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1.5.2 Un cerchio magico particolare: gioco culto sacro

Nel documento I normali e gli altri. Gioco e filosofia (pagine 33-42)

Il problema del dentro e fuori il cerchio magico, porta Huizinga a paragonare il gioco al culto sacro collegandoli tramite l'analogo movimento di separazione/unione che avviene in entrambi.

Rispetto ai giochi infantili, nel culto delle civiltà arcaiche, Huizinga trova un elemento in più. Vi partecipa un fattore spirituale, difficile da definire con precisione.

“La sacra rappresentazione è qualcosa di più di una realizzazione apparente e magari simbolica: è una realizzazione mistica. […] qualche cosa d'invisibile, d'inesprimibile si concreta in forma bella, reale, sacra. I partecipanti al culto sono convinti che l'azione realizzi una certa salvezza, e che promuova uno stato di cose superiore a quello in cui essi vivono d'ordinario”28.

C'è davvero la credenza che dalle gare stagionali dipenda la prosperità del raccolto. L'azione sacra è anche essa “unità di credere e non credere”. Dice difatti lo stesso Huizinga:

“Pare che gli uomini non abbiano paura degli spiritiche vagano dappertutto durante la festa […] E non c'è da stupirsene: infatti sono i medesimi uomini che hanno la regia di tutta la cerimonia: hanno fatto loro stessi le maschere […] Sono loro che producono il fruscio annunziante l'apparizione dello spirito, sono loro che segnano le sue tracce sulla rena, sono loro che suonano i flauti riproducendo le voci degli antenati […] L'atteggiamento stesso degli iniziandi oscilla tra commozione estatica, finta follia, angoscioso raccapriccio e giovanile posa ed affettazione. Infine neppure le donne ci credono veramente. Sanno esattamente chi si nasconda dietro tale o tal altra maschera. Eppure di eccitano oltremodo quando la maschera s'avvicina a loro in atteggiamento minaccioso, e scappano in confusione strillando”29.

L'azione sacra deriva dall'unione di Ilinx e Mimicry. È un dramenon, cioè qualcosa che si fa, e il drama è ciò che si rappresenta (sia gara che rito). Si mette in scena un avvenimento cosmico, non solo come rappresentazione, ma come qualcosa di più: come identificazione. È

28 Ibidem. 29 Ivi, p. 29.

partecipazione nel doppio senso di comunicare e co-agire. È come se giocando rimarcasse delle linee già tracciate, così rimettendo in scena questi avvenimenti potesse mantenere l'ordine del mondo. La società primitiva gioca come giocano i bambini, gli animali. Ha già in se gli elementi propri del gioco quali: tensione, ordine, movimento solennità e fervore. Nella forma e funzione del gioco, l'idea di essere compresi nel cosmo, nel suo ordine sacro, ha qui la sua suprema espressione. Il culto s'innesta nel gioco, ma già l'atto di giocare viene prima. Il culto fa parte della sfera del serio e nondimeno è fondato sul gioco.

Queste rappresentazioni hanno le stesse regole formali del gioco. Si ha uno spazio chiuso isolato, ben delimitato e fuori dall'ambiente quotidiano. All'interno del cerchio sacro (d'ora in poi chiamerò così il cerchio magico del sacro) abbiamo tempi scanditi, precisi e delle regole rigorose accettate di comune accordo tra i partecipanti; regole che servono anche per impedire la fine del gioco.

Un esempio dei giorni nostri può essere: un avvenimento come un malore di uno dei partecipanti alla celebrazione della SS Messa, non deve condurre alla sospensione e ad una totale interruzione del rito, ma nemmeno ad una conclusione affrettata. Ovviamente si permette a chi di dovere di prestare le necessarie cure, ma senza che questo ponga fine alla celebrazione. Questo set di regole, come quelle del gioco, non è fisso, ma “interpretabile”. Esistono preti che, non curandosi di questa prescrizione, hanno fermato la cerimonia ed altri che, all'opposto, hanno continuato nonostante la morte di un fedele30. Qui la vita ordinaria fa

un passo indietro, ma è sempre pronta a far valere le sue regole.

