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Gli anni della regina Giovanna II d’Angiò

4. Alfonso d’Aragona è associato al trono.

Le galee aragonesi approdarono nel porto di Napoli il 6 settembre 1420, senza trovare resistenza da parte dei Genovesi che avevano sbarcato tre settimane prima Luigi d‟Angiò. Il giorno seguente Giovanna sottoscrisse davanti agli emissari di Alfonso l‟accordo che stabiliva l‟adozione. Successivamente, il 19 settembre, lo investì del Ducato di Calabria, appannaggio tradizionale dell‟erede al trono, consegnò Castel dell‟Ovo ad una guarnigione aragonese e fece giurare ai deputati napoletani fedeltà al futuro re. Giovanna, in novembre, gli assicurò il controllo dell‟intero Regno, mantenendo però anche aperte le trattative con la fazione angioina415.

Alfonso salpò per la Sicilia nel febbraio 1421 per attendere l‟arrivo di Braccio a Napoli. Da quel momento, giunto a Napoli il 5 luglio 1421 ed inviato come viceré in Calabria il fedelissimo Siscar, Alfonso si cacciò in un groviglio di intrighi e di lotte. Si imbarcò poi per fare il suo ingresso nel Regno, l‟8 luglio 1421, accompagnato dal Caracciolo e da Braccio, mentre la regina e la sua corte si trasferivano a Castelcapuano. Il 20 luglio Giovanna preparò un diploma con il quale erano assegnati poteri quasi illimitati al suo figlio adottivo416.

Frattanto da Messina, il 9 maggio 1421, re Alfonso I, in qualità di figlio adottivo della regina Giovanna II, ad esibizione da parte di Galgano Filocamo e Ambrosio Geria, sindaci dell‟università di Reggio, confermò i capitoli relativi a privilegi e grazie già concesse alla predetta università dalla predetta regina e da re Ladislao. Concesse, pertanto, che gli uomini della città di Reggio non pagassero più di due collette generali affinché possano provvedere alla riparazione delle mura e dei fortilizi; che potessero riavere Motta Rossa e Motta Anomeri con i loro vassalli, terre e diritti acquistati dalla città Reggio, ma tolti con la forza da Carlo Ruffo conte di Sinopoli; che i Reggini che si erano trasferiti nella Motta di San Quirillo in tempi di tirannia, ritornassero a dimorare in

414 Ibidem, p. 297. 415 P

ONTIERI, Alfonso il Magnanimo, p. 24.

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città. Concesse, inoltre, l‟indulto ad Adimario de Celsa e Giovanni de Leopardo, cittadini di Messina in esilio a Reggio, accusati del reato di lesa maestà; ordinò che venissero restituiti a Tuccio Plutino i beni sottratti che possedeva nel tenimento di Pentedattilo, e a Marco Illius una vigna che possedeva a Fiumara di Muro sottrattagli da Carlo Ruffo conte di Sinopoli; restituì alla città di Reggio la giurisdizione che possedeva su certi luoghi e castelli; concesse ai Reggini che avrebbero importato merci ed animali dalla Sicilia di essere trattati come i cittadini messinesi e versare le gabelle come le pagano quest‟ultimi; che tutte le grazie ed immunità concesse fossero per sempre durature e non venissero abolite da altri privilegi né dal re né dai suoi successori; condonò ancora ogni delitto e crimine commesso nei tempi passati; ordinò che l‟ufficio del capitano e quello del castellano fossero con giurisdizione separata; esentò l‟università di Reggio da ogni fideiussione alla quale si trovava obbligata nei confronti del conte di Gerace; che il conte di Sinopoli restituisse i beni che aveva tolto a Giacomo de Lorenzo; che fosse riconosciuta la nomina ad arcivescovo di Reggio dell‟abate Bartuccio de Miroldo, e se approvata canonicamente, potesse costui prendere possesso rapidamente della chiesa Regina; concesse l‟indulto ai cittadini di Reggio e dei luoghi vicini per tutti i reati commessi al presente, se avessero fatto atto di pentimento entro sei mesi; che venisse pagato a Giacomo Gattula ed ai suoi fratelli il dovuto che gli spettava; che i servi venduti da Anducio di Messina ad alcuni uomini di Reggio fossero considerati liberi; che la città di Reggio potesse avere della proprie gabelle, rinnovarle e rimuoverle a suo piacimento; che se il re avesse deciso di reclutare uomini armati a Reggio, i reggini fossero stati liberi di farlo volontariamente; dimezzò agli ebrei della Giudecca di Reggio il versamento del ius marcafe417, per il quale erano tenuti a versare ogni anno due once e sedici tarì; che l‟ebreo Giuseppe Machezeno fosse affidato per l‟università di Reggio418; che a Luigi Sparello e Nicola de Mirabello, notaio, già sindaci dell‟università di Reggio, fosse condonato il debito di ventotto once, contratto con Tommaso de Marinis, per la vendita delle terre di Motta Rossa e Motta Anomeri loro fatta dalla regina Giovanna II, e che fossero processati solo civilmente e non criminalmente; infine, che Onofrio de Marocellis e Stefano Mayrana, che da molto tempo dimorava a Reggio, potesse vivere con la loro famiglia e godere liberamente dei loro beni in città o nel ducato di Calabria, nonostante fossero genovesi419.

