LA TASSAZIONE DEI PROVENTI DA ATTIVITÀ ILLECITA
2.3. Il secondo intervento del legislatore: l’articolo 36, comma 34 bis del D.L n 223/2006
Un secondo intervento diretto del legislatore si è avuto a una certa distanza dal primo del 1993 con l’introduzione del comma 34 bis all’interno dell’articolo 36 del D.L. 4 luglio 2006, n. 223.118 Tale comma ritorna sulla questione della tassazione dei proventi di
natura illecita: prevede, infatti, che: “In deroga all’articolo 3 della legge 27 luglio 2000 n. 212, la disposizione di cui al comma 4 dell’articolo 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537, si interpreta nel senso che i proventi illeciti ivi indicati, qualora non siano classificabili nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, sono comunque considerati redditi diversi”. La ragione dell’inserimento di questo comma è da ricercarsi nell’esigenza di fornire uno strumento semplice che superasse le molte criticità riscontrate nel tentativo di applicare il comma 4 dell’articolo 14 della L. 537/1993. Anche in questo caso -‐ e ancora più scopertamente rispetto a quanto avvenuto per il primo intervento, forse per prevenire l’incertezza che aveva caratterizzato la questione sul primo intervento – il legislatore ha voluto intervenire per mezzo di una legge interpretativa autentica e ciò si evince anche dalla circolare dell’Agenzia delle Entrate del 4 agosto 2006, n. 28/E.119 Tale circolare aveva disposto
che: “interpretando autenticamente il testo della disposizione riportata, il comma 34 bis dell’art. 36 stabilisce che qualora i proventi illeciti non siano classificabili nelle altre categorie di cui all’art. 6, comma 1, sopra richiamato, i medesimi vengono inquadrati, anche ai fini della determinazione, nelle categorie dei redditi diversi di cui agli artt. 67 e ss. del TUIR”.120
118 Tale intervento era stato preceduto, se pure per argomenti affini e dei quali si darà conto nel capitolo successivo, dall’articolo 2, comma 8 della legge n. 289/2002 in cui si nega la deducibilità dei costi commessi a illeciti penali.
119 In questo senso anche i pronunciamenti giurisprudenziali quali ad esempio: Cassazione civile, sezione V, 6 giugno 2007, n. 13213; Cassazione civile, sezione V, 7 agosto 2009, n, 18111; Cassazione civile, sezione V, Ordinaria, 5 gennaio 2010, n. 37; Cassazione civile, sezione V, 13 maggio 2011, n, 10578.
120 Andrà qui notato che la stessa Agenzia delle Entrate, con circolare 42/E del 26 settembre 2005 ha chiarito, in altro ambito, che l’indeducibilità dei costi da reato deve essere applicata dal primo di gennaio del 2003, atteso che la norma che la disciplina è la L. 289/2002.
La norma contiene in sé in modo esplicito l’indicazione sulla sua natura interpretativa: viene infatti dichiarato esplicitamente che è emanata in deroga al principio di irretroattività della legge tributaria, contenuto nell’art. 3 dello Statuto del contribuente; pertanto si afferma con forza la sua efficacia retroattiva in forza della quale, ponendosi come norma interpretativa della legge del 1993, che a sua volta retroagiva non solo fino al 1986, ma addirittura al 1973, trova il suo ambito interpretativo indietro di più di 30 anni. La modifica del 2006 assume una rilevanza determinante in rapporto alle problematiche applicative della previgente tassonomia in materia, inoltre risolve i contrasti giurisprudenziali e della dottrina sorti rispetto alla possibilità di un unico criterio onnicomprensivo che consente la tassazione di tutti i proventi illeciti. La criticità più grande, infatti, concerneva l’applicazione del requisito che permetteva la classificazione dei proventi illeciti in una delle categorie di cui all’art. 6 del TUIR.