Ricordo ancora quando, da bambina partecipando ad una Messa, nel mezzo di un'orazione entrò in chiesa un tale, il quale urlando, si mise a proclamare la venuta del diavolo. Dopo lo sconcerto da parte di tutti i presenti, questa persona fu allontanata e si poté riprendere il gioco-Messa. Inizialmente vi fu lo sforzo attivo, da parte di tutti, di tentare d'ignorare il nuovo arrivato. Quando la situazione arrivò ad un punto critico (pena la rottura del gioco), intervennero delle persone così da arginare la fuoriuscita dal gioco. Questa persona, ignara di tutto, si stava comportando come un guastafeste.

La creazione di un cerchio sacro, quindi la delimitazione di un luogo consacrato, è la prima caratteristica di ogni azione sacra (nonché del gioco stesso).

“Ovunque si tratti di voto, di entrata in un Ordine o confraternita, di giuramento, di segreta alleanza, vediamo in qualche modo una siffatta delimitazione entro i 30 Trento, muore in Chiesa, il parroco continua la messa, Repubblica, 24 gennaio 2008.

cui confini vale il fatto stesso. Il mago, l'indovino, il sacerdote cominciano a circoscrivere il loro spazio consacrato. Sacramento e mistero presuppongono un luogo sacro. Formalmente una tale delimitazione è assolutamente una e identica per un fine sacro o per un puro gioco”31.

Ma è ancora di più. Quello che secondo Eugene Fink colpisce dapprima nel culto umano è la

distinzione:

“Un boschetto, un angolo di foresta qualsiasi, una collina o una particolare zona della città viene delimitata, viene tagliata dal rimanente regno terrestre con dei confini sacri […]. Su questo terreno si erigono i templi. […] E tra la folla degli uomini normali ne vengono prescelti alcuni, innalzandoli al di là della vita ordinaria”32.

Già la terminologia usata da Fink (“tagliare”, “delimitare”, “innalzare”), rende evidente cosa significa operare una distinzione. Non solo il luogo sacro, ma anche il “prescelto”, ossia il sacerdote, è isolato, separato ed innalzato. Il prete che sacrifica e consacra, è il primo ad essere sacrificato e consacrato. È vicino, ma allo stesso tempo lontano dalla moltitudine dei suoi simili. Come il tempio rappresenta e santifica tutti i luoghi di una città, allo stesso modo il sacerdote per l'umanità. Le cose sacre del culto si separano e rappresentano quelle non sacre: così il tempio diventerà la casa dell'uomo, l'altare la tavola, l'agnello o il pane consacrati diventeranno cibo.

Il divino stesso è raffigurato, in maniera quasi paradossale, come unione di presenza e assenza. È onnipresente ed è altrove. Trascende il mondo, ma lo penetra in ogni momento. È raggiungibile solo con la fede. Il fedele non vede la divinità con gli occhi. Per questo è necessaria la figura del sacerdote poiché lo rappresenti. Il prete è il rappresentante di Dio in terra. Tiene vivo il rapporto con il sacro. Non siamo più nell'età dell'oro, dove le cose risplendevano della luce del mondo, ma è come se “la polvere della quotidianità” si fosse posata su di esse, dice Fink. Dunque il culto deve elevare poche cose, toglierle dal quotidiano, per farle brillare di nuovo e interpretarle come simboli. Perciò:

“Il culto è già un comportamento derivato della stirpe umana, è il ricordo di un rapporto mondano, che non era ancora determinato dalla differenza tra sacro e non sacro e dalla cosciente distanza dell'uomo con gli dei”33.

31 Huizinga, J., Homo Ludens, Einaudi, p. 25.

32 Fink, E., Il gioco come simbolo del mondo, Hopefulmonster, p. 114. 33 Ivi, p. 117.

Il culto cerca di ripristinare un rapporto con il mondo attraverso la mediazione. Strappa poche cose e le eleva ad una sfera superiore d'infinito.

Il culto sacro si compie e si svolge nei termini della festa. Portando ad esempio sia quelle greche sia quelle africane, Huizinga afferma che è a mala pena possibile distinguere tra “l'aria generale di festa e la sacra commozione per il mistero centrale”. Si pensi alle danze, gare, rappresentazioni, pranzi, nonostante i riti cruenti o il tormento degli iniziati, o ancora le maschere paurose, tutto l'insieme si svolge come una festa. Gioco e festa sono collegati intimamente, soprattutto dal tratto distintivo nella coscienza.

