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L'amore di sé non come forma di egoismo, ma come scoperta della

Nel documento UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA F (pagine 175-178)

III. L'ESSERE COME PROBLEMA PRATICO: BENEVOLENZA,

1. L'amore come amor benevolentiae e l'etica della riuscita della vita

1.1. Benevolenza come riconoscimento della realtà dell'altro e promozione del

1.1.2. L'amore di sé non come forma di egoismo, ma come scoperta della

sostanzialità

La scoperta dell'altro come sostanzialità reale e incondizionata che precede e fonda ogni aspetto esteriore e qualitativo che posso conoscere direttamente tramite il mio sguardo o la mia percezione, mi mostra l'altro come unica e irripetibile manifestazione dell'Assoluto, e come portatore quindi di un significato incommensurabile, che egli non assume dal mio punto di vista o in virtù del fatto che è per me, ma che gli appartiene in se stesso, universalmente.

La stessa cosa vale d'altra parte nei confronti di me stesso: il sentimento di rispetto di fronte all'Assoluto e la capacità di riflessione sulla mia natura come su quella dell'altro mi permette di comprendere che anche io non sono solo un organismo guidato istintivamente verso l'autoconservazione, né sono solamente “l'altro dell'altro”20; anche in me esiste infatti un fine ultimo, incondizionato, che fa della mia vita un bene sacro, inviolabile, e che si mostra all'altro nel momento in cui lui mi guarda con gli occhi della benevolenza, dell'accoglienza disinteressata. In altre parole, nel momento in cui un uomo abbandona il proprio sguardo oggettivante nei confronti dell'altro, per trascendere nella dimensione senza oggettività né soggettività dell'essere in sé, tanto la sua realtà quanto quella dell'altro si aprono nello spazio

della libertà e diventano visibili vicendevolmente.

L'amore che si rivolge all'altro quando si accetta di vederlo nella sua spontaneità infinita e libera è dunque lo stesso amore che rivolgiamo a noi stessi; anche noi, nella nostra natura vera e assoluta, rimaniamo infatti nascosti al nostro stesso sguardo, non ci comprendiamo e non ci conosciamo fino a che non ritroviamo nell'esperienza della ragione quella distanza da noi che ci permette di riconoscerci non solo come un 'io' per sé, ma come un individuo dotato di una dignità in sé e meritevole per tale motivo di un rispetto incondizionato da parte di tutti gli altri esseri coscienti, non solo da parte di parenti o conoscenti per i quali la sua vita può coprirsi di un valore affettivo privato, 'per loro'.

Considerandolo in questi termini, Spaemann vuole sottolineare che l'amore che proviamo nei confronti di se stessi non è solo quel sentimento di egoismo che siamo soliti indicare con le espressioni comuni di “amor proprio” e “amor di sé”, ma rispecchia al contrario un atteggiamento di benevolenza, di “riconoscimento della realtà al di là dell'oggettività”21, un aprirci a noi stessi senza per questo porci al di sopra degli altri o indirizzare ogni nostra azione alla considerazione solipsistica del nostro 'io'. Non è il mio 'io' in quanto punto centrale e padrone di un mondo che gli appartiene a venir amato e rispettato, bensì la mia persona in quanto immagine dell'Assoluto ed espressione di una finalità in sé, che sa riconoscere un limite alla funzionalizzazione degli enti che la circondano e che manifesta in sé un limite analogo alla funzionalizzazione di se stessa. “Al re la mia vita ma non il mio onore”22 è l'espressione che ci ricorda Spaemann per accompagnarci nella comprensione della sua idea di amore di sé. L'onore di una persona, la sua dignità, è ciò che ognuno di noi percepisce come la cosa più intima di sé, ciò che lo caratterizza come uomo prima ancora di qualsiasi qualità fisica o mentale e che risalta nell'animo come di maggior importanza rispetto addirittura alla vita stessa, in virtù della dimensione infinita ed extra-temporale che proietta l'uomo oltre la condizionatezza propria della sua esistenza puramente materiale. Per questo motivo amare se stessi non è in tal

21 BUCHHEIM T., SCHÖNBERGER R., SCHWEIDLER W. (a cura di), Die Normativität des

Wirklichen. Für Robert Spaemann zum 70. Geburtstag, Klett-Cotta, Stuttgart 2002, p. 10 (trad. it.

