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La rapida crescita dei paesi emergenti e il problema dei fondi sovrani sovrani

Nel documento Rapporto 2007 (.pdf 3.0mb) (pagine 22-28)

A differenza delle economie sviluppate, i paesi in via di sviluppo, in special modo le economie emergenti, hanno dimostrato di saper reggere con successo allo scompiglio dei mercati finanziari ed al suo impatto sull’attività delle im-prese provocato dalla crisi dei mutui subprime. La crescita delle economie di questi paesi è continuata ininterrotta per tutto l’anno 2007, e il differenziale tra i loro tassi di interesse ufficiali e quello dei mercati monetario e finanziario se-gnava a fine anno solo un lieve incremento rispetto ai valori prevalenti prima dell’avvio della crisi.

In verità, è sorprendente costatare come si sia generalizzato il processo di rapida crescita tra i paesi in via di sviluppo. Secondo le stime di fine d’anno della Banca Mondiale, nel 2007 il prodotto interno lordo è mediamente au-mentato di circa il 10,0% nell’Asia dell’Est, l’8,4% nell’Asia del Sud, il 6,7%

nell’Europa dell’Est e nell’Asia Centrale, il 6,1% nell’Africa Subsahariana, il 5,1% nell’America Latina, il 4,9% in Medio Oriente e nell’Africa del Nord. E tra questi paesi spiccano per la straordinarietà e la continuità dell’espansione delle loro economie i grandi paesi del BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) e i paesi che gli americani definiscono del “prossimo miliardo” (Indonesia, Mes-sico, Malesia, Argentina, Africa del Sud). La crescita del PIL è stata lo scorso anno dell’ordine dell’11,2% in Cina, dell’8,9% in India, del 7,7% in Russia, del 5,7% in Brasile, del 6,4% in Indonesia, del 7,3% in Malesia, dell’8,7% in Argentina, del 4,6% nell’Africa del Sud.

In questo contesto è sempre particolarmente degna di nota la posizione oc-cupata dalla Cina e dall’India, sia per il loro peso demografico – da soli questi due paesi contano ormai più di 2,5 miliardi di abitanti, il 40% circa della popo-lazione mondiale – sia per la profondità dei cambiamenti che caratterizzano le loro economie. In Cina, nel 2007, la produzione industriale ha continuato ad espandersi ad un tasso a due cifre così da segnare a fine dicembre un incre-mento del 17,4%. Lo sviluppo economico ha portato alla formazione di una classe media che si è andata progressivamente allargando sino a contare oggi qualche centinaio di milioni di persone. L’esigenza di soddisfare la crescente domanda di materie prime e di beni di consumo ha determinato una impenna-ta, un aumento del 31% rispetto all’anno precedente, delle importazioni, specie di energia, di minerali, di prodotti alimentari, tanto da farne uno dei maggiori importatori del mondo. Ciononostante, l’aumento delle esportazioni, essen-zialmente di prodotti manufatti, è stato tanto rapido da portare questo paese a contendere alla Germania il primato di primo esportatore mondiale e da con-sentire all’attivo della sua bilancia commerciale di raggiungere il livello record di 261 miliardi di dollari, contro i 35 miliardi del 2004. Le riserve di divise e-stere della Cina hanno così raggiunto a fine gennaio 2008 il totale di 1.589 mi-liardi di dollari. Non è dissimile l’evoluzione dell’economia in India.

L’industria sta progressivamente soppiantando i servizi come motore della crescita: nell’anno 2006-2007 la produzione manufatturiera è aumentata del 12,7%. La crescita dell’economia sta determinando la formazione di una clas-se media ormai largamente superiore ai 200 milioni di persone. Le importa-zioni di materie prime e di petrolio e le esportaimporta-zioni di beni manufatti sono sempre più sostenute.