Il tratto comune del “fare come se, del fare un po' per gioco” si ritrova qui, pena l'etichetta di guastafeste. I primitivi sono vittime attive dell'inganno. Stanno attuando la loro lusory

attitude che già era esercitata dai giocatori e attori. Nella descrizione delle cerimonie

magico-sacre è impossibile non ricadere nella termini usati nella nozione di gioco. Nel concetto di gioco stesso è possibile vedere, meglio qui che altrove, il paradosso di credere/non credere, del moto fuori/dentro, unito/separato, serio/non serio che caratterizza anche il sacro. Nel culto vi è una struttura fenomenica che rappresenta le cose e gli uomini in rapporto con le divinità. Per i greci gli dei avevano sede nel mondo; il dio cristiano invece no, è piuttosto il mondo ad avere sede in lui. In qualunque caso si ha il bisogno di avere delle cose che li presentifichino, che li rappresentino. Fossero anche una statua marmorea, un libro sacro, un tempio, un altare. Queste servono a tenere vivo il rapporto con il sacro. È questo che fa dire a Fink che “il sacro è un eco dell'integrità del mondo”. Quando questa integrità viene a mancare, il sacro deve apparire.

L'uomo è “cieco di fronte al mondo”, viene assorbito da esso, ma non sta in rapporto con esso. L'uomo vive in una strana ambivalenza con il tutto. Egli è essenza aperta, ma a causa di tutte le cose da cui è rapito non presta attenzione al tutto. Per lo più l'idea del mondo viene recepita come un qualcosa che ci pungola, come qualcosa che ci rende irrequieti spiritualmente. E ci accontentiamo di ciò mentre siamo occupati dalla nostra quotidianità. Il mondo è il nostro palcoscenico, ma di rado ci soffermiamo a pensare ad esso. La sua incommensurabilità ci spaventa e ci affascina. Questo pensiero rimane un intermezzo, un caso fortuito per poi ritornare alle nostre occupazioni concrete e vicine. Il mondo mitico ci appare come “un paese incantato” e il culto come un originale e autentico rapporto con il mondo. Per l'uomo primitivo tutto ciò non è accettabile. Esso non è né un animale, né un uomo moderno. Il culto, per lui, è commercio con il sacro, con la divinità. Nulla è fatto a cuor leggero, perché davanti ai demoni si prova paura e terrore; a nulla valgono il coraggio o il lavoro contro essi (le due

cose più serie). Difatti l'uomo arcaico non lavora e non combatte contro i demoni, non può nulla contro loro.

“(I demoni) Senza alcuno sforzo fanno dell'uomo ciò che a loro piace. Potremmo designare questo facile, arbitrario e sconcertante commercio delle potenze demoniache con l'uomo proprio come un gioco. I demoni giocano con noi. Siamo marionette nelle loro mani, siamo il loro impotente giocattolo. E all'uomo arcaico essi non si mostrano nemmeno come sono, come sono in realtà, […] giocano continuamente a rimpiattino in una sorta d'inquietante travestimento, […] Essi sono sempre mascherati”34.

Queste divinità eterne non hanno bisogni, quindi tutto ciò che fanno è staccato dalle necessità. Vivono nell'ozio. Giocano con l'amore, con il lavoro, con la guerra. Sono piuttosto dei passatempi, non vengono presi con la stessa serietà propria dell'uomo. Non esiste “game over” per gli dei. Basti pensare ai poemi omerici, dove le divinità si schierano a favore o contro gli esseri mortali. Lì la loro lotta fu per gioco, perché non potevano morire. Non hanno bisogno nemmeno dell'uomo, ma lo continuano ad importunare: talvolta a favore, talvolta contro. Non vogliono nulla da lui. Giocano con lui come fa un bambino con la sua bambola, che la manipola con o senza cura. Questo pensiero ricorre spesso nella storia, per esempio nel dialogo Le Leggi di Platone35.

Nel corso della storia, questa credenza nei demoni si scompone in potenze buone e cattive. Vengono collocati e catalogati in figure stabili. Diventano poi appartenenti ad un luogo, si scompongono in divinità minori e maggiori, a secondo delle loro funzioni. L'uomo sente il bisogno di gestire le proprie paure e lo fa attraverso la parola, dando nomi e ordine alle cose, come se questo lo potesse proteggerlo da pericoli esterni.