A.F.).

senso per Spaemann indice di vanità o narcisismo, bensì segno di accoglienza e rispetto del reale in sé, considerato – come direbbe Kant – “così nella tua persona come nella persona di ogni altro”23. Nella stessa direzione va parimenti l'invito cristiano: “ama il tuo prossimo come te stesso”, che esprime l'apertura benevolente verso l'altro e insieme “implica quell'amore di sé nel quale la persona diventa reale a se stessa”24.

Ma allora – ci si potrebbe chiedere – è sempre dall'amore di sé che si muove il primo passo verso l'amore dell'altro oppure la realtà propria si svela in quanto tale grazie e in seguito al disvelamento di quella altrui?

Spaemann non dichiara la priorità dell'una realtà sull'altra. Nella comprensione della struttura teleologica propria delle forme di vita non coscienti o delle cose inanimate l'uomo procede sì tramite un ragionamento analogico tracciando un rapporto di somiglianza tra sé e gli altri enti (quell'atteggiamento che viene appunto chiamato antropomorfismo, o anche solo biomorfismo per intendere l'analogia generale con cui si considerano i non viventi a partire dai viventi). Ma quando si tratta di aprirsi alla realtà in sé di un fine ultimo quale è ogni essere umano, tale processo di analogia non ha luogo, perché la realtà dell'altro mi si svela spontaneamente in tutta la sua alterità che non ha nulla a che fare con me, cioè che non dipende da me, né può essere compresa come tale a partire da un confronto con la mia.

Certamente, grazie alla facoltà della riflessione, posso riconoscere la mia sostanzialità incondizionata a partire da me stesso, per esempio dalla constatazione del mio rapporto 'ragionevole' con la parte istintiva di me, ma da questo primo passo non segue la comprensione della realtà dell'altro nei termini di “se io sono reale, allora anche l'altro è reale”. Anzi, come afferma Spaemann, potrebbe darsi al contrario “che sia l'amore per il prossimo il percorso lungo il quale avviene il destarsi del proprio io. Il significato della mia vita per un'altra persona può diventare per me il motivo per prendere sul serio me stesso”25. Anche in questo caso, però, non si parla di analogia tra la realtà dell'altro e la mia, ma di due esperienze concrete di

23 KANT I., Fondamenti della metafisica dei costumi, trad. it. F. Gonnelli, Laterza, Bari 2002, p. 91. 24 SPAEMANN R., Glück und Wohlwollen, cit., p. 129; Felicità e benevolenza, cit., p. 127.

accoglienza della realtà, entrambe vissute personalmente, non derivate logicamente l'una dall'altra, la seconda dalla prima.

Esperire la realtà dell'altro non significa immediatamente esperire la mia, ma piuttosto avvertire nell'altro quel carattere assoluto di cui al contempo sento di appartenere anch'io per il solo fatto di riuscire a percepirlo, e da lì desiderare di rivolgere a me stesso il medesimo sguardo libero che ho rivolto a lui e lasciarmi investire dal mostrarsi aperto del mio essere in sé. Entrambe le strade per conoscere se stessi, diretta o indiretta, sono quindi per Spaemann possibili, in quanto, una volta trascesa la prospettiva oggettivista, ci si muove ormai nello spazio dell'accoglienza, del lasciar-essere (seinlassen), dove ogni realtà è libera di mostrarsi nella sua vera natura.

1.1.3. L'amicizia aristotelica come forma più elevata di amor benevolentiae

Nella riflessione sul concetto di amor benevolentiae Spaemann giunge alla formulazione di una relazione particolare tra noi e l'oggetto della nostra benevolenza e riabilita a questo proposito una nozione cara ad Aristotele, la nozione di amicizia, riproponendola alla luce di un concetto moderno sconosciuto al pensiero greco, che è appunto il concetto di persona.

Amare l'altro per se stesso è in primo luogo, secondo Spaemann, il nucleo costitutivo dell'essere “persona tra le persone” e rappresenta quindi il fondamento primo di ogni relazione tra esseri ragionevoli; tuttavia, mentre in tanti rapporti umani la purezza e il carattere libero di tale amore possono essere offuscati o mischiati al proprio interesse, nei confronti di colui che ci sentiamo sinceramente di chiamare 'amico' i tratti della benevolenza si concretizzano nella loro forma più distinta.

L'amico, come lo descrive Aristotele, è colui che viene amato per come egli è nel suo mostrarsi libero a me, non per le qualità di lui che mi possono tornare utili o che acquisiscono particolare significato tra gli altri oggetti che fanno parte del mio ambiente circostante: “egli possiede pregi umani che ne fanno una persona degna di

Nel documento UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA F (pagine 175-178)