417 A Reggio gli Ebrei vissero e lavorarono nel quartiere della Giudecca e, così come accadeva per i loro

correligionari di Nicotera, Catanzaro, Tropea, Cosenza, Altomonte, Castrovillari e Rossano, erano obbligati a pagare un tributo, il ius morcafe, ricordato con il nome di mortafa o markofa (ius mortaphe nel doc. n. 119), definita presso gli Arabi ghezía (e nota anche con il nome di gizia), che consentiva loro di godere della libertà di culto. Questa tassa si aggiungeva inesorabilmente alle altre che gli Ebrei, come tutti i cittadini, pagavano. Spesso queste tasse sulla religione finivano nelle mani delle gerarchie vescovili che sovente, con privilegi emanati dai sovrani, ottennero di godere i diritti e proventi derivanti dai tributi versati dagli Ebrei (cfr. PORSIA, p. 139)

418 Sulla comunità giudaica a Reggio si veda S

PANÒ BOLANI, I Giudei in Reggio di Calabria, pp. 336-346.

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In ottobre, quando Alfonso decise di intervenire, le sue truppe rimasero impantanate dinanzi Acerra. Giovanna riceveva notizie dal Caracciolo che le comunicava i piani degli Aragonesi. A smuovere la situazione fu l‟intervento di Martino V e di Firenze: il primo non aveva fondi necessari per finanziare il suo protetto angioino ed era preoccupato che Alfonso potesse rinfocolare le spinte scismatiche; Firenze, invece, era interessata al commercio con il Regno e aveva bisogno di Braccio per affrontare l‟aggressione dei Visconti. Insieme i loro emissari arrivarono ad una tregua che nelle loro intenzioni avrebbe dovuto portare alla partenza di entrambi gli eredi rivali. Ma il temporeggiare favorì Alfonso, infatti Luigi III abbandonò il Regno nel marzo 1422 e in maggio, lo Sforza firmò una condotta con Alfonso. Giovanna non aveva altra scelta se non quella di seguire il suo erede trionfante. Scoppiata la peste a Napoli, nell‟aprile 1422, entrambi trasferirono le loro corti a Castellammare e, in giugno, a Gaeta, dove Alfonso tentava di ottenere la ratifica papale del suo titolo420.

Proprio da Gaeta, il 27 luglio 1422 re Alfonso I d‟Aragona, con lettera emessa dal monastero della SS. Trinità, prestava assenso al pignoramento della terra e del castello della motta di San Quirillo inserto in un pubblico istrumento presentato al re dall‟università e dagli uomini della città di Reggio421.

Il pignoramento era stato ratificato il 31 maggio mediante contratto rogato dal notaio Giovannuzzo Bosurgi di Reggio, alla presenza di Silvestro Giria giudice ai contratti. Tra i testimoni figuravano Bartolomeo arcivescovo di Reggio, i vescovi di Mileto422 e Gerace, dominus Paolo Mauro, Paolo Moleti, Giacomo Gattula, Rainerio Signorino, Giuliano Pantaleo, il giudice Nicola de

420

G.GALASSO, Il regno di Napoli. Il Mezzogiorno angioino e aragonese, pp. 296-297.