Pur rimanendo inafferrabili per l'uomo primitivo in quanto tale, al mutarsi delle potenze demoniache cambia anche il comportamento degli uomini verso essi. S'inizia a pensare che possano essere influenzati, persuasi dalla condotta degli esseri umani. Gli dei saranno benevoli se propiziati e viceversa. Per esempio nel poema omerico dell'Iliade il dio Apollo, infuriato con i greci per il rapimento di Criseide (figlia di Crise, sacerdote di Apollo), per vendicare l'affronto, decimò le schiere achee con le sue terribili frecce.

34 Ivi, p. 126.

35 L'opera della vecchiaia, rimasta incompiuta, dove il rapporto fra uomini e dei viene interpretato nella prospettiva del gioco: “l'uomo è il giocattolo degli dei”. Qui il gioco è il modo in cui le divinità agiscono verso gli uomini: quest'ultimi sono nelle mani delle divinità come i giocattoli lo sono per i bambini.

Nell'alleanza con i demoni l'uomo può sperare di portarli dalla sua parte, grazie a preghiere, offerte e suppliche. Questa diventa una vera e propria pratica sacrale, fatta di momenti rituali. L'elemento chiave per potersi rapportare con i demoni diventa la maschera. Senza essa l'uomo è in balia, è alla completa mercé dei demoni. Anche quest'ultimi si mascherano, pur restando però sconosciuti. Solo Semèle ha l'ardire di chiedere a Zeus di mostrarsi nella sua vera forma, difatti morirà per questo colpita da un fulmine. L'uomo invece, rimane sempre nella forma che già ha, indipendentemente dal camuffamento che usa36. Così facendo l'uomo ha la possibilità

di “apparire nell'ambiguità e nella polivalenza”, come sostiene Fink. Come nella Mimicry del gioco, di cui parlavamo qualche capitolo indietro, qui non si tratta né di copia né d'inganno. Mettendosi la maschera, come nel teatro, l'uomo acquista qualcosa in più: rimane se stesso, ma va anche oltre. Il fine di questo gioco è poter partecipare al cerchio magico dei demoni.

“La maschera non deve sviare, deve produrre l'incantesimo. La maschera in un certo modo libera dall'inevitabile immobilità e fissità della nostra situazione vitale. Si può essere nuovamente tutto. […] Nel gioco mascherato può opporsi ai demoni, disporli alla benevolenza o cacciare indietro gli intenzionati al male. Non si tratta di vincere in astuzia […]. Ma quello a cui cedono è il potere magico, che acquistano nel mascheramento”37.

Non è un gioco senza impegno, al contrario il rischio e il pericolo sono sempre in agguato. Per questo è orchestrato da uomini esperti nella magia sacra. La maschera non è un gioco o qualcosa con cui si gioca, ma è qualcosa in cui si gioca. La maschera ha una “qualità magica”, dice Fink. I processi di lavorazione della maschera stessa sono atti di culto. La tecnica diventa sacrale, si distacca dal lavoro profano di tutti i giorni. È un oggetto tabù, dove nemmeno gli iniziati hanno il diritto di toccarla. Di per se è un oggetto magico, ma acquista potenza solo se indossata dallo stregone. Egli diventa una figura ammirata e temuta, in quanto diventa in un certo senso egli stesso una potenza demoniaca. La maschera non è un mezzo per creare ambiguità, anche se la genera (come nel paradosso del gioco). Né un mezzo per ottenere la potenza magica. Il culto arcaico scaturisce dalla paura e in risposta a questo che diventa principalmente rituale ed esecuzione pratica. Lo stregone con i suoi aiutanti, “nel cerchio delle maschere”, viene investito da capacità straordinarie, ma non le ha in sé, le possiede solo grazie alla maschera. Il carattere fondamentale della maschera non è il suo essere copia e nemmeno di somiglianza (dato che i demoni sono inconoscibili, quindi sarebbe solo una

36 Per esempio, a differenza dell'uomo, Zeus ha il potere di tramutare se stesso in qualunque cosa egli voglia: uno stallone, in pioggia d'oro, un toro bianco.

raffigurazione molto fantasiosa). L'importante è quello che ne deriva dopo averla indossata. Lo stregone riesce ad essere contemporaneamente “uomo e leopardo”, ottenendo questo potere riesce a resistere alle potenze malvagie e ad allearsi a quelle benevole.