Con la loro massiccia presenza sul mercato mondiale questi due paesi, la Cina in particolar modo, hanno contribuito in misura determinante allo

svilup-po del commercio mondiale, circa un +6% nel 2007, ed alla crescita dell’economia dei paesi produttori di materie prime. Ma allo stesso tempo essi hanno concorso in misura non meno decisiva all’eccezionale aumento del prezzo internazionale del petrolio e delle materie prime agro-alimentari ed alla conseguente drastica ripresa dell’inflazione che ha gravemente colpito, oltre alle loro economie, l’economia dei paesi sviluppati e di tutti gli altri paesi in via di sviluppo. A febbraio 2008 l’indice dei prezzi al consumo segnava un aumento su base annua pari all’8,7% in Cina contro il 2,7% dell’anno prima, al 5,5% in India, al 12,7% in Russia, al 4,6% in Brasile, al 7,4% in Indonesia, all’8,4% in Argentina, al 9,3% nell’Africa del Sud. Si sono così determinate, tra le altre cose, le condizioni per un ulteriore aumento delle disparità sociali, come in Cina e in India dove sono ancora centinaia di milioni le persone che vivono al di sotto della soglia della povertà, o come in Africa dove il numero dei poveri ha continuato a crescere tanto da superare i 300 milioni.

Una simile crescita dei paesi emergenti è destinata evidentemente ad avere un impatto di grande rilievo sull’economia mondiale e sulla sua organizzazio-ne. In queste pagine può essere sufficiente richiamare l’attenzione sul fatto che la nuova realtà determinata da una tale crescita prova senza ombra di dubbio che è ormai in avanzata fase di decollo un processo destinato a modificare pro-fondamente i rapporti di forza che hanno caratterizzato nel passato l’economia mondiale.

Un primo elemento di questa nuova realtà concerne i destinatari delle e-sportazioni dei paesi emergenti e, più in generale, dei paesi in via di sviluppo.

Nel caso, ad esempio, della Cina, della Corea del Sud e di Taiwan l’aumento del loro contributo alla crescita dell’export mondiale è accompagnato, a partire dall’inizio del secolo, da una progressiva riduzione della quota diretta alle maggiori economie del mondo e da un concomitante graduale aumento delle quote destinate ai paesi del BRIC, dell’ASEAN e del Medio Oriente. In modo analogo, le esportazioni dell’America Latina e dell’Africa verso la Cina, l’India e gli altri paesi dell’Asia sono aumentate, in termini relativi, in misura nettamente superiore a quelle dirette verso i paesi dell’OCDE. Negli ultimi sei anni le importazioni cinesi dall’America del Sud si sono più che sestuplicate.

E lo scorso anno gli scambi cino-africani hanno superato i 55 miliardi di dolla-ri con un saldo positivo di 2,1 miliardi a favore degli afdolla-ricani.

Un secondo elemento è dato dal continuo aumento del numero delle impre-se di paesi emergenti che per l’entità dei loro fatturati, il volume dei loro inve-stimenti all’estero e per la loro alta capacità di gestire marche globali, di gene-rare nuovi prodotti, di creare valore e di produrre profitti rappresentano per le imprese delle economie sviluppate degli importanti concorrenti. Un rapporto del Boston Consulting Group pubblicato nel dicembre 2007 ha, ad esempio,

individuato ben 100 imprese con base nei principali paesi emergenti e con un fatturato superiore a un miliardo di dollari che per il possesso di una marca globale, o la presenza all’estero di proprie reti distributive, o di propri centri di produzione o di ricerca, o per l’acquisto di imprese, o per le leadership conqui-state in specifiche categorie di prodotti possono essere considerate delle im-prese multinazionali.