421 Doc. n. 114. La corte aragonese, con il suo corpo di cancelleria al seguito, si trovava anche il 13 luglio

1422 apud monasterium Sancte Trinitatis apud Gayetam, come appare da una lettera inviata all‟arcivescovo di Cagliari per la riduzione della pompa delle cerimonie funebri, che riporta le seguenti note di cancelleria: «De Borja vidit. Petrus de Reus de mandato regis fecit» (cfr.CADEDDU, doc. n. II, pp. 48-49). La permanenza della corte di Alfonso a Gaeta è attestata dal 30 luglio al 14 agosto 1422. La cancelleria emana atti dal monastero della Trinità di Gaeta indirizzati a Francesco Martorell, consigliere regio (VILLALMANZO, docc. 561-564, pp. 370-372). L‟8 agosto 1422, dal monastero della Trinità fuori Gaeta, Alfonso re invia mandato al nobile Giovanni Siscar, vicegerente nel ducato di Calabria, perché reimmetta l‟abate Berardo Caracciolo di Napoli, fratello del gran senescallo del regno, nel possesso dell‟abbazia di Santa Maria di Molochio, in diocesi di Reggio, che teneva in commenda, come appare da bolle pontificie, e dal quale era stato con forza estromesso dall‟abate Cicco di Nicastro (Archivio Corona d‟Aragona, Real Cancilleria, Cartas Reales, Alfonso IV [V], n. 1424r. Cfr. I registri della cancelleria vicereale di Calabria (1422-1453), doc. n. 47, pp. 40-41). Bernardo Caracciolo, chierico napoletano, fu eletto abate commendatario del monastero greco di Santa Maria di Molochio, il 14 maggio 1408 (F.RUSSO, Regesto Vaticano per la Calabria, II, p. 138, n. 9187). Papa Martino V gli confermò la commenda nel 1422 (cfr. Acta Martini P.P. V (1417-1431), tomo I, doc. 218b, pp. 584-586).

422 Questo vescovo di Mileto, Domenico, proveniva da ambienti monastici, probabilmente dei

Francescani o Domenicani. A tal riguardo, scrive Horst Enzensberger: «La figura del „frate vescovo‟ di per sé del tutto estranea agli ordinamenti canonici in senso stretto rientra tuttavia tra le realtà del mondo tardomedievale dove, d‟altra parte, canonici regolari e membri degli ordini mendicanti sono più rappresentati rispetto agli appartenenti agli antichi ordini monastici, cosa per gli ordini mendicanti deriva certamente, almeno in parte, da una struttura interna più adeguata, o meglio adeguabile, alle mutate condizioni sociologiche e demografiche» (cfr. ENZENSBERGER, p. 45).

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Malgeriis, dominus Giovanni Fuffuda, dominus Onofrio Marocello, dominus Stefano Mayrana,

Riccardo Cacumala, Galiotto Barella, il notaio Roberto e Pietro de Mirabello, il notaio Masio de

Sinopulo, il notaio Roberto Brancati e Marco Illius.

Vitale de Valleguarnera, luogotenente nel ducato di Calabria del viceré Giovanni Siscar, per conto di Alfonso, re di Sicilia e Aragona e duca di Calabria, avendo necessità di denaro per pagare gli stipendi degli armigeri a cavallo, pattuì con Antonio de Malgeriis e Marco de Salerno423, sindaci di Reggio, convenuti dinanzi la grande porta della chiesa maggiore di Reggio, il pignoramento e l‟assegnazione all‟università di Reggio del castello e della motta di San Quirillo, con tutti i suoi diritti, redditi e proventi, giurisdizione civile e criminale, eccetto la potestà del gladio, sotto pagamento di una somma di novecento ducati d‟oro, dei quali si sarebbero dovuti versare, entro otto giorni, trecento ducati al predetto luogotenente e centocinquanta al castellano, mentre i rimanenti quattrocento cinquanta ducati entro il mese di agosto, con il patto di retrovendita allo stesso prezzo ed il pagamento degli stipendi di tutto il tempo di durata del pignoramento alla ragione di ventiquattro ducati al mese dovuti per la guardia del castello. Inoltre, i contraenti stabilirono che i Reggini potessero nominare il capitano ed il castellano della motta e che se non potessero pagare la somma del pignoramento, potessero imporre nuove gabelle e avessero facoltà di tassare anche i chierici e gli ebrei, e che fossero rispettati tutti i privilegi, grazie ed immunità già concesse alla predetta motta dalla regina Giovanna II e confermati da re Alfonso. Infine, che gli abitanti della motta potessero raccogliere grano, produrre vino ed olio senza essere molestati dal conte di Sinopoli, il quale non avrebbe dovuto richiedere il ius blave per l‟uso del territorio compreso dal vallone di Scaccioti fino al fiume Torbido424.

