riduzione di valore dell’azione. Più diffusamente su come tali fattori incidano sul valore di un’opzione, e perché, cfr. F.J.FABOZZI,F.MODIGLIANI eM.G.FERRI, Foundations of Finan-
cial Markets and Institutions, 2nd ed., 1997, Prentice Hall, p. 562; J.C. HULL, Opzioni Futures e Altri Derivati, trad. it. di E.BARONE, Milano, 1997, p. 156 ss.
(79) Cfr.B.J.HALL e K.J.MURPHY, Optimal Exercise Prices, cit., passim; B.J.HALL eK.J.
MURPHY, Stock option for Undiversified Executives, cit., passim.
(80) Per un’esposizione delle ragioni per cui la massimizzazione di valore dell’investimento azionario nel lungo periodo è l’obiettivo al quale gli amministratori dovreb- bero tendere, anche nell’interesse dell’intera collettività, cfr. M.C.JENSEN, Value Maximiza-
tion, Stakeholder Theory, and the Corporate Objective Function, in 7 European Financial Management Review, 2001, p. 297 ss.
Sembra infatti che lo scenario paventato possa essere in larga parte scongiurato, o me- glio possa di regola risultare un’eventualità ex ante non conveniente per gli stessi manager, se: (a) il quadro istituzionale di riferimento preclude ai manager di poter trarre profitto dal vantaggio informativo che essi hanno rispetto al mercato circa le condizioni patrimoniali e le aspettative reddituali della società; (b) la stessa società, nell’esercizio del- la propria autonomia negoziale, “calibra” le condizioni che regolano l’esercizio delle stock
option, adottando alcune specifiche soluzioni aventi funzione “cautelare”.
(a) Per quanto concerne il quadro istituzionale, occorre innanzitutto ricordare che
l’efficienza del mercato, nell’accezione semi-forte della locuzione, è il postulato di parten- za dell’impiego delle stock option (poiché, altrimenti, se si esclude a priori la possibilità di mercati almeno tendenzialmente efficienti, le stock option non avrebbero a priori ra- gione di essere utilizzate in alternativa ad altre forme di compenso aleatorio) (81).
Pertanto, salvo che non si voglia contestare tale postulato e quindi negare alla radice l’utilità delle stock option, si deve – per coerenza – presumere che il mercato è tenden- zialmente in grado, di regola, di apprezzare la discrasia tra le prospettive della società sul breve periodo e quelle sul lungo periodo. Ne consegue che un’eventuale strategia gestio- nale esclusivamente di breve periodo non ha realistiche probabilità di avere successo (i.e. di provocare un rialzo delle quotazioni).
Tuttavia, è importante tenere presente che, come anticipato, questa conclusione è vin- colata al ricorrere di alcuni specifici presupposti in ordine al quadro istituzionale e al rego- lamento contrattuale.
Infatti, è la stessa teoria dei mercati efficienti a dirci che il mercato non può apprezza- re lo scarto tra breve e lungo periodo che caratterizza una specifica gestione imprenditoria- le se non dispone delle informazioni capaci di incidere sul prezzo (price sensitive) di cui i manager sono in possesso o, peggio ancora, se le informazioni che sono rese pubbliche sono state oggetto di una dolosa alterazione da parte del management.
Il che allora spiega l’importanza del quadro istituzionale, poiché mostra come le nor- me che, nei sistemi a capitalismo avanzato, vietano le transazioni sui titoli della società ef- fettuate dai manager sulla base di “informazioni privilegiate” (il c.d. insider trading) e quelle che assicurano la completezza e la veridicità delle informazioni destinate al mercato (la c.d. disclosure), oltre a consentire in via generale il funzionamento del sistema di ricer- ca ed elaborazione delle informazioni che è alla base delle teoria dell’efficienza dei merca-
ti (82), hanno anche un ruolo decisivo nel ridurre ex ante il rischio di short termism provo- cato dalle stock option, poiché impediscono ai manager di (o meglio, di fatto, rendono più rischioso) poter sfruttare il loro vantaggio informativo (rispetto a dati price sensitive) eser- citando le opzioni di cui dispongono e vendendo le relative azioni.
Considerazioni queste che inducono altresì a sottolineare l’importanza che sul piano dissuasivo assume, ai fini che qui interessano, la possibilità per il mercato di monitorare le transazioni effettuate dai manager sui titoli della società (assicurata da una specifica nor- mativa di disclosure, convenzionalmente definita nel nostro ordinamento giuridico come disciplina sull’internal dealing, al fine di distinguerla dalla normativa sull’insider trading) (83). È ovvio infatti che maggiore è il rischio di essere sanzionati, minore è ex ante l’incentivo dei manager a porre in essere gli illeciti in questione.
