazione non ebbe buon esito. Questa vicenda reale ricorda le vicende del protagonista de Il libro della giungla o Tarzan. Queste storie ci mostrano come esistano bambini, i quali non essendo stati educati come esseri umani, al di fuori del commercio sociale, dunque privi della personalità umana, che sono stati creduti privi di anima da coloro che li hanno incontrati per la prima volta, perché estranei alla normalità. Questi esempi mostrano come questi individui non vengono neppure avvertiti come umani.

155La storia fu teatralizzata dall'inizio e fu poi portata al cinema con il film Il ragazzo selvaggio (1970) di François Truffaut.

La normalità è a tutti gli effetti un paradosso: è una sorta di astrazione teorica, una condizione inesistente, verso la quale ognuno deve intraprendere una strada personale differente. Certe categorie, come poveri o omosessuali devono percorrere una strada più tortuosa, ma tutti puntano a raggiungere lo stesso traguardo. Ogni individuo sociale deve andare a “scuola di normalità” e deve adeguarsi a questo set di regole. La normalità è uno zero percettivo, è la base da cui si diramano tutte le forme marcate. Esistono alcune categorie, di cui parlerò in seguito, che possono disattendere le regole della normalità perché provvisti di delega.

Dunque la normalità ha una dimensione performativa: non è l'essenza o la condizione primaria intrinseca del soggetto (come il DNA, la statura), ma è un lavoro che dura per tutta la vita dell'individuo. È un lavoro non solitario, ma di gruppo e ben coordinato. Quanto detto è allineato alla prospettiva goffmaniana poiché per lui l'interazione sociale è la conferma156

reciproca della correttezza della persona sociale, ossia quando l'interlocutore risponde in maniera appropriata e positiva in maniera concorde all'ordine sociale. Difatti il fine dell'azione sociale, secondo Goffman, è l'ottenimento di una conferma sociale di gruppo reciproca. In sociologia si parla del raggiungimento di uno stato di membership, ossia la qualità di appartenenza ad un insieme con piene prerogative; tale posizione, è di fatto esclusiva in quanto implica anche la possibilità di non appartenere al gruppo . Si devono sempre superare delle prove e avere certe competenze per poterne fare parte.

A proposito di membership, Gail Jefferson, allieva di Harvey Sacks, nel 1992 rielabora le lezioni tenute da quest'ultimo raggruppandole in cicli, le quali affrontano varie tematiche tra cui la membership categorization analysis (MCA). Il punto centrale di questa teoria è che qualunque società, formata da individui a pieno titolo, classifica i propri membri in categorie, progettate come insiemi (nazionalità, sesso, età, professione). Tutti questi insiemi seguono le stesse regole:

• Tutti gli individui rientrano dentro le categorie, nessuno può evitarle o starne fuori. A ognuno viene rivolta la domanda “in quale insieme ti trovi?” e sono tutti costretti a rispondere.

156Le dinamiche di questo discorso sono da ricercarsi nelle teorie di Robert Laing, psichiatra scozzese, il quale si occupa della nozione di disconferma. Osserva tre dinamiche fondamentali dello scambio osservabili tra madre e figlio: conferma, non conferma e disconferma. Quest'ultima è la più pericolosa perché consiste in una mancata registrazione dell'input relazionale da parte dell'interlocutore. Per esempio non rispondere ad un saluto è un segnale di disconferma: è una reazione percepita negativamente poiché l'interlocutore si sente minacciato nella percezione della propria esistenza che quindi non sente fondata su un accordo inter-soggettivo. Questo meccanismo è nocivo per la salute mentale.

• Tutte le informazioni che rientrano nel sapere comune della società o del gruppo culturale sono organizzate in relazione alle categorie. Ad esempio, che gli uomini sono razionali ed hanno difficoltà ad esprimere le proprie emozioni, è una informazione legata alla categoria del sesso. Il sapere legato alle categorie è quello che crea la nostra illusione della conoscenza della realtà oggettiva. Noi sappiamo che esistono uomini più emozionali che razionali, ma questa viene valutata come un'eccezione. La conoscenza legata alle categorie non può essere intaccata da tali eccezioni.

• Data una categoria con un numero x di elementi, le proprietà di quella categoria pregiudizialmente, in modo irriflesso, concernono tutti i membri. Ad esempio, tutte le donne sono irrazionali, quindi, mi aspetto che una donna che non conosco sia soggetta all'irrazionalità.