L’argomento di maggior contendere, tuttavia, è correlato al contenuto delle disposizioni, in quanto la norma, con la sua pretesa di ricondurre i proventi non classificabili nella categoria dei redditi diversi dell’articolo 67 del TUIR, si pone in netta opposizione al TUIR stesso. Nella Legge 537/1993, infatti, attraverso la necessità di ricondurre a singole categorie reddituali i proventi illeciti, il legislatore da un lato riafferma che l’arricchimento deve essere tassato secondo quanto previsto dal DPR 917/1986, dall’altro dà a intendere che non è assolutamente rilevante la distinzione sulla natura di tale arricchimento. Nella legge del 2006, invece, la scelta operata è in netto contrasto con l’azione fin qui condotta: viene infatti chiesto di considerare redditi i proventi illeciti che
sua sponte non lo sarebbero. In questo modo, come anticipato già alla fine del
precedente paragrafo, l’imposta viene ad ammantarsi di connotati sanzionatori e ciò in contrasto con l’articolo 53 della Costituzione.121 La scelta appare quasi quella di
prevedere all’interno dei redditi diversi una sorta di categoria residuale comprendente i redditi diversi di natura illecita, che è costituita dai redditi di cui all’articolo 6 del TUIR non sottoposti a sequestro o confisca. A proposito di questo aspetto si possono dare due condizioni:
121 In questo senso taluni rilevano la violazione del principio di uguaglianza: le donazioni infatti non sono rilevanti ai fini delle imposte sul reddito, mentre le rapine e i furti, che sono il contraltare illecito delle donazioni, verrebbero tassati.
-‐ i proventi derivanti da attività illecite che non rientrano in alcuna delle categorie reddituali, anche se mancano degli elementi che consentono la quantificazione dell’incremento derivante da un’attività vengono inseriti nella nuova fattispecie dei rediti diversi;
-‐ i proventi illeciti che presentano elementi di dubbia classificazione rispetto alle categorie reddituali di cui all’art. 6 del TUIR, i quali sono comunque classificabili alla stregua di reddito imponibile vengono riportati alla categoria di redditi diversi.
La prima interpretazione guarda alla lettera della norma laddove quest’ultima indica i proventi illeciti senza alcuna altra attribuzione, così da far intendere che lì debbano essere ricompresi tutti i proventi illeciti, senza alcuna inferenza sulla loro natura giuridica e in riferimento alla tipologia dell’illecito. La seconda interpretazione presuppone il richiamo alla nozione di reddito imponibile emergente dal sistema delle imposte dirette: il provento illecito viene assoggettato all’imposta solo se connotato da elementi tipici del reddito.
Un ulteriore punto di confronto è quello inerente la decisione di intervenire con una legge di interpretazione autentica.122 La critica è connessa alla considerazione che tale
intervento ha natura innovativa, più che ad altri rilievi quali la deroga al principio di irretroattività della norma, o alla mancanza di orientamenti differenti o alla mancata rilevanza della necessità dell’intervento. In tale modo il legislatore ha anche voluto superare il divieto posto dall’articolo 3 della Legge 27 luglio 2000, n. 212 attraverso l’escamotage fornito dall’articolo 1, comma 2 dello stesso Statuto dei lavoratori.123
Tale previsione quindi si caratterizza per un profilo di incostituzionalità molto più grave, dal momento che essendo retroattiva e anche sanzionatoria, viola apertamente il principio di irretroattività della legge penale. Infatti a riprova del fatto che si tratta di legge interpretativa molto sui generis sarà necessario notare che l’intervento del 2006
122 Si veda su questo aspetto M. NUSSI, La deriva sanzionatoria del prelievo fiscale sugli interventi illeciti, Rassegna tributaria, 2, 2010, p. 502.
123 All’articolo 3, infatti lo Statuto dei lavoratori stabilisce che “[…] salvo quanto previsto dall’articolo 1, comma 2, le disposizioni tributarie non hanno valore retroattivo” e all’articolo citato si prevede che: “[…] l’adozione di norme interpretative in materia tributaria può essere disposta soltanto in casi eccezionali e con legge ordinaria, qualificando come tali le disposizioni di interpretazione autentica”.
modifica l’impostazione della tassazione al punto tale che le disposizioni “sovvertono le basi fondamentali della tassazione reddituale e appaiono prive di ogni logica”.124 Se
questa rappresenta la pars destruens della riflessione in merito all’intervento del legislatore, è pur vero che esiste anche una pars construens: la norma infatti non si pone solo in contrasto con lo schema impositivo fin qui tratteggiato. Permangono infatti tutte le disposizioni che impongono la ricerca della corretta categoria reddituale sancita dal TUIR, l’identificazione dell’esatta categoria di appartenenza non viene depauperata di efficacia, al più si indica cosa deve accadere nel caso la ricerca risultasse infruttuosa. La portata innovativa della norma è significativa, ancorché non accolta senza critiche, in quanto, con riferimento al principio di uguaglianza che deriva direttamente dalla Costituzione, statuisce che ogni attività illecita idonea alla produzione di ricchezza può venire a costituire presupposto del costituirsi dell’obbligazione tributaria a prescindere dalla possibilità che essa possa rientrare nella classificazione prevista dal TUIR per i redditi leciti.