LA TASSAZIONE DEI PROVENTI DA ATTIVITÀ ILLECITA
2.2 Il primo intervento del legislatore: la Legge 24 dicembre 1993, n 537
2.2.2. Obblighi formali e accertamento
Una volta chiarito che i proventi di natura illecita non costituiscono una categoria autonoma, ma devono essere assimilati a quelli da fonte lecita è necessario interrogarsi in merito al fatto che essi debbano essere dichiarati e in caso di risposta affermativa come ciò si possa armonizzare al principio nemo tenetur se detegere. Anche in questo caso le posizioni sono molto contrastanti tra coloro che, in considerazione che l’omessa dichiarazione non solo comporta l’evasione dell’imposta sui redditi prodotta, ma anche la violazione delle disposizioni in materia di dichiarazione dei redditi con conseguente
sanzione, si sono detti favorevoli o contrari all’applicazione delle sanzioni, mentre un’altra parte degli studiosi si è espressa per l’obbligo di dichiarazione da parte del contribuente anche dei proventi illeciti, ma ha ritenuto altresì che, a fronte dell’irrogazione della sanzione, il contribuente potrebbe opporre il diritto per se stesso di tacere.116 In questo caso la grande diversità esistente tra i possibili proventi da fonte
illecita deve portare a una particolare attenzione al fine di chiarire le circostanze in cui l’inserimento dei dati nella dichiarazione dei redditi può ingenerare la nascita del sospetto sulla provenienza degli stessi. Anche su questo aspetto la Corte di Cassazione ha avuto un atteggiamento non condivisibile: con sentenza della Cassazione penale, sezione III, n. 408 del 2 maggio 1996, infatti, ha ritenuto applicabili le sanzioni previste ritenendo che la prescrizione del non autoincriminarsi valga solo nel processo penale.117
116 Le posizioni sono così sintetizzabili: da un lato i contrari come G. FALSITTA, Sono tassabili i proventi di
furti e rapine?, cit., p. 262 che dichiara che: “[…] la violazione dell’art. 24, 2° comma, della Costituzione che
così si consuma è quanto mai evidente”; dall’altro i favorevoli, come L. TOSI, La tassazione dei redditi da
attività delittuose, p. 115 per il quale: “[…] sono poche le annotazioni che richiedono l’esplicitazione della
liceità o illiceità della fonte produttiva”; infine coloro che ritengono che il contribuente possa opporre il silenzio come A. MARCHESELLI, Legittimità costituzionale, p. 490 per il quale. “[…] se e nella misura in cui il
corretto adempimento di tali obblighi formali avrebbe comportato il rendere edotto l’ufficio procedente di fatti agevolmente qualificabili come illeciti”.
117 Tale giudizio sembra confermabile anche alla luce della sentenza della Cassazione civile, sezione V, 30 settembre 2011, n. 20032 per la quale: “La circostanza che il possesso dei redditi possa costituire reato e che l’autodenuncia possa violare il principio “nemo tenetur se detegere” a parte il rilievo che tale principio non è costituzionalizzato, è sicuramente recessiva rispetto all’obbligo di concorrere alle spese pubbliche ex art. 53 predetto”. Andrà inoltre detto che anche il diritto positivo sembra andare in questa direzione: l’articolo 14 della Convenzione penale di Strasburgo ratificata dall’Italia con la L. 28 giugno 2012, n. 110 stabilisce che anche chi abbia sostenuto il costo della corruzione incorre in sanzione se omette l’indicazione di tale componente nella sua dichiarazione dei redditi. Sull’aspetto di cui sopra si veda P.
CORSO, La Convezione penale sulla corruzione e i “reati in materia di contabilità”, Corriere tributario, 35,
2012, p. 2728: “La norma convenzionale esige dall’autore di un reato corruttivo una dichiarazione fiscale
contra se, pena la commissione di un ulteriore reato”. Già la Corte di Cassazione, con sentenza del 19 aprile
1995 aveva stabilito che: “[…] non è opponibile la considerazione della non configurabilità di un dovere del contribuente, in sede di dichiarazione annuale dei redditi di denunciare se stesso quale autore di reato; il rilievo, in tesi, potrebbe portare ad escludere gli estremi della dichiarazione ommessa o infedele; nella parte in cui non dia notizia dei proventi di attività criminosa, e quindi ad elidere le conseguenze che la norma tributaria collega a tale omissione o infedeltà (problematica esorbitante dal dibattito), ma non ad introdurre una ragione di esenzione rispetto ai redditi oggettivamente compresi nell’imponibile”.
Secondando l’opinione della Cassazione, quindi, si può inferire che i proventi illeciti devono sempre essere dichiarati.
Appare opportuno dare qualche elemento esegetico in relazione per l’appunto alla portata del provvedimento in esame. Innanzi tutto è chiaro che il legislatore ha voluto ricondurre la fattispecie dei proventi da attività illecita nel novero di quelli di origine lecita allo scopo di inserirli all’interno dei proventi da tassare. A tale scopo si perviene chiedendosi se il contribuente sia entrato o meno in possesso del reddito che si vuole tassare, senza chiedersi la modalità attraverso la quale si è pervenuti a questo arricchimento. Pur tuttavia, anche alla luce di alcune sentenze della Corte di Cassazione, non vi è ancora pienamente chiarezza su queste premesse. Così ad esempio la Cassazione civile, sezione V, con sentenza n. 1058 del 18 gennaio 2008 ha ritenuto che debbano essere puniti tanto l’utilizzatore finale della tangente, cioè colui che ne è entrato in possesso stabilmente, tanto colui che l’ha girata ad altri e che, perciò, non ne è più in possesso. In questo caso, infatti, la tangente non costituisce una componente della base imponibile, in quanto non rappresenta la remunerazione per l’attività prestata. Non dando valore a quanto riportato qui la Corte di Cassazione ha attribuito all’imposta un valore confiscatorio in netto contrasto non solo con l’articolo 53 della Costituzione, ma anche con l’articolo 1 del TUIR, che stabilisce quale debba essere il presupposto dell’imposta sul reddito.
2.3. Il secondo intervento del legislatore: l’articolo 36, comma 34 bis del D.L. n.