Ebbene, dall’analisi di queste imprese emerge che, come gruppo, esse sono una forza economica impressionante. Il loro volume d’affari complessivo ha superato nel 2006 i 1.200 miliardi di dollari e registrato, come media annuale del triennio 2004-2006, una crescita dell’ordine del 29 per cento. Negli ultimi anni le stesse imprese hanno realizzato dei profitti sostanziali – nel 2006 esse hanno generato in media un margine operativo pari al 17 per cento, superiore cioè di tre punti alla media delle 500 imprese considerate per costruire l’indice Standard Poor’s 500 di Wall Street – che hanno consentito loro di rimunerare in modo assai vantaggioso gli investitori e, allo stesso tempo, di acquistare be-ni e servizi, di aumentare gli investimenti in ricerca e sviluppo, di acquistare imprese e marche nelle stesse economie sviluppate. L’acquisto nella terza de-cade del marzo 2008 di due delle imprese più famose dell’industria automobi-listica mondiale, le britanniche Jaguar e Land Rover, da parte dell’indiana Tata Motors è una conferma incontrovertibile della capacità competitiva raggiunta da questo gruppo di imprese. Può essere inoltre interessante notare che di que-ste 100 multinazionali 41 sono cinesi, 20 indiane, 13 brasiliane, 7 messicane e 5 russe e che ben 12 di esse operano nel settore agro-alimentare.

Ma l’elemento che nel 2007 ha contraddistinto nella misura più ricca di si-gnificati le modificazioni indotte nell’organizzazione dell’economia mondiale dalla rapidità e dalla continuità della crescita dei paesi emergenti è l’ingresso in massa dei loro fondi sovrani nei mercati finanziari delle economie sviluppa-te.

Un ingresso questo certamente importante per la sua ampiezza e per la fun-zione da esso assolta. Come si è già accennato, tra la fine dell’anno 2007 e gli inizi del 2008 le maggiori banche del mondo occidentale hanno potuto supera-re le difficoltà connesse alla caduta di liquidità, alle svalutazioni e alle perdite in bilancio causate dalla crisi dei mutui subprime grazie all’apporto massivo di capitali da parte dei fondi sovrani dei paesi emergenti. Citigroup, la prima banca del mondo, ha ceduto alla fine dello scorso novembre una partecipazio-ne del 4,9% al suo capitale per 7,5 miliardi di dollari al fondo Abu Dhali Investment Autority degli Emirati Arabi Uniti e a metà gennaio 2008 ha rac-colto oltre 12,5 miliardi di dollari dal fondo GIC di Singapore e dal Reserve Fund for Future Generations del Kuwait. Il 10 dicembre scorso lo stesso fondo GIC di Singapore ha iniettato 10 miliardi di dollari nel principale gestore di

fondi, la svizzera UBS, con un’operazione che gli permetterà due anni dopo di detenere circa il 9% del suo capitale. Il 19 dicembre dello stesso mese China Investment Corporation, il fondo sovrano della Cina, ha investito 5 miliardi di dollari nella statunitense Morgan Stanley ricevendo come contropartita una quota pari al 9,9% del suo capitale. Infine, la vigilia dello scorso Natale Mer-rill Lynch, la più grande casa mondiale di brokeraggio, ha aperto il capitale al fondo Tomasek di Singapore con la cessione di una quota equivalente a 4,4 miliardi di dollari.

Ma a rendere ancor più ricco di significati l’ingresso dei fondi sovrani dei paesi emergenti nel mercato finanziario internazionale è la situazione parados-sale che ne è derivata. Con questo ingresso si è determinato uno scambio di ruoli del tutto impensabile sino a ieri. Contrariamente a quanto era sempre ac-caduto nel passato, in questo caso sono i paesi in via di sviluppo a correre in soccorso dei paesi sviluppati. E questo non è tutto: grazie ad un simile aiuto i fondi sovrani sono diventati degli azionisti stabili e dotati di un elevato potere di controllo.

Si sono così ravvivate in non pochi ambienti e anche a livello di governi e di organismi internazionali, le perplessità e le preoccupazioni circa il possibile impatto futuro dei fondi sovrani dei paesi emergenti sull’economia dei paesi del mondo occidentale. Le operazioni di fine 2007 e inizio 2008 erano infatti state precedute da una serie di acquisti di partecipazioni in grandi gruppi inter-nazionali che gli stessi fondi sovrani avevano compiuto nei mesi precedenti.

