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Reggio al tempo di Ferdinando I d’Aragona

4. Gli statuti dell’università di Reggio.

Frattanto, il 21 luglio 1466, Ferdinando I condonò al nobile Nicola Geria ed all‟università di Reggio la somma di trenta once, da versare alla regia curia, e ordinò che tale somma fosse prelevata dalle gabelle della medesima università, tra cui quella detta «de lo malo denaro»568, ed usata per riparare le mura cittadine danneggiate dalle guerre569. Il 10 novembre dello stesso anno, in seguito delle lamentele degli uomini dell‟università di Reggio, inviò mandato a Gregorio de

Campitello, tesoriere e luogotenente della provincia di Calabria, ed a tutti gli ufficiali, affinché non

andassero contro il tenore dei capitoli dei privilegi concessi alla predetta università, sotto pena di mille ducati per i trasgressori570.

Nel 1469 Nicola de Guidalbis di Rimini ottenne la capitanìa di Reggio, tassata un‟oncia e quindici tarì571. Il 16 luglio dello stesso anno ad Arimberto di Amantea fu confermata la bagliva della città di Reggio, tassata per dodici tarì572.

Molto interessante per la vita e l‟ordinamento amministrativo di Reggio in età aragonese si rivela il diploma concesso nel 1473 alla città di Reggio, con il quale il numero dei componenti il Consiglio generale della città fu fissato in trenta, di cui quindici del popolo ed il resto dei nobili. É notevole, poi, il fatto che in alcune città, come Reggio e Catanzaro, tutti i cittadini potevano intervenire alla pubblica assemblea per l‟elezione delle cariche, purché avessero avuto l‟età richiesta, senza distinzione di ceto; mentre in altre città il diritto di voto era ristretto ad alcuni ordini di cittadini e regolato da norme speciali573.

Il 28 dicembre 1473, con diploma emesso a Reggio, Alfonso, duca di Calabria, concesse dunque all‟università della predetta città, capitoli, privilegi, grazie ed immunità574

. Il duca ordinò che ogni consiglio generale in città si tenesse al suono della campana dinanzi al capitano o al suo

567 I registri della cancelleria vicereale di Calabria (1422-1453), p. 17, n. 19.

568 Da un rogito del 1° settembre 1456, vergato a Lucera, sembra che la gabella del malo denaro sia

identificabile con la quella del vino (cfr. A. PETRUCCI, doc. 55, pp. 163-173). In effetti, si trattava di un‟esazione di grana dieci ad oncia che poteva essere applicata sopra ogni mercanzia in dogana, dunque anche sul vino, i cui proventi venivano impiegati, generalmente, per opere pubbliche.

569

Doc. n. 131.

570

Doc. n. 132. Il 21 marzo 1591 il privilegio fu presentato nella curia del capitano dal magnifico Pietro Angelo Melacrino, figlio del defunto Antonino, per conto del ceto nobile della città di Reggio che ne richiedeva la sua esecuzione.

571 Frammento del „Quaternus Sigilli Pendentis‟ di Alfonso I (1452-1453), p. 68, n. 232. 572

Ivi, p. 121, n. 798.

573 S

PANÒ BOLANI, Storia di Reggio Calabria, II, pp. 17-19; DITO, pp. 237-244; ZENO, I Municipi di Calabria nel periodo aragonese, pp. 287-288, 290.

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luogotenente, giudice o assessore, e tutti potessero parteciparvi senza essere estromessi. Il detto consiglio generale doveva essere costituito annualmente da quindici eletti tra esponenti della nobiltà cittadina e altrettanti tra il popolo, tutti di età superiore ai venticinque anni. I nobili potevano eleggere soltanto i loro esponenti ed allo stesso modo dovevano fare i popolani. Tali elezioni dovevano svolgersi nel giorno della festività dell‟Assunzione, il 15 agosto, e gli eletti, in carica per un anno, non potevano essere candidati l‟anno seguente. I trenta eletti avrebbero nominato quattro sindaci scelti tra i nobili della città; tre mastrogiurati scelti tra il popolo; due giudici annuali, uno scelto tra i nobili e l‟altro tra il popolo o gli artigiani; due uditori dei conti, ossia razionali, uno dei nobili e l‟altro del popolo; l‟ufficio di tesoriere o erario sarebbe invece stato dato ad uno dei nobili. La lista degli eletti doveva essere poi inviata al re che avrebbe confermto due sindaci, due mastrogiurati ed agli altri uffici che riteneva opportuno. In caso fossero stati reputati inidonei, i trenta eletti avrebbero proceduto a presentare una nuova lista di candidati per ottenere la conferma regia, senza la quale nessun officiale poteva esercitare il mandato.

Le adunanze del consiglio, che comprendeva oltre gli eletti, anche i sindaci, mastrogiurati, tesorieri e razionali, si svolgevano nella chiesa di San Gregorio di Reggio, dove si discutevano affari e problematiche della città. In caso di faccende di minore importanza che prevedevano spese inferiori a tre ducati, sindaci e altri ufficiali potevano riunirsi senza la presenza dei trenta eletti.

