A questo punto della trattazione appare già chiaro il carattere distintivo dell’azione di condanna rispetto alle altre azioni di cognizione.
L’azione di condanna è stata concepita nel sistema processuale civile in funzione strumentale all’esecuzione forzata, pertanto essa assomma all’accertamento del diritto controverso un qualcosa in più che fa sì che la condanna costituisca titolo esecutivo.
La richiesta di questo quid pluris è dunque ciò che vale a distinguere l’azione di condanna, dall’azione di accertamento mero: più precisamente se l’esigenza di tutela emerge, nella domanda come conseguente all’affermazione di un diritto semplicemente contestato (o vantato) e perciò abbisognevole solo di certezza obiettiva, l’azione sarà di mero accertamento, se invece la domanda contiene l’affermazione di un diritto violato e di un conseguente bisogno di restaurazione sul piano materiale l’azione sarà di condanna.
Tanto nell’ordinamento processuale amministrativo, come in quello civile non vi è un richiamo espresso a tale tipologia di sentenza291.
Anzi, si può affermare che il codice di rito dà per presupposta la nozione di condanna, limitandosi a regolarne ipoetesi particolari (ad es. l’art. 278 c.p.c. in tema di condanna generica), o a disciplinarne taluni effetti (art. 431 c.p.c. in tema di esecutorietà provvisoria della sentenza di condanna relativa ai crediti del lavoratore)292.
Pur in presenza di un panorama normativo così frammentario la dottrina processualcivilista non ha mai dubitato della piena operatività nel giudizio civile dell’azione di condanna in relazione al principio di atipicità delle azioni.
Viceversa il riconoscimento di un potere giudiziario di condanna è stato tradizionalmente osteggiato dalla giurisprudenza tanto con riguardo alla giurisdizione amministrativa, che con riguardo a quella ordinaria.
In riferimento alla giurisdizione ordinaria, il divieto per il giudice di emettere sentenze di condanna nei confronti della p.a. è stato motivato sulla scorta del rispetto formale dell’art. 4 L.A.C.
Tale ultima disposizione invero, lungi dal prevedere un espresso divieto di emettere condanne nei confronti della p.a. si limita a vietare al giudice ordinario di
291
Cfr. M. Clarich, Tipicità delle azioni e azione di adempimento nel processo amministrativo, in dir. proc. amm., n. 3/2005, p. 589.
292
modificare o annullare l’atto amministrativo, sempreché, si intende, si controverta in tema di “diritti civili o politici”.
Malgrado la sentenza di condanna non produca l’effetto di annullare o di modificare l’atto amministrativo, ma di imporre, semmai, che tale attività venga svolta dall’amministrazione convenuta, la giurisprudenza sin dai primi decenni di applicazione della legge abolitiva, si è orientata nel senso di ammettere le condanne pecuniarie escludendo tutte le altre (a un facere, a un non facere, a un dare che abbia un oggetto diverso da una somma di danaro).
La situazione non è dissimile in relazione alla giurisdizione amministrativa. L’azione di condanna nel processo amministrativo è espressamente ammessa, come si è si già detto, soltanto in relazione ai casi di giurisdizione esclusiva e unicamente per il pagamento di somme di cui l’amministrazione risulti debitrice.
Fuori da queste ipotesi il legislatore evita di fare riferimento espresso a tale potere. Così ad esempio l’art. 7 L. 205/00, che ha modificato l’art. 7 L. Tar attribuisce al giudice amministrativo, “nell’ambito della sua giurisdizione”, l’importante potere di “conoscere anche di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali”. L’art. 35, D. Lgs. 80/98 introduce un meccanismo peculiare ed eventuale per la quantificazione del danno, prevedendo una sorta di condanna generica ai danni dell’amministrazione a cui segue una fase di ottemperanza C.d. “anomala”, in ragione della peculiarità del contenuto della sentenza da portare ad esecuzione.
In tutti questi casi il legislatore, omette, come si diceva, di esplicitare che si tratta di un’azione di condanna nei confronti della pubblica amministrazione. L’atteggiamento è il riflesso della tradizionale prudenza che da sempre ha accompagnato l’uso di poteri coercitivi nei confronti della p.a. in ossequio ad una visione particolarmente rigorosa del principio della separazione dei poteri. Principio che fa divieto al giudice di sovrapporre il proprio sindacato alle valutazioni riservate alla discrezionalità dell’amministrazione.
Come si diceva l’originaria concezione dei rapporti intercorrenti tra funzione amministrativa e funzione giurisdizionale è stata intaccata, quale che sia la tesi cui si intenda aderire in ordine alla natura dei provvedimenti giudiziali, dalle predette riforme. Può concordarsi pertanto con chi ha affermato che la vera novità portata dalla sentenza 500799 in tema di risarcibilità dell’interesse legittimo non è tanto nell’avere affermato la risarcibilità del danno anche nelle ipotesi di violazione di meri interessi, ma
nell’aver affermato la configurabilità, per la prima volta di un interesse - diritto al provvedimento293.
La svolta giurisprudenziale sulla risarcibilità dell’interesse legittimo e le conseguenti novelle apportate dal legislatore alle legge Tar, impone per certi versi di sottoporre a revisione critica la stessa contrapposizione concettuale tra diritto e interesse, contrapposizione fondata tradizionalmente sulla diversità di tutela che l’ordinamento amministrativo appresta alle due situazioni giuridiche soggettive.
Nelle pagine che seguono si tenterà, la di là delle questioni definitorie, di chiarire fino che punto possano spingersi i poteri ordinatori del giudice amministrativo nei confronti della pubblica amministrazione.
Ci si soffermerà inoltre nella ricostruzione dell’annosa questione relativa ai rapporti tra tutela risarcitoria (in forma specifica), e tutela reintegratoria ella p.a. al fine di verificare quale sia il reale ambito di applicazione della tutela risarcitoria in forma specifica degli interessi pretensivi.
293
G. Falcon, Il giudice amministrativo, tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di spettanza, cit, p. 303, n.t. 31.