La categorizzazione serve per rendere omologabile il comportamento degli individui di una data società ed è sufficiente per spiegarne il comportamento: ti sei comportata in modo irrazionale? Lo hai fatto perché sei donna. Le Category bound activity (CBA) sono ciò che definiscono le azioni considerate tipiche di una categoria. Per esempio: è stato commessa una rapina, ci si aspetta che i responsabili appartengano alle categorie dei rom o dei migranti. Le CBA ci accompagnano nell'esperienza quotidiana della realtà e forniscono le motivazioni di un evento al fine di garantire una visione ordinata di quello che succede nella società. L'appartenenza a una categoria è garantita anche da una serie di categorie marginali, ossia da quelle categorie la cui funzione sociale serve a circoscrivere lo spazio chiuso del gruppo opponendolo ad uno spazio esterno che comprende gli individui che non fanno parte del gruppo. Dunque appartenere a un gruppo è configurato come un oggetto del desiderio, anche perché l'uomo per sua natura è un animale sociale.

Viviamo in una società che cerca d'imporci definizioni univoche e ne ha bisogno poiché maggiore è l'accuratezza di queste etichette, maggiore sarà la possibilità di gestione che la società ha su di noi. È dunque presente una rigida determinazione categoriale. L'insieme delle etichette riguardanti il modo di vivere la sessualità, per esempio, viene costruito nel'800 con la pretesa di essere uno strumento di verità. Noi siamo marcati e classificati dalla nostra sessualità. In precedenza avveniva lo stesso procedimento tramite altre categorie: per esempio in base all'anima, al temperamento, di conseguenza gli individui potevano essere sanguigni, melanconici, flemmatici. Noi siamo eredi di questo modo di guardare una persona. Oggi il sesso non è più soltanto un'attività legata all'identità della persona, ma è un'attività che acquista il significato dell'esercizio di una propria libertà politica. Tuttavia questo fa sì che

oggi il potere-sapere rinnovi i suoi meccanismi di repressione: il sesso può dunque essere strumentalizzato per la creazione di nuove categorie normalizzanti, al punto che oggi il dogma vigente è “farlo il più possibile”, radicalizzandosi a “se non lo fai, quasi non esisti”.

In una prospettiva di costruzionismo sociale, la realtà è ciò che le persone concordano nel ritenere tale. L'espressione “costruzione sociale” nasce dal libro La realtà come costruzione

sociale – saggio di sociologia della conoscenza, scritto da Peter Berger e Thomas Luckmann.

In questo libro analizzano come il sapere si concretizza nei gruppi sociali, come viene prodotto e scambiato, dunque come viene ad essere riconosciuto come statuto in un determinato gruppo sociale. La costruzione sociale della realtà, che infine si riversa nel senso comune, ossia in una visione del mondo a cui ogni individuo aderisce, in un determinato contesto storico-culturale, avviene in tre momenti costitutivi della vita sociale: l'esteriorizzazione, l'oggettivazione e l'interiorizzazione. I primi due momenti sono analizzati nel secondo capitolo, l'ultimo nel terzo. Il dato di partenza è che l'uomo vive da sempre all'interno di una struttura sociale e d'interazione continua con gli altri. Questa condizione esistenziale postula che la propria esperienza possa essere comunicata attraverso una rete di significati comuni tramite il linguaggio, il quale è sistema che rappresenta un potente esempio di oggettivazione e che non è vincolato alla realtà immediata. Ma dato il suo essere oggettivo, permette di poter accumulare e conservare il sapere e le varie esperienze al fine di costituire anche un bagaglio sociale di conoscenze, che si trasmette di generazione in generazione, disponibile al soggetto nella vita di tutti i giorni. Tutto questo ha un movente pragmatico:

“Una buona parte del bagaglio sociale di conoscenze consiste in ricette su come affrontare problemi di ordinaria amministrazione […] (tale bagaglio) mette a disposizione gli schemi di tipizzazione richiesti per le principali routines della vita quotidiana”157.

È sulla trama dei significati condivisi nella consuetudine o nell'abitualità della vita quotidiana che hanno origine le istituzioni:

“L'istituzionalizzazione ha luogo dovunque vi sia una tipizzazione reciproca di azione consuetudinarie da parte di gruppi esecutori. Ciò che va sottolineato è la reciprocità delle tipizzazioni istituzionali e la tipicità non solo delle azioni ma anche degli attori delle istituzioni. Le tipizzazioni delle azioni istituzionalizzate che costituiscono le istituzioni sono sempre condivise. Esse sono accessibili a tutti 157Berger, Luckmann, La realtà come costruzione sociale – saggio di sociologia della conoscenza, il Mulino, p.

i membri del particolare gruppo sociale in questione, e l'istituzione stessa rende simili gli attori individuali e le azioni individuali”158.