Con altro rogito del 1° giugno, vergato pure dal notaio Giovannuzzo Bosurgi presso il convento di San Francesco dei frati minori di Reggio, Vitale de Valleguarnera, luogotenente nel ducato di Calabria del viceré Giovanni Siscar, per conto di Alfonso, re di Sicilia e Aragona e duca di Calabria, rilasciò pubblica apodissa per aver ricevuto da Antonio de Malgeriis e Marco de Salerno, sindaci di Reggio, la somma di trecento ducati dei complessivi novecento, dovuti in acconto per il pignoramento e la vendita della motta di San Quirillo fatta all‟università di Reggio, unitamente ad altri centocinquanta ducati. Tra i testimoni presenti alla redazione del contratto compaiono il regio giudice Alberico Ylliu, Antonio Sgaraglione, dominus Giovanni Fuffuda, Giovanni de Prothopapa, Pietro Pane, Petruccio Cristiano, il notaio Giovanni de Leopardo, Angelo Giria, Antonio Buczurgi, Nicola Illius425.

423 In un contratto rogato a Messina l‟8 aprile 1423, I indizione, Giovannuccio de Androtta, detto

Ambalichi, vende a Marco de Salerno una vigna con alberi e palmento, sita a Reggio nella contrada Tasanitum, per il prezzo di 10 once. Archivio di Stato di Messina, Fondo notarile, notaio Tommaso de Andriolo, aa.1416-1418, vol. 2, cc. 122r-123v: «Pro Marco de Salerno de venditione vinee».

424 Doc. n. 112. Cfr. anche F

ODALE, La Calabria angioina e aragonese, p. 242.

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Ma a quel punto le cose cominciarono ad andare diversamente. Intanto, quando Alfonso spostò la sua residenza ad Aversa, Giovanna e il suo favorito si trasferirono a Pozzuoli. Al momento del loro ritorno a Napoli, nel Natale 1422, entrambe le fazioni erano convinte che fossero in atto dei complotti. Alfonso il 25 maggio 1423 fece prigioniero ser Gianni mentre stava entrando nel castello, poi si diresse verso Castelcapuano con l‟intenzione di giustificare la propria condotta alla regina. Al suo arrivo trovò le guarnigioni e la città in armi e dovette a fatica guadagnare la via per Castelnuovo. Giovanna fece appello allo Sforza il quale vide in ciò l‟occasione per riguadagnare la sua influenza. Il 27 maggio Muzio Attendolo arrivava a Napoli da Benevento e, dopo aver sconfitto un modesto esercito aragonese, occupava la città. La situazione fu rovesciata due settimane più tardi quando l‟arrivo di una flotta catalana permise ad Alfonso di riconquistare Napoli dopo due giorni. Lo Sforza dovette di nuovo salvare Giovanna, conducendola prima a Pomigliano, poi al castello degli Orsini a Nola e, infine, ad Aversa, dove poté rivedere ser Gianni, liberato in cambio di alcuni baroni aragonesi fatti prigionieri dallo Sforza426.

L‟opposizione di Martino V e del duca di Milano Filippo Maria Visconti, ormai signore di Genova, l‟insofferenza della regina contro l‟invadenza aragonese nel governo dello stato, la gelosia del potente favorito di Giovanna II, ser Gianni Caracciolo, che temeva di essere scavalcato dal seguito catalano di Alfonso, contribuirono a determinare la lotta tra la fazione aragonese e quella angioina, che contava sull‟esperienza d‟un condottiero quale Muzio Attendolo Sforza. Il piano di sfidare il papa e l‟Angiò era fallito e obbligava Giovanna a rompere i contatti con l‟Aragonese e con un decreto del 25 giugno fece confiscare le proprietà dei sudditi di Alfonso, che già dall‟aprile del 1423 si trovò assediato nel castello dell‟Ovo. Il 1° luglio la regina revocò, infine, l‟atto di adozione427.