Ogni questione della città doveva esser ben trattata da tutti gli eletti, esser votata e verbalizzata dal mastrodatti che avrebbe riportato anche i singoli voti e le opinioni degli eletti. Lo stesso mastrodatti dovrà essere eletto annualmente. Se qualcuno dei trenta eletti durante le votazioni del consiglio avesse avuto soggezione dell‟ufficiale regio, quest‟ultimo si sarebbe dovuto allontanare dal consesso e rientrare solo per verificare che tutto si fosse svolto con regolarità.

Gli ufficiali che ricoprivano un incarico annuale non potevano candidarsi per i prossimi tre anni, mentre sindaci, mastrigiurati e giudici dovevano ricevere uno stipendio che erano soliti ricevere.

Il duca ordinava anche che i sindaci, che da tempo erano soliti ricoprire l‟ufficio di mastro mercato, addetto alle cause insorte durante le fiere, non potevano giudicare secondo il loro libero arbitrio, ma dovevano essere assistiti da due cittadini nominati ogni anno dai trenta eletti. I sindaci, inoltre, insieme ai mastrigiurati, al termine del loro mandato annuale, dovevano stare a sindacato del loro operato dinanzi il capitano regio e due cittadini pure nominati dai trenta eletti.

I mastrigiurati in principio d‟anno avrebbero dato al capitano la lista degli uomini addetti alla loro guardia che poteva essere soggetta ad incremento qualora fossero serviti altri uomini per servizio da prestare alla corte e per l‟interesse dell‟università di Reggio.

Ordinava anche che l‟erario avrebbe dovuto ricevere il denaro delle gabelle versate dall‟università che doveva spendere solo su ordine dei trenta eletti, dei sindaci, uditori e razionali,

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tranne nel caso di spese inferiori ai tre ducati, dimostrandone il loro effettivo utilizzo, che altrimenti dovevano essere restituiti all‟università.

Le gabelle potevano esser date in concessione, tramite i pubblici incanti, dai trenta eletti, sindaci e uditori, i quali dovevano esser concordi alla vendita, almeno per due parti, dinanzi ad un notaio che avrebbe stipulato l‟atto di vendita. Il compratore o gabelloto si obbligava a versare il prezzo di vendita della gabella pagando ratealmente all‟erario, il quale poi dava il denaro al regio tesoriere della provincia. Si richiedeva che i gabelloti fossero persone facoltose che fornissero adeguate garanzie per il pagamento delle rate e mettessero sotto ipoteca i loro beni sui quali rivalersi in caso di inadempienza.

I sindaci, l‟erario e ogni altro ufficiale che amministravano gli affari dell‟università al termine del mandato dovevano esser soggetti a sindacato da parte dei loro successori, con l‟intervento del razionale incaricato dalla regia corte di vigilare sui conti delle terre e città demaniali.

Per frenare l‟audacia dei delinquenti che godevano l‟impunità dei delitti commessi, particolarmente per il privilegio che aveva la città di commutare la pena in pagamento di denaro, il duca ordinava che la gran corte possa procedere ugualmente contro coloro che hanno commesso gravi reati per i quali è prevista la pena di morte o di mutilazione di membra.

Il capitano che avebbe superato il termine annuale del mandato non si poteva rimuovere dal suo incarico, ma doveva restare fino alla nomina del suo successore. I mastrigiurati e i giudici annuali o l‟università predetta se avessero pagato il diritto dei dodici tarì ciascuno, non dovevano pagare alcun altro tarì per il rilascio delle apodisse. I baiuli della città non potevano accordarsi con gli allevatori per il pascolo abusivo del loro bestiame al fine di evitare che, in seguito i danni, fossero interamente risarciti, sotto pena di pagamento di quattro once da versare per metà alla corte e metà all‟accusatore. Inoltre anche loro alla fine del loro mandato annuale dovevano essere sottoposti a sindacato del loro operato dinanzi al capitano della città o del suo luogotenente oppure, in loro assenza, dinanzi al giudice o all‟assessore in qualità di ufficiali dalla regia camera della Sommaria.

Il capitano per il salario dovuto per le sentenze delle cause criminali poteva ricevere solo un tarì e quindici grana, vale a dire un tarì per sé, dieci grana per il mastrodatti e cinque grana per il sergente.

Se l‟algozerio fosse andato in città per prelevare delinquenti o eseguire altri mandati ad istanza della corte o dell‟accusatore, la parte accusata non doveva pagare per il suo salario se non quando fosse constatato il delitto nella corte dove, contro il delinquente, si sarebbe proceduto a far pagare un salario di cinque carlini al giorno.

Il duca Alfonso ordinò, infine, che tali capitoli fossero da tutti rispettati per non incorrere nella pena di cento once e che l‟illustrissimo don Enrico, in qualità di luogotenente generale della

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provincia, e qualsivoglia altro viceré e ufficiale, li dovessero fare osservare e pubblicare perché nessuno, con il pretesto di ignorarli, potesse trovare scuse.