(b) Chiarito il ruolo che il contesto istituzionale di riferimento può svolgere, occorre
rilevare che non meno incisivo appare il ruolo dell’autonomia negoziale. Molteplici sono invero le modalità attraverso cui le società concedenti possono neutralizzare, o meglio ri- durre, il rischio di short-termism che l’attribuzione di stock option ai manager può com- portare.
In primo luogo, le società possono attribuire le stock option stabilendo che solo una frazione di esse sia esercitabile in ciascun esercizio sociale. In altri termini, le opzioni so- no ripartite in diverse tranche con date di esercizio e di decadenza calibrate in maniera tale da evitare la sovrapposizione temporale di ciascuna tranche. Si contiene così il rischio de- rivante dalla concentrazione degli interessi dei manager (ad incrementare il valore delle azioni) in uno specifico esercizio (84).
(81) Cfr. supra, in questo capitolo par 2.1.
(82) Sottolineano come la disciplina sull’insider trading sia diretta a preservare l’incentivo alla ricerca e valutazione delle informazioni C.ANGELICI, Diritto Commerciale, Roma-Bari,
2002, p. 171; R.COSTI eL.ENRIQUES, Il mercato mobiliare, in Tratt. dir. comm. diretto da G. Cottino, vol. VIII, 2004, Padova, p. 228 ss. ove si trova anche una sintesi dei principali termini del dibattito in argomento; G.FERRARINI, La nuova disciplina europea dell’abuso di mercato, in Riv. soc., 2004, p. 52. Per un’approfondita riflessione sulla disciplina di disclosure v., anche per ulteriori riferimenti bibliografici, R.COSTI eL.ENRIQUES, op. cit., p. 195 ss.
(83) V. sul punto anche infra, capitolo IV, par. 8.3.
(84) Si potrebbe criticare l’efficacia di tale misura rilevando che siffatto pericolo di “ec- cessiva concentrazione” si può comunque verificare se il manager esercita di volta in volta le stock option e non vende le azioni in tal modo acquistate. Si osservi tuttavia che le due situa- zioni, in termini di incentivi e propensione al rischio, sono ben differenti. Nel caso possegga stock option out of the money il manager decidendo di perseguire una politica esclusivamen- te di breve periodo non rischia di perdere alcuna somma di denaro qualora il mercato abbia percezione di tale strategia e dunque penalizzi tale scelta, aspetto che invece deve tenere in
L’efficacia di siffatta procedura di “scaglionamento” può tuttavia risultare fortemente attenuata quando, per circostanze diverse (ad esempio per un’eventuale crescita improvvi- sa dei mercati ovvero per l’accumulazione di una quantità notevole di azioni da parte del manager), si concretizzi in un determinato momento la possibilità per il manager di gua- dagni tali da superare il costo-opportunità (85) (i.e. il valore presente dei guadagni attesi derivanti dallo stipendio e dalle stock option il cui termine non è ancora maturato) e il co- sto reputazionale (i.e. il discredito che i manager ricevono sul mercato dei servizi manage- riali) che una strategia esclusivamente di breve periodo (del tipo “prendi i soldi e scappa”) può comportare per i manager.
Rispetto a suddetto rischio la società potrebbe quindi ritenere opportuno imporre ai manager di conservare le azioni acquisite tramite l’esercizio delle opzioni sino a che non sia trascorso un certo lasso di tempo dall’esercizio, se non addirittura solo successivamen- te all’interruzione del rapporto con la società.
A prescindere dall’effetto controproducente che quest’ultima soluzione può avere in termini di fidelizzazione (86) (poiché può indurre i manager che abbiano fatto crescere il valore della società a non rinnovare il loro rapporto con la medesima così da poter eserci- tare le opzioni ormai in the money), si deve rilevare rispetto ad entrambe le ipotesi che l’obbligo di conservazione delle azioni (la c.d. clausola di lock-in) comporta per i manager un onere aggiuntivo sia sul piano finanziario (per la ricchezza immobilizzata nelle azioni acquistate dietro versamento del prezzo di esercizio) sia per quanto riguarda il rischio d’impresa sopportato (che non sarà più influenzato da loro scelte ma da quelle di altri sog- getti, i nuovi manager). Per compensare detto onere la società potrebbe quindi essere co- stretta a incrementare il numero di stock option concesse e sostenere pertanto un costo maggiore (87).
Analoga riflessione può del resto svolgersi con riferimento a quella condizione che subordini la possibilità di esercizio dell’opzione al raggiungimento di una determinata quotazione da parte del titolo sottostante e al mantenimento di tale quotazione per un certo lasso di tempo. Da un lato, una clausola siffatta rende più difficile, e incerta nell’esito, la conduzione di politiche esclusivamente di breve periodo; dall’altro lato essa rende meno