Ad esempio, nello scorso mese di settembre il fondo sovrano della Cina aveva acquistato il 10% del capitale di Blackstone, il fondo americano di private e-quity che conta partecipazioni in una quarantina di grandi gruppi statunitensi ed europei, e i fondi sovrani del Quatar e del Dubai avevano fatto il loro in-gresso nel London Stock Exchange per quote pari rispettivamente al 20 ed al 28 per cento.

Alla base di queste perplessità e preoccupazione è la particolare natura di questi fondi. Un fondo sovrano è un fondo nel quale uno stato colloca sotto forma di azioni le risorse finanziarie che è andato accumulando grazie all’attivo della bilancia commerciale, come è il caso della Cina, di Singapore e della Corea del Sud, o attraverso i ricavi della vendita di petrolio, come accade per la Russia, gli Emirati Arabi Uniti e gli altri paesi del Golfo. Questi fondi sono dunque di proprietà statale e controllati dai governi. Si tratta inoltre di fondi dotati di una elevata potenza finanziaria. Una stima di fine dicembre 2007 valuta pari a 3.000-3.500 miliardi di dollari il totale delle loro risorse fi-nanziarie, un valore quindi all’incirca pari a una volta e mezzo il prodotto in-terno lordo dell’Italia, e prevede che nel 2015 questo totale possa giungere a toccare il livello di 15.000 miliardi.

Tuttavia ciò che più preoccupa è l’opacità che in gran parte dei casi caratte-rizza la loro gestione e, data la natura dei proprietari, il pericolo che questa ge-stione possa essere influenzata dalla presenza di interferenze politiche. Vi è il timore che uno stato possa usare il proprio fondo sovrano non per far fruttare meglio le proprie riserve finanziarie, ma piuttosto per conquistare un accesso diretto alle idee e alle tecnologie di imprese straniere e portarsele poi via, o per delocalizzare a proprio favore gli impianti produttivi, o per influenzare in fun-zione della propria politica di potere i prezzi, i mercati, la finanza di altri paesi.

Basti pensare al fatto che la maggior parte dei paesi pone dei vincoli alla natu-ra dei proprietari delle banche perché i governi spesso ganatu-rantiscono i depositi, e che la fiducia nelle banche è alla base del sistema finanziario. Potrebbe inol-tre accadere che il controllo di certi grandi gruppi industriali e finanziari che i governi dei paesi occidentali hanno privatizzato negli anni passati venga tra-sferito verso paesi dove la politica esercita un ferreo controllo sull’economia.

Per queste ragioni l’Unione Europea ha recentemente proposto ai fondi sovra-ni di darsi un codice volontario di condotta atto ad assicurare la maggiore tra-sparenza nei rapporti tra fondi ed autorità di governo, e si è impegnata, se la proposta non fosse accolta, a predisporre un proprio provvedimento legislati-vo. Un comportamento analogo è stato proposto al Fondo Monetario Interna-zionale. Vi sono inoltre paesi, come la Germania, che progettano di bloccare eventuali investimenti non desiderati da parte di fondi sovrani con strumenti analoghi al Committee on Foreign Investments statunitense. Ma in questi casi il rischio che si corre è quello di dare vita ad una sorta di protezionismo attra-verso il quale sono i paesi a definire e scegliere chi può investire e in quale set-tore investire.

In ultima analisi, la supremazia dei paesi occidentali che per decenni hanno dominato l’economia mondiale viene messa in discussione dall’espansione dell’economia dei paesi emergenti. Questi paesi stanno dimostrando d’essere capaci di integrarsi pienamente nell’economia mondiale e di sapere usare la globalizzazione come leva per potenziare il loro sviluppo. I loro tassi di cresci-ta sono cresci-tanto sostenuti da metterli nelle condizioni di sostituire i paesi svilup-pati come motore dell’economia mondiale. Per usare le parole di James Wal-fensohn, il penultimo presidente della Banca Mondiale, “i paesi ricchi conti-nueranno ad avere un ruolo centrale, ma il potere economico sempre più in-fluente dei paesi emergenti dovrà essere accompagnato da più voce in capitolo nelle grandi questioni politiche”.

Nel documento Rapporto 2007 (.pdf 3.0mb) (pagine 22-28)