L'istituzionalizzazione ha una particolare importanza ai fini del funzionamento individuale e sociale: hanno una funzione di controllo della condotta umana, fissando modelli prestabiliti da seguire, che la incanalano in una direzione piuttosto che in un'altra. Questo controllo avviene in ogni società ed è il fondamento di ciò che si definisce normalità. Il carattere storico delle istituzioni, essendo remoto o rimosso, si sottrae solitamente agli attori, che tendono dunque a naturalizzare le tipizzazioni su cui esse si appoggiano. Tale carattere si sfuma ulteriormente o viene addirittura meno nel processo di trasmissione alla nuova generazione: ai bambini si pone di fronte come una realtà data e viene così interiorizzata. È su questa base che un prodotto storico finisce con l'agire sul produttore e configurarsi ai suoi occhi come una dimensione oggettiva, che lo trascende. Dunque le coscienze individuali vengono irretite entro le tradizioni, che circoscrivono i modi in cui va letta e definiscono le formule comportamentali. La diffusione del significato di un'istituzione è fondata sul riconoscimento sociale della stessa come una soluzione permanente. Perciò gli individui devono essere messi al corrente di quei significati, ossia si rende necessaria un educazione in tal senso e devono esserci anche dei processi, per mezzo dei quali, quest'educazione possa essere ripassata nel corso della vita, se necessario con mezzi coercitivi, per mantenerla viva. Questo processo di rafforzamento avviene grazie all'assegnazione di ruoli agli individui, ed è tramite questi che il soggetto partecipa al mondo sociale e sono sempre essi che rappresentano l'ordine istituzionale.

“Solo attraverso questa rappresentazione di ruoli svolti l'istituzione si manifesta nell'esperienza effettiva; con il suo complesso di azioni programmate essa è come il libretto non scritto di un dramma. La realizzazione del dramma dipende dall'esecuzione ripetuta dei ruoli prescritti da parte di attori viventi. Gli attori incarnano i ruoli e attualizzano il dramma rappresentandolo sulla scena. Né il dramma né l'istituzione esistono empiricamente indipendentemente da questa ricorrente realizzazione”159.

Dunque, come già detto in precedenza, la normalità è un lavoro continuo e di gruppo che non finisce nemmeno dopo esservi stati educati, ma presuppone un incessante ripasso, da parte di tutti, dei contorni e delle linee guida del vivere sociale.

158Ivi, pp. 83-84. 159Ivi, p. 109.

Nel saggio Linguistics and Poetics160 (1960) di Roman Jakobson, linguista russo,

sistematizzando spunti e osservazioni di molti altri ricercatori, ha proposto un fondamentale schema formale di ogni processo comunicativo umano e sociale. In particolare ha individuato sei diverse funzioni della comunicazione verbale denominate: referenziale, emotiva, conativa, fàtica, metalinguistica e poetica. A ciascuna delle sei funzioni Jakobson riconduce un fattore costitutivo della comunicazione, in particolare quella fàtica o di contatto, si esplica in messaggio, privi di autentica carica informativa e referenziale, che servono per stabilire, prolungare e mantenere o anche riattivare la comunicazione. Sono da considerare fàtici i convenevoli e gli enunciati di cortesia che si producono nelle comuni interazioni verbali (esempio “ciao, come va?”), gli inizi di conversazione per esempio quelli con cui si inizia una telefonata, le formule rituali e vuote di significato come “ho capito”, da intendere alla stregua di un segnale che significa “ti sento, continua pure”. Jakobson riprende il termine dall'etnologo Malinowski, il quale aveva parlato di “comunione fàtica” riferendosi a pratiche comunicative proprie delle società primitive. Malinowski ne parla in un saggio intitolato Il

problema del significato nei linguaggi primitivi161 (1923) con la convinzione che la principale