Non vi è nulla di puerile nell'indossare la maschera. Cadendo sotto il suo potere, l'officiante riesce a capovolgere le sorti. È lui adesso che fa paura, è diventato ciò che prima era inafferrabile e temuto. “È la vittoria della finzione”, dice Fink. Avviene una commistione fatale di Mimicry e Ilinx. Questa fa presa su tutto il gruppo, il rituale è solo l'inizio. Da l'avvio ad un vero e proprio delirio, una frenesia ed eccitamento. Si devono spingere fino al limite, arrivare quasi all'annullamento di sé, per poi riemergere come svuotati.

“La festa, il dilapidare i beni accumulati durante un lungo intermezzo, la sregolatezza divenuta regola, ogni norma capovolta dalla presenza contagiosa della maschera, fanno della vertigine collettiva il punto culminante e aggregante dell'esistenza pubblica”38.

Questo avviene anche ai giorni nostri quando, dopo aver timbrato il cartellino all'uscita da lavoro, lo si timbra il sabato sera nei locali, dove tutti insieme e autonomamente, decidono di ubriacarsi con il frastuono della musica e dell'alcool. È un'altra forma, imbastardita e sconsacrata, di vertigine e mimesi. Si ritrovano qui come depotenziate, quasi addomesticate. Ora portano solo ad uno smarrimento incomprensibile, passeggero. Questi episodi sporadici non bastano però, ad esaurire le forze dirompenti della maschera e della vertigine. Il rischio che queste possano irrompere nella nostra società e che facciano precipitare la folla in una mostruosa frenesia è sempre presente.

Come nel gioco della Mimicry, il gruppo si cala attivamente nella parte. Sono uomini in carne ed ossa, ma sono altro.

“Il gioco cultuale fa vedere cos'è l'uomo, […] com'è piccolo ed insignificante di fronte agli dei […]. Il gioco cultuale diventa lo spettacolo della comunità durante la festa divina, diventa epifania della potenza divina e paradigma del dolore umano. E nel gioco, che i giocatori umani compiono come servizio solenne agli dei […], essi giocano in modo abbastanza singolare ‘ad essere giocati’, giocano il proprio ruolo umano, […]. Nel gioco umano si compie la rappresentanza e la ripetizione simbolica di un gioco molto più grande, più globale, il cui carattere ambiguo noi intuiamo attraverso la tragedia e la commedia dell'esistenza umana”39.

38 Caillois, R., I giochi e gli uomini, Bompiani, p. 107.

Il gioco cultuale nella vita dell'uomo arcaico, non è un fatto marginale. È un atto di autochiarificazione e autointerpretazione. Da dunque sia orientamento, sia partecipazione con e contro le forze demoniache. Come per il gioco abbiamo la consapevolezza dell'in-lusio. Tutti sanno chi si nasconde sotto la maschera, ma questo non rovina il gioco anzi si ha proprio dall'intenzione rappresentativa la premessa su cui si fonda il gioco. Anche qui si sceglie di seguire la lusory attitude, di cui abbiamo parlato in precedenza. Si ritrova dunque il carattere positivo dell'apparenza, non sentita come una potenza ingannatrice e nefasta, ma al contrario. Con l'irrealtà del gioco si entra in una realtà più profonda e più vera. Fa quasi apparire il gioco degli dei agli occhi dell'uomo. Primus in orbe deos fecit timor40, la paura creò i primi dei sulla

terra.

Il sacro dunque non è un concetto che pienamente corrisponde ad un qualcosa, ma è piuttosto un processo di elaborazione del terrore, è una traduzione d'emergenza. Ciò che viene messo in scena con il sacro, ovvero la sua rappresentazione, è il tentativo di togliergli la sua spaventosa estraneità, al fine di renderlo familiare, accessibile e comprensibile. Il sacro quindi, nasce dal profano. È il suo antagonista che lo circoscrive, delineandone i contorni. Le azioni magico cultuali come i riti, le danze, la possessione, l'esorcismo, l'esaltamento, l'estasi, sono tutte volte a padroneggiare il terrore. Sono già delle performance, dove paura e fascinazione si mescolano indissolubilmente insieme. La prassi sacrificale è polo di aggregazione sociale.

“I sacrifici sono tentativi di riparazione. Per loro tramite, qualcosa deve essere eliminato dal mondo. […] Placare una volta sola non basta. Il sacrificio va compiuto sempre di nuovo. È paradossale. Il sacrificio vuole placare qualcosa di spaventoso, ma è esso stesso spaventoso. Vuol far sparire qualcosa dal mondo.

Nel documento I normali e gli altri. Gioco e filosofia (pagine 33-42)