funzione del linguaggio non è quella di esprimere il pensiero né di riprodurre processi mentali, ma quella di svolgere un ruolo pragmatico attivo nel comportamento umano. Il linguaggio non è solo veicolo di informazioni, ma è prima di tutto un'azione, è volto a stabilire un contatto. Il contenuto, in questo caso, non ha rilevanza. Il linguaggio va considerato all'interno della dimensione sociale e serve per rafforzarne il legame. Ha un funzione fàtica e non cognitiva: la sua funzione principale è quella di costituirsi come azione sociale, mentre quella secondaria è cognitiva. Basti pensare alle conversazioni futili, come quelle delle feste: argomenti sul tempo, gossip, commenti su qualcosa di ovvio non hanno lo scopo di esprimere nessun pensiero. Malinowski osserva, in questi casi, che le cose dette sono irrilevanti Però non è uno scambio discorsivo neutro: il parlare del più e del meno serve per ripassare i contorni di una conoscenza condivisa, serve a ribadire le assiologie e le nozioni condivise, è un dire “sì” a certi sistemi di valore, questo comporta un consolidamento dell'accettazione di sé all'interno del gruppo sociale. Parlare di qualcosa come il clima, si presta molto bene perché è qualcosa dove tutti ne siamo immersi e non crea diversità di schieramenti (come invece potrebbe fare l'argomento “calcio”). Dunque anche uno scambio sociale sull'argomento “clima”, a cui tutti possono partecipare, è utile nella misura in cui l'enunciato assume la funzione ontologica di confermare l'esistenza della persona, “io esisto”.

160Jakobson, R., Linguistica e poetica, in Saggi di linguistica generale, Feltrinelli. 161Malinowski, B., Il problema del significato nei linguaggi primitivi, Il Saggiatore.

Malinowski cerca di dare inoltre una spiegazione al perché si parla anziché stare in silenzio: la risposta si può trovare in questa esigenza di vedere la propria esistenza riconosciuta socialmente. La società considera il silenzio come qualcosa, per natura, di allarmante e pericoloso. Lo straniero che non sa parlare viene emarginato e visto con sospetto (mi richiamo agli esempi precedenti sui “barbari”). L'essere silenziosi può diventare sinonimo di mancanza di amichevolezza o di cattivo carattere. I legami di unione vengono creati dalle parole e altrettanti silenzi perciò possono portare all'esclusione, quindi sono pericolosi.

Ogni individuo che nasce viene perciò avviato alla carriera di socializzazione:

“(L'individuo) non nasce membro della società. Egli nasce con una predisposizione alla socialità, e diventa un membro della società”162.

La formazione dell'identità sociale e personale passa attraverso il processo di socializzazione. L'interazione con gli altri, che hanno interiorizzato le stesse istituzioni, è il più solido piedistallo per la normalità. Lo scambio discorsivo funziona in modo continuo come un processo di normalizzazione e naturalizzazione delle istituzioni. Inoltre anche il pericolo della crisi inerente la relatività dei valori culturali, viene solitamente scongiurato grazie allo scambio discorsivo, poiché serve a riconfermare la validità di quei valori e delle routines comportamentali.

Goffman parla di face work163, ossia il lavoro che è necessario per mantenere la propria faccia:

secondo l'autore le interazioni sociali sono orientate ad mantenimento dello status, del ruolo, di un'identità che non corrisponde alla vera identità del soggetto, è solo un identità ufficiale164.

Si tratta ora di mostrare che non solo gli interlocutori devono lottare per il proprio riconoscimento sociale, ma anche per far si che gli altri vengano esclusi, quindi siamo in una dimensione competitiva. Questo è un effetto delle dinamiche del desiderio: c'è sempre il desiderio di mostrarsi inimitabili e allo stesso tempo degni d'imitazione.

162Berger, Luckmann, La realtà come costruzione sociale – saggio di sociologia della conoscenza, il Mulino, p. 179.

163Rituale di interazione: Saggi sul comportamento faccia a faccia è una raccolta di sei saggi. I primi quattro furono originariamente pubblicati negli anni '50, il quinto nel 1964 e l'ultimo fu scritto per la collezione. Includono: “Sul viso” (1955), “Imbarazzo e organizzazione sociale” (1956), “La natura della deferenza e del comportamento” (1956), “Alienazione da interazione” (1957), “I sintomi mentali e l'ordine pubblico” (1964) e “Dov'è l'azione”. Il primo saggio, “On Face-work”, discute sul concetto di volto, che è l'immagine positiva di sé che un individuo detiene quando interagisce con gli altri.

164L'identità associata al ruolo che assumiamo in pubblico è definita dalla società e viene chiamata da Goffman “identità virtuale”, tuttavia l'identità personale, chiamata “identità attuale”, che mostriamo nel privato rappresenta il nostro sé essenziale. Se la discrepanza tra le due è eccessiva, si può incorrere in un'etichetta negativa e se questa è perpetrata nel tempo si trasforma in stigma.

Nel documento I normali e gli altri. Gioco e filosofia (pagine 102-109)